“E poi vela le giò questa Bella Scrittura“: analisi linguistica della scrittura di un ambizioso semicolto siciliano


1. Premessa

Il primo notevole spunto per la stesura della presente tesi è stato offerto dalla partecipazione al Masterseminar “L’italiano dei semicolti“, tenuto dal Professor Thomas Krefeld e dalla dottoressa Katharina Jakob alla Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera, il quale verteva sulle caratteristiche linguistiche degli scritti epistolari dei primissimi testi semicolti, pionieristicamente presi in esame dal filologo austriaco Leo Spitzer nel suo Lettere di prigionieri di guerra italiani (1915-1918), raccolta analizzata durante il Masterseminar. Il termine semicolto fa riferimento ad individui dialettòfoni, i quali si servono della lingua italiana, spesso vagamente appresa nei pochi anni in cui si è frequentata la scuola, in forma scritta, attraverso, quindi, un mezzo inserito in una situazione comunicativa lontana dalle usuali circostanze in cui la comunicazione orale avviene; l’uso di tale mezzo richiede, altresì, il rispetto di specifiche e rigide norme redazionali, che risultano, però, estranee alla più libera dimensione orale in cui i semicolti si muovono. Nel corso del Masterseminar e della relativa Hausarbeit, abbiamo notato come diversi degli elementi linguistici indagati da Spitzer fossero rintracciabili anche nelle produzioni di Peppino Rocco Fazio, un anziano familiare siciliano recentemente approcciatosi alla scrittura: questa circostanza ci ha portato alla progettazione e allo sviluppo della presente tesi.

Durante il Masterseminar si è provveduto, altresì, alla creazione di un corpus virtuale sul portale Lehre in den Digital Humanities (d’ora in avanti: DH), gestito dall’IT-Gruppe Geisteswissenschaften della LMU, in cui è stato possibile inserire le produzioni dei prigionieri di guerra analizzate da Leo Spitzer nell’ottica di una conservazione imperitura dei dati linguistici raccolti; allo stesso modo abbiamo pensato di usufruire di questa opportunità offerta dalla piattaforma per assemblare un nostro corpus consultabile online (link), costituito dalle produzioni di Peppino Rocco Fazio.

2. Introduzione

Una preliminare disamina del materiale scelto e selezionato per la nostra analisi ha portato alla generale individuazione delle caratteristiche puramente linguistiche che potrebbero accomunare la produzione di Peppino Rocco ad altri testi semicolti. Il precipuo obiettivo di lavoro della nostra tesi sarà quello di indagare in maniera più approfondita tali elementi, ponendo, però, allo stesso tempo, l’attenzione sulla figura del parlante e sulle personali motivazioni che lo hanno indotto ad approcciarsi al testo scritto, al fine di comprendere se le cause e le intenzioni di scrittura dell’uomo, così come i risvolti pragmatici delle sue produzioni, possano essere accostabili alle caratteristiche riscontrante e delineate dai linguisti durante lo studio sui testi semicolti. Si può, infatti, ipotizzare che le produzioni di Peppino Rocco Fazio siano collocabili sotto questa categoria di italiano, specie dal punto di vista della forma linguistica da esse assunta, ma che, allo stesso tempo, esse se ne distanzino soprattutto per l’atteggiamento che l’uomo assume rispetto alla scrittura e per il rapporto che egli ha con la stessa.

Peppino Rocco Fazio, come emblematicamente riportato nel titolo del presente lavoro, è un semicolto “ambizioso“, che sembra mirare, tramite la propria scrittura, al riconoscimento e all’ammirazione del lettore, ma che, nel contempo, dimostra anche una certa tendenza al miglioramento della stessa, deducibile dal processo di autocorrezione che, come vedremo, fa parte del suo metodo scrittorio. Ulteriore elemento che caratterizza Peppino Rocco è inoltre la capacità di riflessione sulla propria lingua, come dimostra il frammento riportato ancora nel nostro titolo: “E poi vela le giò questa Bella Scrittura“ <<e poi ve lo leggerò, questo bello scritto>>, indicativo passaggio in cui risulta assai evidente, da una parte, la tendenza dell’uomo alla condivisione della propria produzione, la quale non assume mai un carattere “privato“, nonostante i generi testuali in cui egli si muove (epistolare e memorialistico), e dall’altra il desiderio di dimostrare di saper fare, e anche bene, con la lingua, come sottolinea l’aggettivo “Bella“, chiaro indizio di un autocompiacimento delle proprie capacità nello scrivere, come avremo modo di osservare nel corso della nostra trattazione.

Il piano della tesi si articola in quattro diversi capitoli centrali: partendo da una generale ma doverosa premessa di tipo variazionale, inserita al fine di individuare su quale base teorica gli studi sull’italiano dei semicolti si poggino e delineare concettualmente al meglio entro quale ambito linguistico ci muoveremo, nel capitolo Il quadro teorico: la variazione linguistica e l’italiano dei semicolti si illustreranno i principali orientamenti teorici riguardanti anzitutto la linguistica delle varietà, con le sue implicazioni sociolinguistiche, per poi passare alle diverse questioni teoriche legate al dibattito sullo studio dell‘italiano popolare e dell‘italiano dei semicolti

Come già chiaramente indicato nel titolo, il capitolo “Io sono Peppino Rocco Fazio“ contestualizzazione del soggetto scrivente si occuperà di fornire una fotografia biografica, sociolinguistica e caratteriale della figura di Peppino, resa possibile dalle ricostruzioni effettuate tramite sia l’aiuto delle due figlie dell’uomo, sia gli stessi racconti autobiografici che egli stesso fornisce nella sua produzione. Ma non solo: si illustreranno, infatti, più a fondo le cause e le motivazioni che portano il soggetto alla scrittura, oltre che le sue aspirazioni, e, tramite l’impiego di un questionario autovalutativo somministratogli, vedremo quali considerazioni egli faccia rispetto alla lingua impiegata nelle proprie produzioni, elemento chiave nell’interpretazione che possiamo dare. In questo capitolo si fornirà, altresì, una prima illustrazione dei caratteri generali riscontrabili, a livello fisico-visivo, strutturale e tematico, delle tipologie di testo utilizzate dal nostro semicolto: la lettera, da un lato, e le memorie ed i pensieri dall’altro, rientranti in una produzione databile tra il 2016 e il 2019.

Il capitolo “Metodologia“ racchiude invece le scelte da noi effettuate sia nel processo di conversione dal formato cartaceo al formato digitale delle produzioni di Peppino, processo che ha comportato la trascrizione sulla piattaforma DH, sia nella selezione e nella disposizione del materiale che verrà poi analizzato nell’ultimo capitolo della presente. In questa parte si illustrerà, inoltre, quale sia stato il metodo seguito per la creazione di un corpus online, in un’ottica di ricerca futura, secondo i princìpi seguiti nella linguistica dei corpora.

Nell’ultimo e centrale capitolo della nostra trattazione si prenderanno, infine, in esame alcuni frammenti ed intere lettere tratte dal corpus, che verranno analizzati a più livelli linguistici (fonetico-grafematico, morfosintattico, lessicale, testuale e pragmatico) da un punto di vista esemplare e rappresentativo di tutto il corpus da noi creato, il quale, però, è bene sottolineare, non può considerarsi come ultimato, in quanto, durante la stesura della presente tesi, Peppino Rocco Fazio ha continuato la sua incessante produzione scritta, fornendo così ulteriore materiale che potrà essere inserito nel corpus in futuro.

3. Il quadro teorico: la variazione linguistica e l’italiano dei semicolti

3.1. La variazione linguistica: un’introduzione

Prima di addentrarci negli studi sulla definizione dell’italiano dei semicolti e sulle sue specificità, al fine di comprendere al meglio il motivo per il quale esso abbia costituito e costituisca tuttora un interessante e non poco dibattuto oggetto di studio da parte dei linguisti, è doverosa una generale premessa di tipo socio-variazionale, utile all’introduzione delle terminologie ed concetti tradizionalmente propri della sociolinguistica e della cosiddetta “linguistica delle varietà“ (deu. Varietätenlinguistik). Questa branca della sociolinguistica si è sviluppata proficuamente, con tale denominazione, nella tradizione tedescofona1; le sue origini sono essenzialmente da rapportare agli studi condotti negli anni Cinquanta dal romanista norvegese Leiv Flydal (1952) e alla successiva nota tripartizione delle dimensioni variazionali ad opera del linguista e filologo Eugenio Coseriu (1973), in seguito ripresa e riproposta nel modello di Koch/Oesterreicher  (1985;1990).

3.1.1. Sociolinguistica e linguistica delle varietà

La sociolinguistica ha come oggetto di studio i rapporti che intercorrono fra lingua e società ed indaga i meccanismi sociali, economici e culturali alla base dei diversi comportamenti linguistici dei parlanti2, oltre che delle conseguenti diverse produzioni in lingua originate da specifiche situazioni comunicative (D'Agostino 2007, 9-10). Essa è dunque attenta alla descrizione dei processi che portano la società a plasmare e definire la forma assunta dalle produzioni dei parlanti, produzioni le quali si differenziano, o variano, anche a seconda del contesto e dell’uso che gli utenti ne fanno3: come riportato in D'Agostino 2007, ad esempio, chiedendo ad un amico dell’orario di una lezione si potrà tranquillamente utilizzare una forma come “dell’ora di Fisica, ne sai niente?“; ma rivolgendo la stessa domanda ad un estraneo, si opterà per un “saprebbe dirmi a che ora inizia la lezione di Fisica?“. Già a partire da questa prima e basilare definizione della sociolinguistica, emerge chiaramente la diversificazione alla quale la lingua è sottoposta: emerge, in altre parole, il fondamentale fattore della variazione. Le lingue verbali non si caratterizzano infatti per l’immobilità delle forme che le costituiscono, ma sono, al contrario, continuamente in divenire e mutano “secondo diverse dimensioni“ (Simone 1990, 77-78), alcune delle quali sono strettamente connesse all’evoluzione storica e sociale dell’uomo (si pensi ad esempio allo sviluppo di linguaggi specifici che accompagnano lo sviluppo delle nuove tecnologie; cfr. Dardano/Trifone 2009; in quanto “fatto sociale“ (Krefeld 2016, 262), la lingua non può dunque prescindere dal variare degli eventi e dai fenomeni sociali che riguardano gli utenti.

Per quanto concerne il complesso caso italiano, ad esempio, il raggiungimento dell’Unità d’Italia, proclamata nel 1861 e compiuta nel 1870, provocò considerevoli conseguenze sia a livello politico-economico che socioculturale, con delle ripercussioni che inevitabilmente interessarono a diversi livelli anche la lingua, o per meglio dire, le lingue4 parlate nelle diverse regioni della penisola5. Nonostante l’innegabile “convergenza verso un’unica lingua6“ sempre più organica dal Nord al Sud d’Italia dall’Unità ad oggi (D'Agostino 2007, 64), sarebbe stato e sarebbe ancora adesso però a dir poco insensato affermare, come provocatoriamente in Berruto (1993, 3), che “tutti gli italiani parlino (solo) italiano“; infatti, la storia linguistica italo-romanza – con la sua compresenza sul territorio di più sistemi linguistici7, quali, come detto, i dialetti e la lingua nazionale – ha chiaramente generato lo sviluppo di una “gamma assai ampia di diversificazione“ della lingua (Berruto 1993, 8), portando altresì il repertorio linguistico medio8 degli italiani ad essere caratterizzato da una “griglia“ di modi di parlare e scrivere diversi tra loro e tradizionalmente definiti varietà, via via sempre più oggetto d’analisi da parte dei linguisti italiani a partire dagli anni Sessanta9.

Facendo parte o essendo derivazione quantomeno “als Nebenprodukt“ della sociolinguistica (Holtus/Radtke 1983, 16), la linguistica delle varietà condividerà dunque con quest’ultima la funzione della descrizione del “regime di variazione della lingua all’interno della società“ (Raimondi 2009, 17)10, occupandosi, come anche suggerito dalla sua denominazione, dello studio di queste

varietà della lingua [, oltre che de]i diversi tipi e statuti di tali varietà, [del]le loro caratteristiche linguistiche e [del]le loro regole d’uso, [de]i loro rapporti reciproci (con una particolare attenzione ai rapporti fra varietà standard e altre varietà) e, collateralmente, [del]la loro nascita e [de]l loro sviluppo storico (Berretta 1988, 762).

 

3.1.2. Varietà, variabili e varianti

Nella spiegazione fornita circa il ruolo della Varietätenlinguistik da Berretta, l’accento veniva, dunque, posto sul concetto di varietà11. Ma cosa indica questo termine? Secondo una definizione sociolinguistica recentemente offerta da D’Agostino, esso indicherebbe “un’entità linguistica definita da un insieme di tratti (testuali, sintattici, lessicali, fonetici) che cooccorrono sistematicamente con caratteristiche legate al parlante o alla situazione comunicativa“ (D'Agostino 2007, 110). Come si è viso, però, in ambito sociolinguistico l’espressione ‚varietà‘ è spesso stata utilizzata genericamente per indicare ogni tipologia di lingua caratterizzante il repertorio linguistico italiano, a partire dalla ‚varietà standard‘ sino ad arrivare, ad esempio, alle cosiddette ‚varietà giovanili‘. Sebbene il concetto di ‚varietà‘ così sinonimicamente concepito12 sia stato con il tempo generalmente accettato, Krefeld (2016) ne sottolinea la sostanziale inconsistenza, proprio perché applicato anche a codici “incompleti“ che non meriterebbero questa denominazione – si pensi per l’appunto alle “cosiddette varietà delle dimensioni stilistica, sessuale, generazionale e mediale“ (Krefeld 2016, 262); in tal senso, infatti, solo lo standard ed il dialetto13, in quanto codici completi, potrebbero essere definiti come “varietà matrici“ vere e proprie (1994, 344)

Fornendo una più dettagliata spiegazione del fenomeno variazionale e proponendo ancora una volta di superare le contraddizioni terminologiche sulle quali il filone di studi di Varietätenlinguistik si è basato sino ad oggi14, Krefeld (2015; 2018) ricorda inoltre come la linguistica delle varietà debba comportare in realtà non tanto la descrizione di varietà, ma la descrizione delle varianti che, cooccorrendo assieme e regolarmente, contribuiscono a comporle: ponendola in termini matematici, si parla infatti di variazione allorquando “una categoria astratta e costante, ossia una variabile, comprende a un livello meno astratto [delle] forme concorrenti, ossia diverse varianti […] funzionalmente equivalenti“, secondo il basilare modello “1 variabile ↔ 1 + n varianti“ (Krefeld 2018). Se appare dunque importante il concetto di variabile, intesa come elemento astratto che, insieme alle altre variabili, costituisce un sistema linguistico (Krefeld 2015, 4), ancora più fondamentale è la sua realizzazione concreta, ossia un elemento prodotto dai parlanti e concretamente osservabile e descrivibile dai linguisti, sul quale una linguistica che si interessi di variazione dovrebbe, dunque, fondarsi (Krefeld 2015, 4).

Le produzioni concrete prese in esame dalla linguistica delle varietà – o, come dunque suggerito ed auspicato in Krefeld (2018), da una “linguistica variazionale“ più prettamente attenta alle singole varianti15 – interessano, come vedremo, tutti i livelli dell’analisi linguistica: dalla fonetica/fonologia alla morfologia, dalla sintassi, al lessico e alla testualità. Ognuna di queste varianti può essere definita e descritta come tale in quanto portatrice di una marca di “salienza“ rilevabile a livello percettivo (Krefeld 2015, 4-5): la linguistica delle varietà entra allora qui in contatto con la linguistica percezionale16. Ogniqualvolta non vi sia corrispondenza tra una variante prodotta da un parlante e quella che, nel sapere linguistico dell’interlocutore17, ne costituisce mentalmente il modello corretto, essa spicca nella mente di quest’ultimo “come una figura sullo sfondo“ (Krefeld 2015, 5) e viene immediatamente percepita a livello cognitivo come ‚altra‘, o ’saliente‘, appunto, specialmente rispetto allo “sfondo linguistico non marcato di una varietà matrice“ (Krefeld 2016, 264). In tal senso, la marcatezza18 si configura come “associazione non linguistica“ e come “categoria elementare della linguistica variazionale“ (Krefeld 2016, 264), in quanto una “variazione che non provoca, nel locutore, una percezione di marcatezza, non ha rilevanza varietistica“19 (Krefeld 2015, 6).

La questione della marcatezza, inoltre, incrocia spesso quella della questione sociale, in quanto il processo cognitivo ad essa correlato implica una valutazione positiva o negativa delle varianti rilevate, denotandone in alcuni casi anche lo status relativo al prestigio linguistico e al dominio in cui una lingua o varietà è socialmente confinata (ad esempio il dominio familiare, quello extrafamiliare, scolastico, pubblico ecc.): lo standard, ad esempio, ossia il “punto di riferimento normativo, codificato dai vocabolari, dalle grammatiche e dall’intera tradizione scolastica e che, in quanto tale, viene accettato come corretto“ (D'Agostino 2007, 123), occupa il polo ‚alto‘ nell’architettura dell’italiano contemporaneo proposta da Berruto (1987, 21). Differentemente da quanto detto sinora, però, a questa varietà non è attribuita alcuna marcatezza e, dal punto di vista sociologico, essa gode di uno status neutro, in quanto

non rinvia a questo o quel gruppo di parlanti (o di situazioni comunicative) né si caratterizza per la presenza di tratti linguistici connotati. […] la nozione di standard (opposta a quella di <<non standard>>) viene utilizzata in primo luogo per indicare una varietà di lingua non marcata su nessuno degli assi di variazione; essa si caratterizza sostanzialmente per quello che non ha piuttosto che per ciò che ha (D'Agostino 2007, 121).

3.1.3. Le dimensioni della variazione

Ogni “varietà di lingua“ è stata tradizionalmente inquadrata e definita dalla sociolinguistica entro le cosiddette dimensioni della variazione linguistica in base a specifici parametri indipendenti dalla lingua stessa, o extralinguistici, chiamati “assi della variazione“ (D'Agostino 2007, 111). Le grandi fondamentali dimensioni indagate dalla linguistica delle varietà sono cinque, quattro delle quali fotografano lo stato sincronico della lingua, saussurianamente contrapposto allo stato diacronico della stessa, relativo dunque al cambiamento della lingua nel tempo20: esse sono la diatopìa, la diastratìa, la diafasìa, la diamesìa e la diacronìa. La formulazione dei termini diacronìa, diatopìa, diastratìa (con il prefisso greco dia-, ‚differenza‘, seguito dai diversi ambiti di applicazione, quali ‚tempo‘, ‚arealità‘ e ’società‘) è attribuita al linguista e filologo Eugenio Coseriu (1973), il quale, in un secondo momento, inserì nella tripartizione anche il termine ‚diafasìa‘ (‚dire‘) rifacendosi agli studi di Leiv Flydal (1952); il termine diamesìa (inerente al ‚mezzo‘ impiegato nella conversazione) fu invece introdotto nel 1983 dal glottologo Alberto A. Mioni.

In quanto relativa al parametro spaziale o areale, la variabilità diatopica viene riconosciuta dai linguisti come la dimensione principale della variazione della lingua italiana, tanto che i primi studi di linguistica delle varietà italiani, corroborati dalla ricerca dialettologica ed atlantistica, vertevano comprensibilmente su questa dimensione (Berretta 1988, 763; Krefeld 2016, 265). Appare infatti più che lampante che in Italia la lingua (così come i dialetti presenti sul territorio) sia soggetta a variazione in base al luogo dal quale i parlanti provengono e nel quale essi la impiegano: salvo eccezioni artificiali [, infatti,] non c’è parlante nativo, per quanto colto, che nella lingua parlata non mostri almeno qualche tratto fonetico diatopicamente marcato“ (Berretta 1988, 763). Nella sua quadripartizione del repertorio linguistico italiano (cfr. § 3.1.1), lo stesso Pellegrini diede un nome alla varietà principalmente ricondotta a questa dimensione, il cosiddetto italiano regionale, definito come “effettiva realtà parlata della lingua“ (Cerruti 2009, 35) e marcato soprattutto a livello prosodico, fonologico e lessicale (talvolta morfosintattico), il quale rivela i tratti assorbiti dal territorio in cui viene parlato a causa del forte contatto con la ricchezza dei dialetti italiani (Telmon 2016, 301)21.

Altra fondamentale dimensione è quella diastratica, inerente al “diverso uso che individui appartenenti ai diversi strati sociali di una stessa comunità linguistica fanno delle varietà del repertorio“ (Grassi u.a. 2012, 13) e relativa a fattori di differenziazione socioeconomica: essa dipende soprattutto dalla classe sociale d’appartenenza del parlante, dal livello di istruzione ricevuto e dalle condizioni economiche dell’individuo, ma è anche correlata a fattori qual il genere e l’età (si parla, ad esempio, di varietà giovanili sebbene si tratti in questo caso di “singole scelte“ linguistiche come notato da Grassi-Sobrero-Telmon 2012, 168). Dentro questa dimensione si colloca però anche l‘italiano popolare, una “varietà <<bassa>> usata nel parlato e anche nello scritto dai semicolti“ (D'Achille 2003, 31), dunque da utenti poco scolarizzati appartenenti ai ceti più sfavoriti.

La dimensione diafasica è invece relativa alle varietà definite registri (formale/informale) e sottocodici (anche conosciuti come lingue settoriali). La diafasia varia in base al  grado di formalità/informalità presente nell’organizzazione del discorso, a cui il parlante si adegua in funzione della situazione comunicativa in cui si trova22; in base ai rapporti che intercorrono tra questi e il suo interlocutore, oltre che all’argomento trattato e all’intenzione comunicativa, il parlante selezionerà un determinato registro (Grassi u.a. 2012, 13; 169)

La dimensione diamesica, legata al mezzo o canale d’uso della lingua (orale o scritto) attraverso il quale il messaggio viene veicolato, indaga le differenze presenti tra i codici linguistici impiegati nel parlato e nello scritto – si parla dunque di varietà parlate e varietà scritte, ma anche di varietà trasmesse con la diffusione dei mass-media e dei più recenti social-media -, sebbene, grazie alla diffusione degli usi scritti e alla costante crescita dell’alfabetizzazione, anche le varietà diamesiche abbiano pian piano visto un graduale assottigliarsi delle classiche divergenze che le caratterizzavano, le une accogliendo diverse forme tipiche del parlato nello scritto, e le altre riducendo “quantità e ‚peso‘ “ dei fenomeni tipici del parlato (Grassi u.a. 2012, 172-173).

La dimensione diafasica e quella diamesica sono spesso state accorpate in un’unica trattazione, in quanto il mezzo impiegato per veicolare il messaggio potrebbe essere interpretato come componente della situazione comunicativa. Una tale indifferenziazione non appare del tutto corretta, però, in quanto, come spiega Berruto, sebbene

l’attivazione del canale orale o scritto d’uso della lingua avv[enga] pur sempre in dipendenza dal costrutto <<situazione di comunicazione>>, [una distinzione dalla dimensione diamesica] appare tuttavia utile e anche plausibile, giacché, pur essendo naturalmente in sovrapposizione e intersecazione con le altre dimensioni di variazione ed in particolare appunto con la differenziazione diafasica, le modalità dell’so parlato e scritto sono troppo nette e caratterizzanti, e, in parte, preliminari alla situazione, perché ci si possa limitare ad una loro trattazione in termini di mere varietà situazionali (Berruto 1993, 9).

Quantunque, infine, la lingua non venga analizzata in sincronia come nei precedenti casi, ma in relazione ai suoi sviluppi e mutamenti sull’asse temporale, lo studio della stessa attiene alla sociolinguistica storica, con l’analisi della dimensione diacronica (Krefeld 2016, 263).

Nonostante le varietà italiane di cui sopra abbiano pacificamente trovato collocazione in queste dimensioni della variazione, bisogna tenere presente che non è possibile operare una rigida separazione degli ambiti linguistici entro cui le varianti effettive che le compongono vengono prodotte, in quanto le dimensioni della variazione non possono essere considerate come compartimenti stagni; al contrario, esse interagiscono tra loro in un continuum linguistico23, spesso combinandosi e contribuendo alla notevole “ampiezza della gamma di variazione“ (Berretta 1988, 753-764). Di conseguenza, non bisogna credere che un determinato enunciato sia marcato su un solo asse della variazione, né che tutte le varianti generalmente riconducibili ad una specifica dimensione presentino un solo livello di marcatezza, o che ognuna di esse possa essere ritrovata in una sola varietà24 di lingua: la dimensione geografica, ad esempio, “si sovrappone a tutte le altre (almeno) negli usi orali“ (Berretta 1988, 764) e non interessa solamente l’italiano regionale, ma anche l’italiano popolare, entrambe varietà in cui è forte l’interferenza dialettale (Cerruti 2009, 34); e ancora, Telmon fa più recentemente notare come il livello di marcatezza dell’italiano regionale possa e tenda a variare anche seconda della situazione comunicativa in cui i parlanti di italiano regionale si trovano, implicando dunque un contatto diafasico, in quanto

qualora dovesse essere necessario l’impiego di un registro formale […] il parlante tenderà a rimuovere i tratti avvertiti come troppo pronunciati e tipici del registro informale; nella situazione opposta, invece, egli abbasserà il tenore del registro ‚alto‘ ad un livello più basso – rispettivamente, colloquiale, familiare, o volgare (Telmon 2016, 302).

Come visto, dunque, la variazione linguistica è interessata da meccanismi complessi tra loro non indipendenti, che di volta in volta è necessario analizzare e contestualizzare: essa “si manifesta […] nei comportamenti linguistici non solo nell’uso di forme diverse della lingua, ma anche attraverso l’accesso diversificato alle varietà di lingua e la scelta della varietà da utilizzare in una certa interazione verbale […], che sono potentemente condizionate dalla fascia sociale di appartenenza del parlante, dal suo grado di istruzione, dalle caratteristiche della comunità di cui esso è membro“ (Berruto 2011).

Tenendo a mente le diverse questioni sinora prese in considerazione nella delineazione dei termini, dei concetti e degli ambiti in cui la linguistica delle varietà opera, passiamo adesso ad una più approfondita trattazione della varietà di italiano marcata diastraticamente ed ascrivibile alle produzioni che ci accingiamo ad analizzare nel capitolo 6, l‘italiano popolare, o dei semicolti.

3.2. Dall’Italiano popolare unitario all’italiano dei semicolti

3.2.1. L’italiano popolare unitario

Una prima delineazione della nozione di italiano popolare si deve al linguista Tullio De Mauro nella celebre nota al lavoro Lettere da una tarantata dell’antropologa Annabella Rossi (1970), una raccolta di circa 65 lettere che Anna, contadina salentina di Ruffano nata nel 1898, inviò all’amica studiosa in un corposo scambio epistolare durato dal 1959 al 1965, reso possibile dalla sua prima elementare (Rossi 1994, 79): la donna avviò spontaneamente una corrispondenza con la Rossi a seguito della loro conoscenza avvenuta nel 1959 nella Cappella di S. Paolo in Galatina, durante un’inchiesta sul tarantismo pugliese ad opera del rinomato antropologo Ernesto de Martino, nella quale la studiosa partecipava come intervistatrice (Rossi 1994, 79). Sotto un’iniziale sollecitazione dell’antropologa, la quale, approfittando dell’occasione, cercava di ricavare informazioni utili per la ricostruzione etnografica delle condizioni sociali del paesino pugliese del dopoguerra e, soprattutto, dell’ideologia magica relativa al tarantismo, nelle lettere Anna raccontava della sua infanzia e della sofferenza per le dinamiche di paese che la vedevano isolata a causa del “male di San Paolo“ e del “male di San Donato“25. Dapprima più distanti e pertinenti alle domande della Rossi, con il passare del tempo le lettere assumevano toni più confidenziali, lasciando affiorare i temi più sentiti da Anna, quali ad esempio la necessità di un contatto più stretto con la studiosa, ed i sentimenti più genuini della donna nei suoi confronti – si parla spesso del suo “amore“ per l’antropologa, ma anche della sua rabbia e della disillusione dovuta alle mancate visite da parte della stessa (Apolito 1994, 10). Inserito in un contesto antropologico, politico e scientifico volto a ridurre le differenze tra classi sociali e a dare voce alle esperienze popolari che il fascismo aveva soffocato (Rossi 1994, 102-103), Lettere da una tarantata si profila come il tentativo di conoscenza reale della realtà popolare e delle misere condizioni delle classi sociali subalterne italiane, spesso riflesse nella folcloristica stigmatizzazione di persone affette da “disturbi causati da diverse frustrazioni di ordine sociale, economico, culturale“ (Rossi 1994, 81): fungendo da esempio rappresentativo di tali condizioni, specie nel Meridione, il caso di Anna raccontato nelle Lettere da una tarantata viene oggi considerato come una pietra miliare nello studio etnografico.

Allo stesso tempo, però, le lettere raccolte dalla Rossi costituiscono certamente un valido esempio di “scrittura del sé“26 (Apolito 1994, 10), pregna di elementi peculiari che difficilmente sfuggirono sia agli occhi dell’antropologa che al linguista Tullio De Mauro, il quale, già nella prima edizione del lavoro, parlava così della lingua impiegata dalla tarantata nelle sue lettere: esso sarebbe stato il “modo d’esprimersi d’un incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza addestramento, maneggia quella che, ottimisticamente, si chiama la <<lingua nazionale>>, l’italiano“ (De Mauro 1994, 115). Come osservato dal linguista, oltre che dalla Rossi stessa27, la lingua di Anna dal Salento era caratterizzata essenzialmente da incertezze espressive e grammaticali, le quali attraevano prepotentemente l’attenzione oscurando la “semplicità e [l‘]immediatezza espressiva“ caratterizzanti la scrittura della donna (De Mauro 1994, 134). Partendo dalla “malcerta“ resa grafica di Anna, la quale tradiva tra l’altro una componente fonetica regionale salentina, nella sua nota linguistica De Mauro passava poi a commentare e delineare altri elementi ben visibili e tipici, come vedremo, dei testi prodotti da persone poco acculturate o semicolte28, quali la presenza di elementi dialettali e di ipercorrettismi lessicali, la mancata individuazione dei confini delle parole, la scarsa padronanza o anarchia rispetto alle regole d’interpunzione che contribuiscono all’apparente “deformità“ sintattica delle lettere e la più generale disorganizzazione del pensiero scritto di Anna, che risultava al contrario “spontaneo“ e fortemente influenzato dal parlato (De Mauro 1994, 130-133). Allo stesso tempo, egli sottolineava la riuscita collocazione linguistica del sé da parte della donna, la quale, comprendendo di non essere perfettamente in grado di confrontarsi con la scrittura (“non sono una studiente o una maestra“) porgeva, soprattutto all’inizio della corrispondenza, diverse scuse all’amica antropologa per la sua cattiva scrittura (De Mauro 1994, 114).

Desumendo che quello di Anna del Salento non fosse un caso isolato, ma fosse al contrario degno di nota e rappresentativo di una realtà sovradialettale e comune a tutta la penisola29, il linguista pose l’attenzione su quello che definì come “italiano popolare unitario“ (De Mauro 1994, 115) e sulle cause che spinsero al suo sviluppo.

Dal quadro tracciato da De Mauro sul lentissimo processo di unificazione linguistica a partire dall’Unità d’Italia del 186130 di cui egli si occupò nella prima parte della nota al lavoro della Rossi, emerge come uno dei primi reali impulsi al contatto31 tra le “grandi masse, legate al monolinguismo dialettale“ e al conseguente massiccio uso popolare dell’italiano sia stato offerto, oltre che  dal fenomeno migratorio dalle campagne alle zone industrializzate del Paese, e da quello transoceanico di fine Ottocento, dal tragico avvento della Grande Guerra:

Il peso della guerra di trincea ricadde essenzialmente sulle classi contadine, cioè sulle classi più lontane dall’istruzione e dall’urbanizzazione, dalle fonti di italianizzazione della società italiana postunitaria. Al fronte si incontrava gente che fino ad allora aveva parlato solo dialetto. Né c’erano nuclei dialettali dotati di un tal prestigio da potere imporre il loro su altri dialetti. Così, anzitutto per capirsi, e poi per protestare coralmente o singolarmente, i contadini delle trincee devono costruirsi la possibilità di esprimersi in un idioma comune (De Mauro 1994, 123).

A causa della drammaticità della loro condizione, però, gli oltre 4.250.000 di contadini impegnati al fronte dovettero per la prima volta confrontarsi direttamente anche con la scrittura dell’italiano32: tra i documenti testimonianti la diffusione dell’italiano popolare unitario nel XX secolo sarebbero infatti presenti circa 4 miliardi di lettere e cartoline (Testa 2014, 100) spedite dai soldati in guerra alle famiglie e viceversa, oltre che forme diaristiche di “incolti o semicolti“ e quaderni autobiografici di cui si perse traccia durante la dittatura fascista, per poi essere ritrovati e presi in esame dai linguisti durante gli anni Settanta33 (Rossi 1994, 102-103; De Mauro 1994, 127).

Risale proprio al 1976, ad esempio, la traduzione in italiano di Renato Solmi della raccolta epistolare Italienische Kriegsgefangenenbriefe (1915-1918) [Lettere di prigionieri di guerra italiani (1915-1918)], lavoro pionieristico condotto tra il 1915 ed il 1918 dal linguista austriaco Leo Spitzer sulle lettere inviate in Italia dai detenuti italiani nei campi di prigionia austro-ungarici e dagli italiani d’Austria internati nei paesi nemici durante la prima guerra mondiale, e pubblicato nel 192134.

Esperto filologo romanzo ed ottimo conoscitore della lingua italiana, Leo Spitzer fu chiamato ad effettuare un controllo sulle missive dei prigionieri e degli internati come direttore di uno degli uffici della censura militare di Vienna, al fine di evitare l’inasprimento dei rapporti già compromessi tra le due nazioni in conflitto35. Affascinato dalla genuinità popolare delle tematiche trattate in queste lettere, che egli raccolse inizialmente al fine di tracciare il profilo psicologico-sociale del popolo italiano, lo studioso notò altresì per primo diverse particolarità linguistiche nella varietà di italiano presente nelle lettere che i prigionieri italiani scambiavano con i parenti in patria, varietà che, come affermato dallo stesso Spitzer nell’introduzione alla sua raccolta, non era sino ad allora stata realmente presa in esame dalla linguistica romanza:

L’epistolografia popolare, che perlopiù non viene fatta oggetto d’indagine scientifica, ma che in realtà è una specie di letteratura popolare permanente, che non prendiamo in considerazione solo perché ci è troppo vicina, non è ancora stata analizzata, che io sappia, nel campo delle lingue romanze; eppure la domanda “Come scrive e cosa scrive il popolo?“ racchiude un problema che non può fare a meno di condurre a una chiara comprensione dell’essenza dell’elemento popolare in genere (Spitzer 1976, 1).

La scrittura del popolo, pregna di preziosi elementi dialettali più o meno consapevolmente inseriti nelle produzioni36 (D'Achille 2003, 12), conquistò ed impegnò in quegli anni di guerra lo studioso, il quale, però, oltre alla particolarità prettamente linguistica delle lettere che certamente non poteva essere messa in secondo piano, tentò altresì di indagare e “penetrare le intenzioni stilistiche e psicologiche del mittente“, cercando ad esempio di far luce e distinguere la possibile “naivität“ nella grossolanità delle forme analizzate dalle deliberate e “fantasiose“ intenzioni di scrittura dei prigionieri più arguti (D'Achille 2003, 5).

Le “corrispondenze popolari“ (D'Achille 2003, 11) analizzate da Spitzer aprivano inoltre a considerazioni sociolinguistiche non di poco conto: nello studio si delinea ad esempio un’attenzione verso il carattere “geografico“ delle lettere, le quali, come il filologo stesso ribadisce, indicano “quasi sempre con precisione la data e il luogo“ in cui esse sono state scritte, nel caso in cui siano state inviate dall’Italia, e “la localizzazione esatta del dialetto“, deducibile dall’indirizzo del destinatario qualora le missive siano state spedite dall’Austria (D'Achille 2003, 12-13); altro elemento fondamentale profilato nella raccolta è il piano diamesico (per utilizzare un termine proprio della linguistica delle varietà non ancora presente al tempo di Spitzer) inerente al mezzo tramite il quale il messaggio viene veicolato, in questo caso per iscritto tramite le lettere, e le relative forme testuali che si ripetono secondo il “modo tradizionale di rivestire il pensiero che hanno appreso a scuola“ (D'Achille 2003, 45), oltre che il quadro socio-culturale degli scriventi: il profilo di “uomini semplici, privi di ogni educazione stilistica37(D'Achille 2003, 32) posti di fronte al “disagio“ dello scrivere, dell’organizzazione del pensiero scritto: 

Bisogna tenere conto […] del fatto che ben pochi di quelli che parlano normalmente in dialetto sono anche abituati a scrivere nel loro idioma naturale. Per la maggior parte degli italiani la scrittura e la lingua letteraria sono strettamente congiunte: quando scrivono, scrivono come meglio possono i suoni, le forme e i vocaboli della lingua nazionale che si trova nel “sillabario“. Solo di tanto in tanto si verificano degli “slittamenti“ nelle forme dialettali – fenomeni cari al linguista – nei passi a cui lo scrivente ha dedicato minore attenzione, o nel caso di parole o di forme che riteneva far parte della lingua scritta o di cui non può fare a meno per esprimersi (D'Achille 2003, 13-14).

Le intuizioni sociolinguistiche di Leo Spitzer si rivelarono di profondo interesse per il filone di studi della sociolinguistica sviluppatosi “impetuosamente“ dagli anni Settanta in poi (Testa 2014, 19), i quali trovarono in questa “imponente documentazione di italiano scritto di matrice popolare“ (Vanelli 1976, 296), se non un’innovativa base da cui partire, quantomeno uno storico avvaloramento nelle tesi da questi sostenute. La raccolta ed il commento di quelle caratteristiche che più saltavano all’occhio di Spitzer crearono altresì un abbozzo della prima individuazione dei fenomeni che De Mauro riscontrò, cinquant’anni dopo, anche nell’italiano popolare di Anna del Salento, la quale, come molti negli anni Sessanta, doveva affrontare “il problema di comunicare uscendo fuori dall’alveolo dialettale“ che, invece, tanto si prestava a soddisfare le esigenze di una comunicazione meno pomposa rispetto all’italiano dei registri alti e delle “grandi occasioni“, a cui non tutti avevano comunque accesso (De Mauro 1994, 129; 117)

I tratti che accomunano l’uso linguistico di Anna del Salento all’italiano popolare unitario sono il dislivello tra la polarizzazione dialettale della realizzazione fonicografica e l’adesione alla tradizione comune in fatto di vocabolario e sintassi; fenomeni sintattici come la eliminazione dei congiuntivi e condizionali, l’uso del che come congiunzione generica, la preferenza accordata alla coordinazione, l’uso di pronomi pleonastici (De Mauro 1994, 132-133).

Andando oltre questi tratti, però, De Mauro riconosce infine ad Anna, e, con lei, agli altri parlanti incolti alle prese con la scrittura, l’espressione di un “autentico periodo pensato e/o parlato“, che, per quanto semplice ed immediata, risultava comprensibile, e, soprattutto, “viva e ver[a]38(De Mauro 1994, 134-135).

 

3.2.2. L’italiano popolare: nuove considerazioni

Sulla scia degli studi svolti negli anni Sessanta39 avviati anche grazie alla pubblicazione di scritture di incolti nel decennio precedente40, furono diversi i linguisti italiani impegnati nella trattazione concettuale di questa varietà di italiano negli anni successivi.

Basandosi anch’egli su fonti scritte quali lettere, diari ed autobiografie di scriventi poco istruiti41, Manlio Cortellazzo si occupò, ad esempio, di indagare più approfonditamente le cause all’origine della diffusione dell’italiano popolare, oltre a delineare in modo più esaustivo gli elementi prettamente linguistici propri di questa varietà che egli definiva come un tipo di italiano “imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto“42 (Cortellazzo 1972, 11): anche in questo caso, tra gli elementi individuati dal linguista, vi erano la forte influenza dell’oralità sulla scrittura, la spontanea semplicità delle forme impiegate opposta alla tensione o, in altri casi, alla “predisposizione all’aulico e al pomposo“, e la “caratterizzazione sociale“ dell’italiano popolare in quanto “parlata volgare“ in opposizione alle parlate borghesi o colte (Cortellazzo 1972, 9-12). La definizione proposta da Cortellazzo poneva inoltre l’accento sul processo di acquisizione della lingua italiana come L2 (lingua seconda) da parte di chi avesse avuto il dialetto come L1 (lingua madre), mettendo dunque in luce il fatto che questo tipo di italiano potesse essere paragonabile ad una varietà di transizione (ted. Übergangsvarietät) o di interlingua – un sistema di conoscenze della lingua L2 in costante evoluzione, il quale solo provvisoriamente si allontana dal sistema di regole della lingua d’arrivo, delineandosi come un work in progress con l’avanzare dell’apprendimento (D'Agostino 2007, 83; 126-127) – nella fase di apprendimento della lingua standard. In effetti, considerando le dinamiche storico-linguistiche italiane che in poco tempo portarono da una condizione di generale monolinguismo dialettale pre-unitario al “bilinguismo“ italiano-dialetto post-unitario, appare fuori di dubbio che l’italiano abbia costituito una L2 per milioni di individui provenienti da contesti linguistici totalmente dialettofoni impegnati nel processo di apprendimento della lingua nazionale43 (Sobrero 1975, 106; D'Agostino 2007, 82; 84; Krefeld 2016, 267); e parrebbe anche ragionevole pensare che “interromp[endo] in qualsiasi momento questo dinamico processo individuale […] di apprendimento, avremmo un campione di italiano popolare, vario […] nelle sue forme e nelle sue realizzazioni entro l’ampia fascia, che stacca il dialetto dalla lingua“ (Cortellazzo 1972, 11). Tuttavia, al contrario della dinamicità che caratterizza l’interlingua, l’italiano popolare appare come immutevole o marcatamente “fossilizzato44“ ad un livello di lingua rudimentale e, al limite, “accettabile per bisogni comunicativi non sofisticati“45 (D'Agostino 2007, 127; (Berruto 1987, 106)) : se analizzassimo, infatti, le produzioni di un individuo che ha accesso alla varietà dell’italiano popolare in diversi periodi della sua vita, noteremmo come esse sarebbero sempre caratterizzate dalle stesse particolarità (D'Agostino 2007, 127).

Facendo anche riferimento a Leo Spitzer come linea guida nell’analisi dei documenti raccolti46, Cortellazzo analizzò altresì il lessico, la morfosintassi, la scrittura e lo stile delle produzioni a sua disposizione, evidenziando sia l’azione dell’interferenza del sostrato dialettale su questa varietà di lingua, che le peculiari caratteristiche stilistiche proprie del “genuino stile popolare“ dei parlanti semicolti: esso potrebbe sì apparire come “piatto, monotono, banale, perché, non sorretto da un pensiero profondo, manca[nte] di una articolazione complessa“ (Cortellazzo 1972, 132), ma nonostante i “poveri mezzi a disposizione“ dei parlanti è ad esempio indubbia l’efficacia nell’espressione dei sentimenti da loro provati (Cortellazzo 1972, 132), talvolta raggiunta anche tramite lo spontaneo impiego dell’elemento creativo popolare riscontrabile in proverbi, ninne-nanne ecc. (Cortellazzo 1972, 15).

Se l’analisi di De Mauro si concentrava dunque sulla genesi socio-culturale di questo tipo di italiano, sulla necessità delle intenzioni di scrittura e sull’atteggiamento comunicativo degli scriventi – sottolineando allo stesso tempo la natura del fenomeno “a livello della competenza individuale“ degli stessi (Krefeld 2016, 267), la “grammatica dell’italiano popolare“ così concepita da Cortellazzo si prefiggeva invece di “descriver[n]e le linee di svolgimento e i tratti che si ripetono in luoghi diversi“, ponendo allo stesso tempo l’accento sul fenomeno dell’allontanamento dei mezzi d’espressione popolare dalla lingua regolamentata47, a causa dello stretto contatto con il dialetto (Berruto 1987, 106; D'Achille 1994, 47). Anche per Cortellazzo, in ogni caso, l’italiano popolare si caratterizzava come fenomeno “fondamentalmente unitario nella forma e nella sostanza“, vista la presenza di due fenomeni estesi omogeneamente su tutto il territorio, quali l’insegnamento medio ed elementare scolastico, con il suo ruolo di avviamento alla conoscenza e all’uso dell’italiano da un lato, e la cultura popolare dall’altro (Cortellazzo 1972, 13).

Le successive considerazioni a carattere sociolinguistico di Sobrero-Romanello in Contrasti di cultura: l'<<Italiano popolare>> (Sobrero 1975) ponevano ancora l’attenzione sui dislivelli culturali (e quindi linguistici) interni alla società italiana, alla base dell’ampia architettura dell’italiano. Gli studiosi si concentravano qui sull’atteggiamento del parlante rispetto alla  complessa questione extra-linguistica dell’opposizione di classe, e sulla necessità dei parlanti appartenenti alle classi sociali più basse di “usufruire della lingua unitaria, senza esservi storicamente motivat[e]“ (Sobrero 1975, 103), oltre che sulle ripercussioni che il prestigio linguistico attribuito dalla scuola all’italiano (posto al vertice di una rigida gerarchia linguistica che relegava, al contrario, il dialetto alla sua base) poteva avere sul parlante dialettofono. Avvicinatasi rapidamente nel corso del secondo Novecento ad una condizione di benessere dapprima riservata ai ceti dominanti – in un’operazione magistralmente portata avanti secondo la logica del profitto che strumentalizzava la lingua come “stimolo promozionale all’interno della ‚classe dei consumatori‘ “, e concedeva un “apparente livellamento del benessere attraverso la civiltà di consumi, miticamente unitaria“ (Sobrero 1975, 102; 104) – la classe subalterna si trovò, infatti, sì nelle tanto agognate condizioni di appropriarsi del nuovo strumento linguistico simbolo di cultura e, dunque, di potere, ma ciò poteva avvenire a condizione che essa rinunciasse tout court “alla lingua di cui abitualmente si serv[iva],  per diventare portatric[e] di una cultura esogena, che si pone[sse] come dominante“ (Sobrero 1975, 105). Pare ovvio che, posta in questi termini, l’introduzione di un nuovo codice quale l’italiano nel repertorio linguistico delle persone dialettofone abbia potuto costituire una sorta di disorientamento e stravolgimento dei loro sistemi di valori, sortendo un effetto di rifiuto inconscio e respingimento della propria L1, in ottica diglossica48 e non di bilinguismo (D'Agostino 2007, 106):

vi sono infatti due modi di acquisire un nuovo codice linguistico […] : recepirlo passivamente, in sostituzione del codice-lingua nativa (L1) che viene contemporaneamente ‚rimosso‘ (cioè rifiutato), oppure inserirlo […] nella gamma dei registri e delle varietà già a disposizione del parlante (Sobrero 1975, 105-106).

Entro l’opposizione diglossia-bilinguismo bisognerebbe, secondo Sobrero, impostare la questione dell’italiano popolare: se non si fosse posta una “camicia di forza“ (ossia uno stato di diglossia tra lingua nazionale e dialetto) nei confronti del bilinguismo, esso avrebbe potuto spontaneamente seguire il suo corso, portando le classi subalterne ad approdare alla lingua unitaria (Sobrero 1975, 115) senza alcun trauma linguistico inerente alla presunta inferiorità della propria L1 rispetto alla nuova L2. Interpretando dunque la nascita dell’italiano popolare come un fatto di cultura relativo all’accesso a strumenti tradizionalmente appartenuti alla cultura dominante da parte classi subalterne presenti su tutto il territorio italiano, anche Sobrero-Romanello sottolineavano l’organicità dei tratti presenti in questa varietà49, parlando come De Mauro di “tendenze generalmente diffuse nonostante le diverse provenienze delle produzioni popolari sin ad allora analizzate (Sobrero 1975, 107; 109).

Una differente opinione è però offerta in Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo di Gaetano Berruto (1987), altro definitivo studio sui fenomeni varietistici italiani. Qui lo studioso affrontava la complessa natura di questa varietà, che egli definiva come ‚italiano popolare‘, lasciando da parte l’aggettivo ‚unitario‘. Pur essendo concorde sul fatto che, a livello morfosintattico50, la maggioranza dei tratti dell’italiano popolare si presentasse indipendentemente dalla provenienza dei parlanti (Berruto 1987, 108), il linguista sottolineava infatti l’inconsistenza della presunta unitarietà delle caratteristiche linguistiche di questa varietà: specie se considerato nella sua forma parlata e non scritta, in realtà, anche l’italiano popolare si differenzia – così come l’italiano regionale – da area ad area in base al parametro geografico51, il quale esercita un’influenza importante sulle produzioni di tutti parlanti e su tutte le assi della variazione linguistica (cfr. § 3.1.3), soprattutto se parlanti incolti ed incapaci di eliminare le forti coloriture regionali tipiche dei diversi territori italiani (Berruto 1987, 108-109): in quest’ottica, sarebbe allora più corretto parlare di italiano popolare regionale (Berruto 1987, 109) o di italiano regionale popolare, secondo una proposta di Sabatini (1985, 177).

Contrario dunque all’idea che l’italiano popolare presentasse una certa omogeneità in tutte le forme e le strutture linguistiche ad esso rapportabili, Berruto riconosceva semmai un carattere unitario nei “contenuti espressi con questo tipo di lingua“, nonostante ciò non permettesse, a suo avviso, di estendere l’etichetta di unitarietà alla varietà (Berruto 1987, 110). A tal proposito, inoltre, egli non avallava la tendenza antropologica dei colleghi linguisti a concentrare l’attenzione più sulle cause dello sviluppo di questa varietà, sui parlanti e sul contenuto delle loro produzioni che sui suoi effettivi tratti linguistici. Questo atteggiamento, il quale avrebbe generato, a suo avviso, delle definizioni dell’italiano popolare

su base contenutistica, tematica, stilistico-ideologica, vedendo lo ’spirito interno‘ dei testi e altre categorie del genere [, poteva recare] contributi interessanti sul piano della storia della cultura, dell’antropologia sociale, delle dinamiche anche politiche [non permettendo, però, una] designazione linguistica della natura dell’italiano popolare“ (Berruto 1983, 88).

Determinati fatti extralinguistici quali l’industrializzazione ed il conseguente cambiamento sociale, dunque, “avranno […] avuto la loro forte, decisiva influenza nell’imporre l’adozione della lingua al posto del dialetto, ma non nel determinare quei particolari tratti dell’it. popolare“ (Berruto 1987, 109). 

Allo stesso modo, già nel 1983 il linguista non riconosceva nell’italiano popolare una “grammatica di transizione“ verso il possesso di un italiano più vicino allo standard (Berruto 1983, 88-89), e non aveva, invece, dubbi nel designare l’italiano popolare come varietà sociale, anche detta varietà di strato o socioletto, generalmente rapportabile ai comportamenti linguistici di utenti di bassa o medio-bassa estrazione sociale (Berruto 1983, 87)52: riprendendone la definizione qualche anno più tardi, lo studioso parlava di

una varietà sociale dell’italiano, situabile in diastratìa, usata da/tipica di strati sociali bassi, incolti e semincolti[…] costituita da una serie di tratti linguistici non standard suscettibili di comparire in misura più o meno spiccata in diverse circostanze sociolinguistiche (in particolare, negli usi non sorvegliati), e non necessariamente solo presso parlanti incolti; più altri tratti che sono esclusivi […] dell’uso linguistico di parlanti con una posizione verso il basso della scala socio-educativa (Berruto 1987, 108).

Nelle sue trattazioni (1983 e 1987), Berruto non era neppure concorde nell’accostare l’italiano popolare ad una varietà di lingua situazionale o “funzionale-contestuale“: la proposta di Radtke (1979)prevedeva, ad esempio, che questa varietà fosse interpretabile come un “meist gesprochene[s] Sprachregister“, dal basso status sociale e distinguibile dalla lingua comune e familiare per l’elevata presenza di influssi dialettali (Radtke 1979, 55-56); meno esplicitamente, ma nella stessa direzione andava ancora la proposta di De Mauro (1986), il quale, intervenuto nuovamente sul tema, spiegava come l’italiano popolare potesse essere interpretato come una varietà bassa, fortemente radicata nella realtà socio-culturale e linguistica delle classi meno abbienti e di bassa istruzione scolastica, ed originata dalla loro tensione ad acquisire un valido strumento linguistico comune per superare le barriere linguistiche poste dal dialetto. Per De Mauro questa varietà poteva anche essere, tuttavia, impiegata da parlanti appartenenti a ceti molto elevanti per questioni stilistiche o affettive (De Mauro 1986, 9). Rifiutando entrambe le proposte, Berruto spiegava anzitutto che un possibile equivoco di base sarebbe potuto sorgere a causa della polisemia della parola registro, il quale potrebbe essere inteso in generale come livello di lingua, ma anche, varietisticamente, come “varietà diafasica della lingua, in relazione con la formalità della situazione comunicativa, i rapporti fra parlante e interlocutore“ ecc. (Berruto 1987, 110); per il linguista sarebbe stato erroneo associare l’italiano popolare ad un ‚registro‘, intendendolo in quest’ultima accezione e vedendo in esso un “registro basso, trascurato, familiare, informale ecc. a disposizione dei parlanti italofoni“ (Berruto 1983, 90-92), sebbene questa associazione potesse anche essere giustificata dal momento che diversi sono i tratti che italiano popolare e italiano colloquiale poco sorvegliato e trascurato (registro effettivo) hanno in comune53. Il fatto che, come spiega Cerruti (2009), spesso le varietà geografiche e sociali conosc[a]no ciascuna una propria variazione diafasica“ in quanto i “tratti che le caratterizzano possono […] rappresentare in certi casi varianti diafasicamente distintive“ ritrovabili in situazioni informali54 (Cerruti 2009, 35), unito al fatto che in una situazione diafasicamente bassa o poco sorvegliata, i parlanti colti possano tranquillamente scegliere di usufruire di alcuni tratti tipici dell’italiano popolare – fatto che non potrebbe invece accadere in senso contrario, in quanto un parlante incolto, dalla ridotta o nulla padronanza diafasica non potrà certo differenziare le proprie produzioni linguistiche in base alle diverse situazioni comunicative, trovandosi a fronteggiare un forte svantaggio linguistico stigmatizzato socio-culturalmente (D'Agostino 2007, 117) – ha permesso che l’italiano colloquiale venisse diafasicamente riconosciuto come “registro informale anche dei parlanti colti“ (Berruto 1987, 110-111; 118). Lo stesso ragionamento non può tuttavia essere applicato in egual misura all’italiano popolare, intendendolo come registro diafasicamente basso dei parlanti incolti, in quanto la nozione di diafasia implica per definizione il possesso di una competenza che permetta un’alternanza, nello stesso parlante, dell’impiego di più registri a seconda della situazione comunicativa in cui si trovi: l’italiano popolare è l’unica varietà di italiano che i parlanti incolti hanno a disposizione, ed in tal senso, l’unico possibile ‚registro alto‘ conosciuto (a parte il dialetto, adoperato come registro medio-basso comune), impiegato erroneamente anche in situazioni formali (Berruto 1987, 110-111).

Lo studioso poneva infine l’accento sui tre meccanismi linguistici alla base del funzionamento dell’italiano popolare, meccanismi di contatto e di analogia legati anche all’incertezza della norma55: la forte interferenza con il sostrato dialettale; l‘ipercorrettismo, ovvero la correzione, riscontrabile a tutti i livelli di lingua, tramite sostituzione di una forma linguistica di per sé corretta, nella convinzione che non lo sia poiché percepita come somigliante ad una forma effettivamente scorretta o strutturalmente troppo vicina al dialetto; la semplificazione di “settori in cui l’italiano standard presenti eccessiva ricchezza di forme e paradigmi“ (Berruto 1987, 116-117):

non va mai trascurata l’ipotesi che per ogni struttura il parlante bilingue trasponga o addirittura traduca parola-per-parola in italiano la formulazione dialettale a lui presente, ‚provando se va bene‘, per così dire, in lingua: e poiché i dialetti sono in molti casi più semplici strutturalmente dell’italiano standard […] ecco che ne conseguono strettamente interconnesse e l’interferenza e la semplificazione, rispettivamente dai punti di vista intersistemico e pansistemico (Berruto 1983, 98).

Per quanto riguarda l’interferenza con il sostrato dialettale bisogna, però, precisare che essa non è, come visto in § 3.1.3, esclusiva prerogativa dell’italiano popolare. In tal senso, questa varietà converge fortemente con l’italiano regionale. Se è vero che dal punto di vista tipologico esse si distinguono per i loro caratteri sin qui ben delineati – ossia quello sociale e relativo alla stratificazione economica e culturale dei parlanti per il primo, e quello geografico e inerente alla provenienza e alla distribuzione territoriale dei parlanti per il secondo – anche in questo caso non è auspicabile ragionare per blocchi di lingua netti e completamente separabili, in quanto sappiamo che i tratti presenti in una determinata varietà non sono esclusivi della stessa: essi possono presentarsi anche in altre varietà italiane, e queste possono a loro volta sovrapporsi, portando alla possibilità che “varietà definibili su base diatopica risultino connotate anche socialmente, e, specularmente, che varietà diastratiche conoscano specificità geografiche o, quanto meno, etno-geografiche“ (Cerruti 2009, 34): a causa delle vicende storiche che videro una forte emigrazione dal Sud d’Italia al Nord della penisola intorno a metà degli anni Sessanta, ad esempio, alcuni tratti ‚‚marcati di varietà meridionali hanno anche assunto il valore di tratti sociolettali bassi“ (Berretta 1988, 764)

Proprio in virtù del fatto che nella variazione linguistica non si può assumere un atteggiamento assolutista, e reputando di conseguenza che non tutti i parlanti di italiano regionale si esprimano nella forma ’standard‘ della varietà, è inoltre possibile supporre che per ogni varietà diatopica della lingua italiana sia presente un’ulteriore sotto-varietà o una varietà ’socialmente bassa‘, “di contro all’italiano regionale standard […] che costituisce la norma in un’area geografica specifica“ (Cerruti 2009, 35)56: su questa linea si ponevano sia Berruto (1987), per il quale “un italiano regionale socialmente basso sarà un italiano popolare, al di là della sua manifestazione nel mezzo fonico o grafico“ (Berruto 1987, 111)57, sia Sanga (1984), il quale, pur riferendosi nello specifico al contesto lombardo, vedeva nell’italiano popolare una “realizzazione imperfetta“ dei tratti dell’italiano regionale, dovuta a “motivi espressivi, di economia, di semplicità, e soprattutto all’uso linguistico di parlanti che non padroneggiano con la necessaria sicurezza la lingua poiché appartengono ad ambiti sociali che non conoscono l’italiano standard come lingua madre“ (Sanga 1984, 14-15). Per riassumere, allora, si può dire che le diverse tipologie di italiano popolare si caratterizzano come “sottoinsiemi“ dei rispettivi italiani regionali, con la differenza di essere però marcati sia in diastratia che in diatopia, e non solo in diatopia come le varietà regionali (Mengaldo 1994, 108-110).

Abbiamo dunque visto come i primissimi studi sull’italiano popolare abbiano teorizzato questa varietà nelle sue evidenti manifestazioni scritte58. Ciò non esclude, tuttavia, che l’italiano popolare possa anche manifestarsi oralmente. Tutt’altro: il falso mito per il quale l’italiano popolare sarebbe “la lingua scritta delle persone non istruite“ viene infatti logicamente sfatato se si pensa che, prima ancora che scritta, la lingua è pensata e parlata (Berruto 1987, 111): di conseguenza, l’italiano popolare è “primariamente […] parlato“ e solo in un secondo momento scritto, qualora si presenti la necessità della scrittura (Berruto 1983, 92). In tal senso, è “indubbio che una certa parte dei tratti dell’italiano popolare si debbono considerare tratti tipici del parlato, sia in quanto in esso molto più ricorrenti a differenza che nello scritto, sia in quanto derivanti molto probabilmente dalla natura stessa dell’uso orale della lingua e dalle restrizioni e possibilità che esso fornisce all’utilizzazione del codice per la formazione del messaggio“ (Berruto 1983, 92)59.

 

3.2.3. Teorizzazione dell’italiano dei semicolti

Nel paragrafo precedente si è ampiamente discusso di come, nel tentativo di delinearne i tratti e di fornire una spiegazione per la sua nascita, gli studiosi abbiano unanimemente posto l’accento sul fatto che ad avere dato origine a questa varietà distratica fossero state persone dal basso grado d’istruzione, poco colte o “semicolte“. Da qui proviene la coniazione nel mondo sociolinguistico dell’espressione “italiano dei semicolti“, espressione certo non relativa ad una materia nuova ed ‚altra‘ rispetto all’italiano popolare: le produzioni scritte dei cosiddetti semicolti erano infatti state sino ad allora studiate per l’appunto sotto la definizione di italiano popolare, come si spiega nel fondamentale lavoro sull’italiano dei semicolti offerto dal linguista Paolo D’Achille (1994, 45), e ciò chiarisce perché, in alcuni casi, le due denominazioni siano state impiegate in senso sinonimico: sino a poco tempo fa, D’Agostino le poneva, ad esempio, sullo stesso piano intitolando il paragrafo dedicato a questa varietà: L’italiano popolare (o dei semicolti), nel suo “Sociolinguistica dell’Italia contemporanea“ (D'Agostino 2007, 125).

La dicitura “italiano dei semicolti“ si affermò nel dibattito linguistico a partire da uno studio su due volgarizzamenti trecenteschi condotto nel 1978 da Francesco Bruni, il quale, concentrandosi sulla ridotta capacità di discorso presente in alcuni testi volgari di origine semicolta rispetto a quella caratterizzante testi di origine intellettuale, parlava poi del limbo linguistico nel quale gli individui semicolti “sottratti all’area dell’analfabetismo ma neppure del tutto partecipi della cultura elevata“ si sarebbero mossi anche ai suoi giorni (Bruni 1978, 548). Era, inoltre, del 1984, il provocatorio ma suggestivo titolo La lingua selvaggia. Espressione e pensiero dei semicolti, che il linguista diede al quarto capitolo del suo lavoro L’italiano. Elementi di storia della lingua e della cultura, nel quale si impegnava – andando così oltre la ricostruzione demauriana per la quale la scrittura dei semicolti si sarebbe sviluppata in epoca postunitaria60 – a dimostrare come diversi elementi riconducibili a questa varietà fossero riscontrabili in diversi testi in latino volgare61.

Con la diffusione dell’espressione italiano dei semicolti, una generale distinzione tra questa nozione e quella di italiano popolare andò via via delineandosi sempre più, sino a concretizzarsi in una differenziazione socioliguistica concettuale, in quanto il polo scritto di questa varietà diastraticamente bassa è stato man mano sempre più associato all’espressione italiano dei semicolti con la quale “si fa sempre […] riferimento a una particolare modalità scritta, o comunque a una categoria di parlanti dotati di una pur minima abilità scrittoria“ (D'Achille 1994, 41), lasciando generalmente occupare il polo della lingua parlata all’etichetta di italiano popolare. Ciononostante, proprio per le ragioni di cui discusso sin’ora, non è possibile parlare dell’una senza fare (almeno storicamente) riferimento all’altra: D’Achille stesso confermava più avanti il carattere “interscambiabile“ dell’etichetta italiano dei semicolti, parlando di una “varietà di italiano utilizzata sia nel parlato che nello scritto da una categoria particolare di parlanti, diastraticamente caratterizzati dal loro basso grado di istruzione“ (D'Achille 2003, 205, il corsivo è nostro); per poi affermare ancora, qualche anno dopo, come esso fosse espressione della “limitata competenza scrittoria di coloro che si esprimono in italiano popolare“ (D'Achille 2010, 724). Berruto (2014) spiega, altresì, recentemente quanto sia giustificata una caratterizzazione dell’italiano popolare come “italiano dei semicolti“, proprio in virtù del fatto che questo sia giustamente stato più facilmente riscontrato e studiato nelle sue forme scritte (Berruto 2014, 280), motivo per il quale, esso è stato per diverso tempo generalmente avvertito come il “corrispettivo scritto dell’italiano popolare“ (Fresu 2016, 328).

Anche D’Achille (1994) fa notare come nell’italiano dei semicolti le due sfere linguistiche del parlato e dello scritto continuino ad intrecciarsi inevitabilmente: anche secondo lo studioso le produzioni scritte rientranti sotto questa varietà di italiano restano legate alla sfera dell’oralità; la lingua impiegata nelle scritture semicolte appare addirittura come “indipendente“ rispetto alla dicotomia tra scritto e parlato (D'Achille 1994, 41), presentando caratteri di entrambi, e condividendo

con la lingua scritta il mezzo usato, che consente al messaggio di superare la distanza spaziale o gli assicura la durata nel tempo – privandolo però del sostegno di altri codici (il gesto, il tono di voce, ecc.) -, [mentre] con la lingua parlata altri elementi non meno caratterizzanti: l’empatia del soggetto, la scarsa sorvegliatezza, il legame diretto con la situazione, il <<privilegio quasi assoluto per la funzione referenziale del messaggio>> (D'Achille 1994, 41).

Spinti talvolta dalla tragicità dalle circostanze in cui si trovano (si vedano le lettere dei prigionieri di guerra raccolte da Spitzer), talvolta dalla necessità di comunicazione con altri individui con i quali non si condivide la lingua madre, o per affrontare l’autorità burocratica per iscritto, i semicolti si cimentano nell’imitazione scritta della varietà “alta e grammaticalizzata“ appresa in classe, pur non possedendone una piena padronanza (Bruni 1984, 206). Come notato da Sobrero (1975), tramite il processo di imitazione della varietà alta, gli scriventi semicolti finiscono però per “reinventa[re] la scrittura, assumendo come unica norma il suo uso parlato“ (Sobrero 1975, 109, nota 8), in quello che il linguista definisce come uno sforzo nell’analisi della propria produzione fonica, il quale ha come risultato la successiva rappresentazione fonetica della stessa (Sobrero 1975, 109, nota 8). Ciò è strettamente connesso alla non totale corrispondenza tra la capacità grafica dei soggetti semicolti e la padronanza delle regole linguistiche alla base della lingua scritta (D'Achille 1994, 43): sapere scrivere “non abilita […] ipso facto alla scrittura“ (D'Achille 1994, 43), così come il fatto di sapere manualmente tracciare sul foglio le parole non significa automaticamente riuscire a comporle, riuscire a discernere i confini tra le stesse (Ibidem). Non godendo appieno degli strumenti linguistici necessari a cimentarsi nello scritto, il semicolto trascriverà “in presa diretta il proprio discorso mentale che è anzitutto – per mancanza di altri modelli – un discorso orale“ (D'Achille 1994, 43).

Nella sua trattazione, il linguista D’Achille sottolinea però allo stesso modo l’importanza psicologica che la possibilità di espressione raggiunta tramite la scrittura dai soggetti semicolti rappresenta per loro stessi: essa viene spesso percepita come una vera e propria conquista personale, in quanto mezzo di nobilitazione e acculturamento dell’uomo (D'Achille 1994, 45). Il fatto che non si sia, però, totalmente in possesso della competenza scrittoria necessaria per affrontare adeguatamente un testo scritto è ben noto agli scriventi semicolti, tanto da andare a costituire in loro una sorta di scoglio psicologico nei confronti della scrittura – non tale dal farli astenere totalmente dalla messa per iscritto dei propri pensieri, ma forte abbastanza da portarli a scusarsi apertamente con i destinatari dei loro scritti, ammettendo, presi dalla vergogna, i propri limiti scolastici. Riportiamo qui alcuni frammenti delle lettere raccolte da Leo Spitzer nel suo Lettere di prigionieri di guerra italiani 1915-1918, nel capitolo “Le scuse per la cattiva scrittura“ che chi scrive invia mortificato ai destinatari, in questo caso facendo ammenda per il presunto “fastidio inflitto“ loro a causa della brutta calligrafia: “scusa del male scritto“, “scuserai della calligrafia e del poco senso perchè io non sono istruita(Spitzer 1976, 62); altri esempi chiarificatori del disagio psicologico degli scriventi semicolti sono ancora riportati in D’Achille (1994), in cui sfilano giustificazioni e scuse del tipo “se non mi so spiegare con la penna, è tutto difetto di mia ignoranza“, o “mi scuserà della mia imprudenza, ma si immagina e per mancanza d’istruzzione“, o ancora “mi compatirà del mio rozo scrivere non avendo studiato altro che a guardare pecore e capre(D'Achille 1994, 43-44). Allo stesso tempo, vi è un altro tipo di approccio rispetto alla capacità, seppur imperfetta, di rapportarsi alla scrittura da parte dei semicolti: talvolta, infatti, il fatto di essere in grado di scrivere non perfettamente viene rivendicato con orgoglio, come testimoniato dal seguente passo: “prego i signori lettori di scusare della sgrammatica. Meglio sgrammaticati onesti cristiani che ladri e assassini, ricchi, satanici grammaticanti“, ponendo astutamente e provocatoriamente la questione della competenza anche in termini di lotta di classe, opponendo l’integrità del popolo semplice ed illetterato alla corruzione morale della classe alta, acculturata  e linguisticamente competente (D'Achille 1994, 44).

La linguista Rita Fresu (2016) pone invece l’accento sul fatto che a mancare a questi parlanti sia soprattutto la possibilità di variazione e modulazione della variabile diafasica (Fresu 2016, 329); nonostante il tentativo di riproduzione dei modelli di italiano scritto che essi conoscono, tale varietà appare caratterizzata dall’incapacità dei parlanti di dominare la dimensione diafasica e “ciò ha come conseguenza uno scarso controllo dei registri, specialmente quelli più ricercati“ (Fresu 2012). Fresu indica, inoltre come, dopo il fondamentale studio di D’Achille L’italiano dei semicolti (1994), si sia rimasti per anni concettualmente “fossilizzati“ sull’idea che, come più volte indicato nel capitolo 3, questo tipo di italiano fosse da spiegarsi in termini anzitutto diastratici, individuando una tipologia di scrivente ed una tipologia di testo ad esso riconducibili; individuando e descrivendo i meccanismi di semplificazione caratterizzanti la varietà; facendo ancora riferimento all’opposizione tra regola/errore, corretto/scorretto, focalizzando l’attenzione sull’effetto della devianza dalla norma su chi recepisse il messaggio e sulla conseguente compromissione della comunicazione semicolta (Fresu 2016, 330-331).  I più recenti studi sull’italiano dei semicolti, per i quali si rimanda soprattutto a Fresu (2016, 332) e alla bibliografia ivi indicata, indicano come sia, invece, necessario concentrare l’attenzione non tanto sulla sola caratterizzazione sociale del ’semicolto‘ in quanto tale o su una sterile descrizione della fenomenologia linguistica ad esso relativa; quanto, invece, sul livello cosciente di scrittura del parlante, sulla sua capacità di riflessione sulla scrittura e sulla testualità, e, soprattutto, sulle motivazioni che spingono queste persone ad avvicinarsi alla penna – “negli scriventi del passato, [ad esempio], vanno imputate alla marginalità culturale di chi produce il testo“62 (Fresu 2016, 331) e sulla questione si cfr. anche – con una conseguente valutazione delle potenziali “infrazioni da essi commesse“ secondo un’ottica diversa rispetto alle precedenti: già Testa (2014) prende le distanze dall’inquadrare e dare un giudizio alle produzioni semicolte in termini di allontanamento o storpiatura dalla regola, suggerendo, al contrario, di vedere nella scrittura di questi individui una “conquista“ nell’apprendimento (Testa 2014, 109-110). Un fondamentale parametro secondo il quale si cerca oggi di trattare al meglio questa varietà è quello relativo alla variazione diafasica, connessa alla situazione comunicativa in cui il parlante si trova, prestando particolare attenzione alla competenza del soggetto e alla sua consapevolezza testuale rispetto alla tipologia di testo nella quale la produzione si svolge, investigandone, cioè, “la capacità di modulare la propria scrittura in relazione a fattori esterni al testo e di accostarsi intenzionalmente a un determinato genere rispettandone le regole costitutive“ (Fresu 2016, 332). In quest’ottica, secondo Fresu, l’italiano dei semicolti si pone come fondamentale testimonianza del continuum linguistico tra italiano e dialetto, delle dinamiche occorrenti tra lingua scritta e lingua parlata, e come esempio di italiano locale scritto e non letterario:

intesi come testimonianze <<dal basso>> rappresentano documenti preziosi in cui è possibile cogliere, tradotti in una specifica fenomenologia linguistica, i risultati dei percorsi alternativi di acquisizione della lingua e non di rado espliciti riferimenti a modelli e agli itinerari formativi attraverso i quali gli scriventi si sono impadroniti degli strumenti di scrittura“ (Fresu 2016, 335).

Sulla complessità del tema, dovuta sia alla relativa libertà da parte dei linguisti di area germanofona nell’attribuire a questa etichetta valori spesso differenti, sia ad una questione prettamente terminologica (accanto alla Varietätenlinguistik convive, infatti, in ambito germanofono la “Variationslinguistik“ o “linguistica della variazione“), oltre che per una più approfondita disamina sugli studi condotti sulla variazione linguistica, (cfr. Sinner 2014).
Per un approfondimento sul carattere sociale dell’uso del linguaggio, cfr. Lepschy 1996, 139-143.
L‚influenza sociale sulla realtà linguistica si riflette ad esempio sia nello status attribuito dai parlanti a determinate varianti che in quello attribuito dalla società stessa a determinate varietà di lingua o lingue (Krefeld 2016, 262); sul ruolo attivo dei parlanti in quanto agenti sociali nella standardizzazione dell’italiano, come esempio di influenza sociale sulla lingua, invece, cfr. Serianni 2006 e Berruto 2007.
Non presentando alcuna differenza strutturale rispetto alla ‚lingua italiana‘ (D'Agostino 2007, 69), i dialetti presenti sul territorio italiano non devono essere considerati come “varietà locali della lingua nazionale, né tantomeno [come] deformazioni o correzioni di questa [in quanto] proprio come l’italiano letterario – costituitosi anch’esso sulla base di un dialetto (il fiorentino trecentesco) – e come le altre lingue e i dialetti romanzi, [essi] derivano dal latino volgare e hanno dunque, dal punto di vista storico-linguistico, la stessa dignità della lingua“ (D'Achille 2003, 13). La distinzione operata tra dialetto e lingua sarà allora di tipo esclusivamente sociale e dipenderà dal prestigio linguistico di cui i due sistemi godono presso i parlanti (D'Agostino 2007, 69).
Per un ampio approfondimento sulla situazione italo-romanza pre-unitaria, si rimanda qui al fondamentale “Storia linguistica dell’Italia unita“ di Tullio De Mauro (1986), oltre che a Bruni (1984, 81-172); tuttavia, vale la pena ricordare qui brevemente che “prima dell’Unità, l’italiano al di fuori della Toscana (dove lingua e dialetto sono sempre stati in rapporto di contiguità), era una lingua nota a un numero di persone alquanto ridotto [in quanto] la stragrande maggioranza della popolazione parlava […] uno dei dialetti che si erano formati nella nostra penisola dopo il crollo dell’Impero romano“ (D'Achille 2003, 23).
Uno dei principali fenomeni che portarono gli italiani ad avvicinarsi ad una lingua nazionale è certamente costituito dal processo di alfabetizzazione legato all’obbligo scolastico introdotto dalla legge Casati già nel 1859 (sebbene il tasso d’evasione all’obbligo sia rimasto molto alto almeno sino agli anni Trenta); ma a giocare un altrettanto rilevante ruolo nella diffusione della lingua nazionale furono altresì la crescente industrializzazione e l’urbanizzazione ad essa relativa, fenomeni per i quali le grandi masse contadine si spostarono dalle zone rurali alle città, provocando tra i nuovi e i vecchi cittadini l’esigenza di intendersi in una lingua comune; la successiva promozione della lingua unitaria avvenne parimenti grazie ai mezzi di comunicazione di massa quali i giornali, la radio e, a partire dagli anni Cinquanta, la televisione, “scuola di lingua e di cultura“ grazie alla quale “i ceti diseredati relegati in posizione subalterna dalla scarsa cultura […] imparano a parlare l’italiano e, con l’italiano, imparano com’è fatta la cultura dei cittadini, delle classi dominanti“ (De Mauro 1994, 128). Per un esaustivo e dettagliato approfondimento sul tema, si rimanda al sopracitato De Mauro (1986).
Non per negligenza, ma poiché il focus verte qui sul rapporto tra i due diasistemi maggiori, non affronteremo in questa sede la questione delle minoranze linguistiche presenti sul territorio italiano e delle relative altre lingue ivi parlate. Per una  descrizione sociolinguistica del complesso repertorio italiano plurilingue relativo ad antiche e nuove minoranze, si rimanda a Francescato (1993), D’Agostino (2007) e Krefeld (2016), il quale distingue in tal senso due tipologie di sociolinguistica: quella degli idiomi, la quale comprenderebbe lo studio delle lingue minoritarie e i dialetti; e quella della variazione, inerente, come vedremo, allo studio di specifiche varianti avvertite come marcate dai parlanti, e propria della varietistica (Krefeld 2016, 263).
Con la nozione di ‚repertorio‘ si intende “l’insieme delle lingue, o le varietà di una stessa lingua, e delle loro norme d’uso, impiegate in una comunità“ (D'Agostino 2007, 109); a tal proposito, Berruto definiva il repertorio linguistico italiano medio come un diasistema (lingua nazionale-dialetto) il cui rapporto (sino ad allora definito ‚diglossico, in cui alla varietà alta era rigidamente riservato l’uso scritto e formale; mentre a quella bassa, anche impiegata per la socializzazione primaria e dunque una L1, l’uso parlato informale) rifletteva una situazione di “bilinguismo endogeno a bassa distanza strutturale con dilalìa“, indicando così la compresenza di due lingue e delle loro relative varietà, non strutturalmente troppo diverse tra loro, e non più rigidamente separate rispetto all’ambito d’uso informale, ma “impiegabili nella conversazione quotidiana e con uno spazio relativamente ampio di sovrapposizione“ (Berruto 1993, 5-6).
Al glottologo Giovan Battista  Pellegrini è infatti dovuta la prima basilare quadripartizione delle varietà presenti nel repertorio italiano; essa comprendeva l‘ ‚italiano standard o comune‘, l‘ ‚italiano regionale‘, la ‚koinè dialettale o dialetto regionale‘, ed il ‚dialetto locale‘; da questa quadripartizione presero successivamente il via altri fondamentali approfondimenti ed ampliamenti sociolinguistici alla struttura del repertorio linguistico italiano, caratterizzato dalla dialettica tra italiano e dialetti delle diverse regioni italiane da un lato e la coesistenza tra le “diverse norme di realizzazione di un medesimo idioma“ dall’altro (De Mauro 1977, 124). Per un ampio commento sulle varietà italiane e sulle relative denominazioni offerte dagli studiosi dal 1960 sino al 1987, si veda Berruto (1987); per una tavola sinottica delle diverse classificazioni delle stesse, invece, si rimanda a Berruto (1993, 18;26).
Sebbene essa non goda di uno “statuto teorico autonomo, [e si configuri anzi] come ambito di lavoro orientato in senso empirico, con scopi prevalentemente descrittivi“ (Berretta 1988, 762), Holtus-Radtke sottolineano però in ogni caso la specificità della linguistica delle varietà rispetto alla sociolinguistica: a differenza della sua matrice, infatti, la linguistica delle varietà si occuperebbe di indagare e descrivere anche dei tipi di “Varietäten [,] die nicht [nur] von der Sozialen Determination der Sprache und ihrer Sprecher abhängen“ (Holtus/Radtke 1983, 16).
Come notato da Holtus-Radtke (1983), il termine ‚varietà‘ non era tra l’altro di recente coniazione: Benvenuto Terracini se ne era infatti già avanguardisticamente occupato nei suoi lavori pre-sociolinguistici sulla dialettologia nei primi anni del Novecento, sebbene questi non si concentrassero ancora sul problema della “Systematizität“ del fenomeno, né vi fosse una “fundierte Grundlegung des Varietätenbegriffs“ (Holtus/Radtke 1983, 13-14).
Relativo, dunque, sia ad un intero sistema di lingua che solo ad alcuni tratti specifici presenti all’interno dei sistemi linguistici.
I due sistemi di base sui quali, come sostiene Dardano (1994, 344), si costruisce tutto il repertorio linguistico italiano.
Sui sempre più evidenti limiti della terminologia adottata dalla tradizione germanofona risalente alla quadripartizione delle dimensioni di variazione offerta da Koch/Oesterreicher (1985; 1990), basata sui parametri di ‚immediatezza‘ (o ‚vicinanza‘) e ‚distanza‘ – oltre che sulle conseguenti implicazioni metodologiche rispetto alla linguistica percezionale ad essa connessa – si veda il contributo “Varietà ibride? Che cosa ne pensa la linguistica variazionale“ disponibile sulla piattaforma Lehre in den Digital Humanities (Krefeld 2018).
E in tal senso, reale attuazione della linguistica della parole preannunciata da Ferdinand de Saussure (sul tema, cfr. Raimondi 2009, 15-18; Krefeld 2015).
Iannàccaro spiega, infatti, che “è proprio attraverso la constatazione della variazione linguistica (di qualunque tipo) che il parlante viene a contatto con varietà diverse rispetto al proprio idioletto […] ed è indotto a rifletterci sopra“ (Iannàccaro 2015, 23).
O, nel caso specifico dei test percettivi, nel sapere linguistico dei cosiddetti ‚informanti‘, soggetti sottoposti, ad esempio, all’ascolto di stimoli uditivi registrati dai ricercatori sul campo.
Un elemento “marcato“ è dunque un elemento “provvisto di una marca che lo contraddistingue rispetto alla sua manifestazione considerata, per motivi qualitativi e/o quantitativi, come basica, o normale, o canonica“ (Ferrari 2012, 17); la proprietà di marcatezza/non marcatezza può essere applicata a tutti i livelli dell’analisi linguistica (Ferrari 2012, 17) ed è inoltre spesso messa in relazione con i principi di naturalezza elaborati dalle teorie di morfologia naturale e sintassi naturale, secondo le quali si riterranno non marcati i tratti “cognitivamente più accessibili – ossia più naturali -, che favoriscono la processabilità dell’informazione e la corrispondenza tra la percezione della realtà e la sua rappresentazione linguistica“ (Cerruti 2009, 254).
Per un approfondimento sul tema, si rimanda al volume “Perzeptive Variatätenlinguistik“, a cura di Krefeld-Pustka (2010); oltre che a Krefeld(2015).
Simone (1990) spiega che “le lingue verbali vivono in diacronia, nel senso che si modificano nel tempo […] le manifestazioni di questo mutamento [riguardano ad esempio] la dotazione di suoni di una lingua [,] i significati e le forme delle parole [,] l’organizzazione grammaticale, e così via“ (Simone 1990, 77-78).
Sulla denominazione possibilmente fuorviante di questa varietà – la nozione di “regionale“ non va infatti pensata come corrispondente all’effettiva estensione amministrativa delle regioni d’Italia – cfr. Sobrero (2012, 129-130).
Per un più chiaro approfondimento sul ruolo delle componenti della situazione comunicativa, quali i partecipanti, gli atti comunicativi, i risultati, la cosiddetta localizzazione ecc., si veda Grassi-Sobrero-Telmon (2012, 204-211).
In senso sociolinguistico, il concetto di ‚continuum‘ indica usualmente un insieme composto da un ventaglio di varietà (tra cui si distinguono una varietà alta ed una bassa, ai due poli), i cui confini, nebulosi ed indefiniti, possono sovrapporsi e dissolversi l’uno nell’altro, impedendo una precisa identificazione delle stesse, specie se contigue, da parte della sociolinguistica (Berruto 1987, 27-28); per un approfondimento sul tema, anche rispetto alle obiezioni sollevate sulle implicazioni di questa definizione, si veda Berruto (1987, 27-42).
È ragionevole credere allora che le possibili varianti di una specifica variabile siano riscontrabili ed ascrivibili a diverse dimensioni, e che vadano a costituire – insieme alle altre – quelle che Krefeld (2018) definisce come “varietà ibride“, smentendo, nello specifico, il ragionamento di Koch/Oesterreicher (1990) il cui schema prevedeva che ad ogni dimensione della variazione corrispondesse un numero definito di varietà, a loro volta composte da un preciso numero di varianti.
Entrambi caratterizzati da fenomeni epilettici dai quali la donna era afflitta sin da giovane e a causa dei quali veniva rapportata, secondo la cultura popolare salentina, ad una realtà magica. Nonostante la loro medesima natura, inoltre, la donna ne distingueva superstiziosamente e religiosamente le manifestazioni: ella raccontava infatti di avere voglia di ballare prima di una crisi di tarantismo, e di avere la tendenza a dimenarsi per terra durante le crisi epilettiche di San Donato (Rossi 1994, 80-85).
“La scrittura parla di sé insieme a qualunque altra cosa di cui parla: essa si costituisce su proprie peculiarità di codificazione dell’esperienza, di forma di rappresentazione, di lingua, di temporalità e spazialità, di costruzione dell’interlocutore“ (Apolito 1994, 13).
“La donna ha frequentato solo la prima elementare, ma è in grado di esprimere per iscritto quanto vuole comunicare; le sue lettere presentano grossolani errori di grammatica, e sono quasi totalmente sprovviste di punteggiatura“ (Rossi 1994, 79).
Circa questo termine, D’Achille precisa che l’aggettivo semicolto (successivamente adottato, come vedremo, per indicare i soggetti interessati dal fenomeno linguistico scritto dell’italiano dei semicolti) rifletteva sia una chiara differenziazione rispetto ai termini colto ed incolto, sia una maggiore specificità rispetto alla serie terminologica assieme alla quale esso sarebbe potuto essere semplicisticamente associato: semianalfabeta, semialfabeta, semincolto; secondo D’Achille, infatti, questi ultimi sarebbero stati da collocare in un gradino più in basso rispetto al semicolto propriamente detto, in quanto “[in]capaci di servirsi dello scritto [né] per usi funzionali e pratici […], [né] per fini latamente espressivi“ e, al limite, in grado di “apporre la propria firma o poco più“ (D'Achille 1994, 42-43). Accanto alla designazione di semicolto, il linguista propone invece di apporre i termini poco colto, mediocolto, o semiletterato, in ogni caso da collocare su gradini intermediamente diversi, data la differente e non rigida caratterizzazione culturale dei soggetti semicolti (D'Achille 1994, 42-43).
Per un’approfondita, diversa argomentazione, ovvero sulle debolezze dell’originaria visione unitaria dell’italiano popolare, almeno per quanto riguarda gli elementi linguistici e non contenutistici espressi in questo tipo di lingua, si rinvia almeno a Berruto (1987, 108-110).
Basti pensare che a distanza di ottant’anni, ancora tra il 1951 ed il 1955, solo il 18% della popolazione italiana impiegava l’italiano, sebbene in forma ancora artificiosa e pomposa, poco spontanea; il 20% era invece dialettofono, mentre la restante percentuale si muoveva in un limbo linguistico diglossico, impiegando la lingua italiana in situazioni estremamente formali ed il dialetto nella quotidianità, data la sua “efficacia espressiva“ (De Mauro 1994, 117).
La necessità delle masse di “mettere da parte i rispettivi dialetti, cominciando ad usare, per intendersi, gli elementi di lingua italiana a loro noti“ si manifesta inoltre con le prime associazioni di lavoratori postunitarie e con lo svilupparsi dei primi canti sindacali e di protesta, come ad esempio il Canto degli scariolanti: questi erano infatti caratterizzati da un vocabolario semplice, in cui affioravano anche degli elementi dialettali, unito ad una certa “oscurità sintattica“, e, a livello grafico, ad un abuso delle maiuscole; altro elemento evidenziato dal linguista è la “brusca rottura stilistica“ o l’alternanza tra forme popolari e forme auliche, allora ancora persistenti a causa della forte influenza dell’opera lirica ancora sentita, il cui influsso viene paragonato da De Mauro con quello esercitato dalla televisione negli anni Cinquanta e Sessanta (De Mauro 1994, 118-121).
Il primo conflitto mondiale costrinse i soldati a misurarsi con una dimensione del tutto nuova: come spiega Glauco Sanga, infatti, i contadini non avevano mai avuto sino ad allora la necessità di avvicinarsi allo strumento culturale della scrittura, in quanto “la diffusione dell’italiano avveniva per via orale o, al più, attraverso la lettura [e] tradizionalmente in paese c’era sempre qualcuno delegato a scrivere: il parroco o il segretario comunale o un paesano colto(Sanga 1984, 173) tutt’altra situazione si presentava invece in trincea, in cui i contadini ormai soldati dovevano necessariamente confrontarsi a tu per tu con penna e carta. Tra le motivazioni che spinsero alla scrittura, ricordiamo infatti la necessità di rassicurare le famiglie sulle proprie condizioni di salute, oltre che la possibilità, nel caso dei prigionieri di guerra, di “allontanare l’incubo del rientro al fronte e della possibile morte in trincea; [di] esprimere un’autentica sofferenza psichica; [di] sottrarsi allo stigma della follia e all’istituzione, fortemente autoritaria, del manicomio; [di] tentare di rimediare a una situazione angosciante con la richiesta (nelle lettere al direttore) di ottenere la documentazione necessaria per un sicuro rientro a casa“ (Testa 2014, 101).
Come spiega Cortellazzo, una rivalutazione delle testimonianze “dal basso“ poté avvenire solamente nel secondo dopoguerra, con una rinnovata volontà politica d’opposizione alla “cultura egemonica fra le due guerre [la quale] non tollerava che, accanto alla cronaca ufficiale, linda nella forma, spesso retorica e falsa, trovasse posto la cronaca degli altri, dei protagonisti sottoposti e, infine, sopportanti il maggior peso di ogni avventura sociale“ (Cortellazzo 1972, 19).
Come spiega Lorenzo Renzi nell’introduzione alla raccolta epistolare di Leo Spitzer, questo lavoro era sino ad allora sconosciuto ai più ed i “i filologi e gli studiosi di italiano popolare ne parlavano, ma più per sentito dire che per conoscenza diretta“ (Renzi 1976, VII)).
Diversi sono i capitoli dedicati nell’opera ai dissimulati tentativi di richiesta di provviste e viveri da parte dei prigionieri a parenti e familiari. Se le lamentele sulle misere condizioni dei prigionieri avessero raggiunto l’Italia, questo avrebbe potuto costituire un ulteriore possibile movente per la continuazione dell’offensiva nel conflitto mondiale, e i prigionieri ne erano consapevoli. Sugli originali espedienti linguistici da questi ultimi adoperati per descrivere il concetto di “fame“ al fine di sfuggire all’occhio pressante della censura austriaca, si veda inoltre l’importante lavoro linguistico del filologo Spitzer sulla lingua popolare, Die Umschreibungen des Hungers im Italienischen[Le circonlocuzioni impiegate per esprimere la fame in italiano] (supplemento alla “Zeitschrift fuer romanische Philologie“, Niemeyer, Halle 1920), pubblicato un anno prima delle Lettere, lavoro in cui lo studioso mette in luce le diverse colorite strategie linguistiche impiegate per aggirare l’ostacolo della censura, il cui sguardo si era “acuito per le lamentele causate dalla fame“ e aveva comportato un “raffinamento dei metodi d’indagine impiegati“ dai censori (Spitzer 1976, 10).
Facciamo qui riferimento a tre atteggiamenti linguistici riguardanti l’alternanza del codice tra italiano e dialetto, possibili in un contesto bilingue qual era e qual è tuttora quello italiano: il code-switching o commutazione di codice, il code-mixing o enunciato mistilingue, e il tag-switching anche conosciuto come commutazione extrafrasale (D'Agostino 2007, 144; D'Achille 2003, 179). Il code-switching, ossia il passaggio funzionale da un idioma ad un altro nello stesso enunciato, viene operato consapevolmente dal parlante in base alla situazione comunicativa in cui egli si trova ed è altresì condizionato da motivazioni sociali e “identitarie“: esso dipende, infatti, sia dal prestigio sociale che lo standard riveste nella situazione comunicativa rispetto al dialetto, percepito come varietà diastraticamente “bassa“ (D'Agostino 2007, 118), sia dalla forza identitaria delle diverse varietà, in questo caso di quella dialettale, come fattore attivo di riconoscimento dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale e linguistico (D'Agostino 2007, 118); nel caso delle lettere analizzate da Spitzer, però, l’impiego del dialetto assume spesso il valore di “codice dell’intimità“ dovuto alla necessità di sfuggire agli occhi attenti della pressante censura operata dai censori sulle missive (Spitzer 1976, 107). Il code-mixing, ovvero il mescolamento non funzionale di più idiomi all’interno di una stessa frase, è, al contrario, un fenomeno non intenzionale, dovuto alle incertezze del parlante dialettofono e in particolare alla sua approssimativa conoscenza della lingua italiana (D'Achille 2003, 179). Il tag-switching, invece, si caratterizza per l’inserimento di elementi isolati quali interiezioni, riempitivi ecc. all’interno dell’enunciato (si pensi, ad esempio, alla funzione ludica del dialetto espletata tramite l’inserimento di questi ultimi elementi nella comunicazione colloquiale, specie giovanile).
È bene, tuttavia, sottolineare che per questioni legate alla censura, lo stesso Spitzer non fornì informazioni sugli scriventi, di cui non si conoscono certo i nomi, ma neppure l’età, né l’effettivo grado d’istruzione (si noti, inoltre, che non tutte le lettere raccolte dal linguista presentano lo stesso grado di competenza linguistica: alcuni mittenti risultano essere nettamente più colti di altri, o per meglio dire, meno “incolti“ di altri, nonostante lo sforzo dello studioso di creare un corpus il più possibile omogeneo a livello socio-culturale); in base al contesto, nondimeno, è spesso possibile rintracciare alcuni indizi che aiutino, pur limitatamente, a ricomporre il puzzle diastratico dello scrivente.
Qui De Mauro faceva sarcasticamente riferimento all’azione soffocante del “greve rullo dell’italiano scolastico“ (De Mauro 1994, 134), che a poco servì – a suo avviso – nell’educazione al “pieno e libero possesso della lingua italiana“, e che invece, “per la debolezza delle sue strutture, anzitutto, poi per l’impreparazione linguistica del personale insegnante […] ha svolto un’azione di indebolimento dei dialetti [esercitando] un’azione di repressione del parlato piuttosto che di addestramento all’uso e scritto e parlato e colloquiale e formale della lingua“ (De Mauro 1994, 136).
Come spiega Berruto, anche Tatiana Alisova si era per esempio già occupata nel 1965 della struttura della frase relativa del cosiddetto “italiano popolare“ sovrapponendo, tuttavia, questa definizione alla dimensione parlata e colloquiale della lingua, e creando così una prima ambiguità tra la definizione di “italiano popolare“ e quella di “italiano parlato colloquiale“ (Berruto 1987, 105).
Oltre a Lettere di una tarantata (1970) di Annabella Rossi, infatti, si ricordano, ad esempio, il romanzo autobiografico Una donna di Ragusa (1957), di Maria Occhipinti, donna siciliana di umili origini; Quaderno (1958), diario di Alfonso Muscillo, usciere di una biblioteca romana; il Diario della grande guerra (1961) di Francesco Giuliani, pastore abruzzese. Per un ulteriore approfondimento sui testi semicolti pubblicati in questo periodo e su quelli presi in esame dagli studiosi, si rimanda a Sobrero (1975, 108, note 5 e 6); D’Achille (D'Achille 1994, 43-45, note 18-24; 28).
Le difficili circostanze storiche presenti nella storia linguistica italiana hanno influito, secondo Fresu (2016), sulla tipologia testuale in cui i testi semicolti si sono sviluppati nel tempo, tra cui si annoverano: “testimonianze provenienti dal o indirizzate al fronte“, sotto forma di lettere, ma anche nelle urgenti espressioni del sé riscontrabili in diari, memorie, taccuini di guerra; anche il fenomeno migratorio ha prodotto diverse produzioni epistolari, oltre che produzioni su cartolina o lettere indirizzate dai migranti ai giornali (Fresu 2016, 335-336). Per un approfondimento sugli ulteriori generi testuali interessati dalla scrittura dei semicolti, cfr. Fresu (2016, 335-339).
Radtke fa qui però notare come questa definizione non sia sufficientemente caratterizzante o esclusiva di questa varietà, in quanto parimenti applicabile all’italiano regionale (Radtke 1979, 44).
“In questa chiave possono quindi essere letti anche i pesanti tratti di interferenza del substrato dialettale che svolgono il ruolo della lingua materna nella varietà di apprendimento“ (D'Agostino 2007, 127).
Si parla di fossilizzazione quando la conoscenza della lingua di un individuo si blocca ad un determinato stadio senza possibilità di progressione (D'Agostino 2007, 83).
D’Agostino fa inoltre notare come questa varietà non sia allo stesso modo accostabile neanche all’italiano tipico delle produzioni dei bambini appartenenti alle prime classi delle elementari, nonostante esse presentino sovente caratteristiche simili a quelle dei testi semicolti. Parrebbe infatti poco ragionevole far rientrare queste ultime sotto l’etichetta dell’italiano popolare, in quanto gli specifici tratti di cui sopra vengono presto superati dai bambini nelle successive fasi di apprendimento scolastico, cosa che, come detto, non avviene nei parlanti di italiano popolare (D'Agostino 2007, 127).
Tra le fonti andate poi a creare il corpus analizzato da Cortellazzo vi erano: lettere di soldati e prigionieri di guerra durante il primo conflitto mondiale, caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale; lettere di altra provenienza quali quelle di emigrati friulani, o esempi come quello di Anna del Salento; memorie autobiografiche di diversa provenienza, quali ad esempio memorie di contadini lucani, di sottoproletari lombardi, o di banditi siciliani; testimonianze di diversa natura e di diversa provenienza, quali documenti di soldati processati durante la prima guerra mondiale,  o di emigrati a Milano; compiti scolastici di diversa provenienza (Cortellazzo 1972, 19-20)
Oltre a suggerire l’idea di “una varietà sovraindividuale“ (Krefeld 2016, 267).
Con la nozione di diglossia (Ferguson 1959) si intende la compresenza su un determinato territorio linguistico di due sistemi di lingua ai quali la comunità di parlanti attribuisce un diverso prestigio sociale, tale per cui uno dei due idiomi sarà considerato come varietà ‚alta‘ e di maggiore prestigio; mentre l’altro verrà connotato come varietà bassa, più informale e non adatta a contesti “alti“. È importante notare che i contesti d’uso dei due idiomi saranno rigidamente separati: alla varietà alta spetteranno i contesti formali, mentre quella bassa sarà impiegata per domini ordinari, propri della vita quotidiana (D'Agostino 2007, 77-78). Come visto in capitolo 3, però, la situazione italiana non è più ascrivibile a questo concetto: si parla oggi infatti di dilalìa ossia una condizione in cui i contesti d’uso delle due varietà A e B sono mutati: in un contesto dilalico quale quello odierno, infatti, entrambi gli idiomi, dunque sia quello “alto“ che quello “basso“, possono essere impiegati in contesti informali e colloquiali (D'Agostino 2007, 79).
Anche i due studiosi notavano, nella loro analisi, la forte influenza del dialetto su questa varietà, ed individuavano le maggiori interferenze tra parlato e scritto sul piano grafico, il cui uso non ha “riscontro sul piano del parlato, ma è insegnato a scuola“ (Sobrero 1975, 110): si segnalava dunque la presenza di doppie o scempie, là dove non sarebbero state previste, così come la poca padronanza delle regole relative all’interpunzione, agli accenti, agli apostrofi, all’uso di lettere maiuscole o minuscole, oltre che una difficoltà nella percezione dello spazio tra le parole, con i conseguenti fenomeni di agglutinazione o deglutinazione (in contro); dal punto di vista morfosintattico, frequente era l’errato accordo tra soggetto e verbo o tra sostantivo e aggettivo, dipeso dal fatto che lo scrivente si basasse su concordanze ad sensum (Sobrero 1975, 113), e ancora pleonasmi nell’uso dei pronomi (alla mamma le era piaciuta) così come l’uso di gli nelle forme oblique del femminile e del plurale, l’uso del ‚che polivalente‘, la coordinazione preferita alla subordinazione (Sobrero 1975, 113). Il  ‚modello‘ scolastico avrebbe operato meno, invece, a livello lessicale il quale, però, essendo connesso alla nuova realtà del mondo sociale, del lavoro, della televisione, portava ad una riduzione della presenza di termini dialettali; allorquando ve ne fossero stati, Sobrero parlava di una “consapevole scelta linguistica“ facendo riferimento a fenomeni rapportabili al bilinguismo, quali il commutamento di codice, oggi conosciuto come code-switching (Sobrero 1975, 115).
“Se si badasse solo alla morfosintassi, l’italiano popolare sarebbe fondamentalmente unitario“ (Berruto 1987, 109, nota 7), in quanto livello di analisi in generale meno soggetto alla differenziazione da area ad area (Berruto 1987, 109). Su questa tesi non concorda Mengaldo (1994) il quale, prendendo ad esempio l’accusativo preposizionale preceduto da a, spiega che tale fenomeno sarà sempre e solo fenomeno meridionale e mai settentrionale, se non eventualmente per motivi altri dall’affioramento dialettale. Per questa ed altre tesi contro l’unitarietà morfosintattica dell’italiano popolare, cfr. Mengaldo (1994, 109-110).
Bisogna altresì tenere presente, come ricorda Cerruti (2009), che ‚‚l’univocità di risultati a cui conduce in certi casi l’azione del sistema dialettale in regioni differenti è tale o perché, semplicemente, sono consimili le forme o le strutture di sostrato trasposte in italiano o perché l’effetto del contatto tra due codici è analogo in quanto rispondente allo stesso tipo di meccanismi“ (Cerruti 2009, 35); i tratti sovraregionali dell’italiano popolare, invece, possono essere riconducibili o a tratti tipici della testualità del parlato, o appunto a “tendenze e possibilità panromanze latenti in italiano“, tratti che facilmente si riflettono anche nell’italiano regionale (Cerruti 2009, 35), come ad esempio quello della ’semplificazione‘,  un meccanismo linguistico che avviene quando “a una certa forma (o struttura) di una lingua si contrappone una forma o una struttura più semplice, cioè più facile da realizzare, meno complessa, che può sostituire la prima senza che si perdano le informazioni essenziali contenute nel messaggio“ (Sobrero/Miglietta 2011, 175).
“Statisticamente, l’insieme di tratti che caratterizza in maniera più o meno netta e ‚densa‘ questa varietà tende a presentarsi presso parlanti diseredati culturalmente, presso le cosiddette classi subalterne scarsamente scolarizzate e poco/non colte [;] il carattere di ’sociale‘ è insomma netto se lo inquadriamo nei parametri di classificazione di varietà della lingua […], ma, come del resto è da supporre in generale per quanto riguarda le relazioni tra varietà di lingua e utenti, non è affatto deterministico“ (Berruto 1983, 87).
Non è del tutto facile distinguere con chiarezza “ciò che è popolare da ciò che è meramente informale e colloquiale“ (Lepschy 1989, 30); dal punto di vista morfologico e sintattico, ad esempio, sono diversi i tratti che le due varietà condividono: concordanze devianti, ridondanze pronominali, impiego del che polivalente, concordanze ad sensum; topicalizzazioni e riprese enfatiche (Berruto 1983, 93).
Parliamo qui dunque di eventuali tratti appartenenti a varietà diatopiche e diastratiche marcati anche diafasicamente, e non delle varietà in toto, le quali difficilmente possono “rappresentare esse stesse varietà marcate in diafasia“ (Cerruti 2009, 35).
Incertezza continuamente “soggetta a pressioni d’ogni tipo: dall’italiano aulico ai linguaggi settoriali al dialetto“ (Sanga 1984, 15). Sulla funzione dell’incertezza della norma, si noti, inoltre, come questa contribuisca “alla formazione di un uso instabile e fluttuante, al cui interno si vanno comunque delineando delle cristallizzazioni (sempre soggette a possibili regressioni) che, per ampiezza di diffusione, tendono ad imporsi agli italiani regionali ( e di qui allo standard)“; secondo Sanga, e successivamente Berruto, l’italiano popolare risulta come il “maggiore centro di innovazione linguistica della lingua italiana“.
Si rimanda qui al modello delle varietà di italiano proposto da Sabatini (1985), in cui si propone un italiano standard in opposizione all‘italiano comune, così come la coppia italiano regionale delle classi istruite e italiano regionale delle classi popolari (o semplicemente italiano popolare). Una simile suddivisione varrebbe inoltre anche per il sistema linguistico dialettale, nel quale si riconoscerebbero un dialetto regionale/provinciale ed un dialetto locale (Sabatini 1985).
Berruto propone inoltre di vedere all’interno dell’italiano popolare stesso una “piccola gamma di sottovarietà“, facendo distinzione tra un italiano popolare ‚basso‘ e un italiano popolare ‚medio‘, meno marcato e con minori interferenze dialettali (Berruto 1987, 114-115).
Usi in cui “vengono specialmente in primo piano tratti che in una corrispondente formulazione orale sarebbero del tutto inosservati, anzi invisibili“ (Berruto 2014, 280).
L’italiano popolare orale si caratterizza manifestamente nella pronuncia regionale “marcata verso il basso“ (Sobrero/Miglietta 2011, 101), ma anche per le false partenze, per le frequenti riformulazioni, per i generali cambi di progettazione nell’organizzazione testuale con le conseguenti correzioni e ripetizioni, e ancora, per i passaggi dal discorso diretto all’indiretto e per l’uso improprio delle forme al congiuntivo e al condizionale, oltre che per gli anacoluti e le topicalizzazioni; come ancora indicato da Sobrero-Miglietta, dal punto di vista morfologico, esso è caratterizzato dalle concordanze a senso e dalle ridondanze pronominali (tratti, come visto, spesso presenti nell’italiano colloquiale), ma anche da semplificazioni nominali e verbali, scambi di preposizione ecc; il lessico, invece, è ricco di termini generici (affare, cosa, coso, roba), ed è forte la tendenza ad inserire nel discorso espressioni e termini appartenenti alla sfera della burocrazia o termini aulici e tecnici, finendo però per storpiarli sul piano del significante, e risultando nei cosiddetti malapropismi, come vedremo nel capitolo 6 (Sobrero/Miglietta 2011, 100-101). Tutti questi fenomeni tipici dell’oralità si rivelano importanti per la nostra trattazione in quanto coerentemente trasposti nello scritto (Sobrero/Miglietta 2011, 100).
Sulla questione della possibile collocazione temporale dell“’Ur-italiano popolare“ e sulla nascita delle prime scritture semicolte propriamente dette rispetto alla normalizzazione grammaticale bembiana Cinquecentesca e pre-cinquecentesca, oltre che sulla separazione tra scritture proprie della varietà “alta“ e scritture riconducibili alla varietà “medio-bassa“, si vedano i critici lavori di Berruto (1987, 112-113) e Testa (2014, 21-24), oltre che il fondamentale lavoro di D’Achille (1994, 49-52; 57-65) ed i lavori di Valenti riguardanti questa varietà nel contesto cinquecentesco specificatamente siciliano (Valenti 2015, 533-542). A tal proposito, data la cospicua presenza di una parte dei tratti sub-standard nell’italiano popolare, concordemente con Bruni, Berruto sostiene che l’italiano popolare abbia offerto “una gamma di possibilità presente nell’italiano degli inizi, poi esclusa dalla codificazione bembiana della norma letteraria [e ricomparsa] con vigore quando una massa prima inesistente di parlanti non colti si è appropriata di una varietà di italiano“ (Berruto 1987, 113).
Dall‘Appendix Probi, una lista contenente 227 “errori di lingua“ evidentemente ben radicati nell’ambiente romano del primo secolo, che il grammatico Marco Valerio Probo tentò di correggere, al Satiricon di Petronio, testo contenente la nota Cena di Trimalchione, passaggio rappresentativo della compresenza di diversi stili impiegati dall’autore per distinguere socialmente i propri personaggi e volutamente rivelatore di una lingua “altra“, non rientrante nelle categorie normative imposte dal latino classico, fino ad arrivare all‘Itinerarium Egeriae, testo autobiografico ben lontano dal latino classico e improntato sul parlato dell’autrice, la pellegrina romana Egeria (Bruni 1984, 175-189).
Sulle drammatiche dinamiche che mossero gli scriventi semicolti alla scrittura durante la prima guerra mondiale, cfr. (Fresu 2015).

4. “Io sono Peppino Rocco Fazio“: contestualizzazione del soggetto scrivente

In un’ottica incentrata sul parlante, e di conseguenza sullo scrivente, e sulle sue relazioni con ciò che lo circonda, pare qui necessario fornire una ricostruzione anzitutto biografica del personaggio di Peppino Rocco Fazio – che d’ora in avanti chiameremo solamente Peppino – al fine di iniziare ad inquadrare entro quali dinamiche si sia sviluppato il suo personale idioletto (vale a dire l‘insieme degli usi linguistici che un parlante impiega individualmente), che ci accingiamo ad analizzare nel capitolo 6. A tal proposito, pare qui, inoltre, dovuta una spiegazione in merito all’approccio e alla modalità con i quali egli si avvicina al mondo della scrittura. In questo capitolo ci concentreremo, altresì, sia sull’autopercezione di Peppino rispetto alla propria lingua – aspetto preso in esame tramite l’impiego di un questionario autovalutativo somministratogli, il quale ci ha anche permesso di ricostruire alcuni tratti biografici dell’uomo – e sia sulle peculiarità delle tipologie testuali da lui impiegate nella propria produzione.

4.1. Cenni biografici

Peppino Rocco nasce il 24 agosto del 1931 a Galati Mamertino, piccolo paese di circa 2000 abitanti situato sui monti Nebrodi nella Sicilia nord-orientale, da una famiglia di contadini. Potrebbe stupire il nostro perseverare nel riportare il nome Peppino, in quanto esso è di norma diminutivo di Giuseppe. In realtà, come egli stesso spiega in una delle sue lettere, il nome con il quale è stato registrato all’anagrafe è proprio Peppino Rocco e non Giuseppe. Questo comporterà diversi disguidi nel corso della sua vita, come, ad esempio, quello riportato in una delle memorie (8.3.4-III) in cui racconta di come egli abbia scoperto di chiamarsi effettivamente Peppino, e non Giuseppe, come aveva sempre creduto, pensando che Peppino fosse solo il corrispettivo siciliano del suo nome: arruolatosi come militare, infatti, egli non risponde per più volte all’appello, indisponendo i propri superiori, e giustificandosi candidamente in quanto essi avevano pronunciato il nome “Fazio Peppino“ e non “Fazio Giuseppe“, come lui si sarebbe aspettato.

Peppino ha da sempre lavorato come contadino, proprio “Come i Miei Cari Genitore“; amante della campagna, lavorava sin da bambino con piacere la terra in compagnia del padre nei fondi dei paesini limitrofi: “Ame Personalmente il Lavoro / mie piaciuto senpre da quando prendevo 15 lire al giorno e / avevo circa dodici tredicianni è / metevo il fieno nel comune di Troina“ (8.2-XVII); allo stesso tempo, però, Peppino ha avuto la fortuna, così come il padre, di potere andare a scuola e studiare: “mianno mandato a sCola / i miei Cari Genitore“; “sono diventato un Bravo studente“ (8.3.3-I); Peppino riesce ad arrivare fino alla terza elementare, potendo contare solo su di sé: “mia Cara Mamma era / ina ffabeta non mi poteva aiutare / le Conpite e quello chce faceva faceva […] dasolo“ <<la mia cara mamma era analfabeta, non mi poteva aiutare [con] i compiti e quello che facevo, facevo […] da solo>>63; per poi continuare, più in là, con la scuola serale tenuta da diverse persone: dapprima un addetto al fondo che gli insegna a scrivere le lettere d’amore (“ci facevafare le lettere / alla Fidanzata“); poi il padre del sindaco; infine una maestra di cui, però, non ha un buon ricordo: “la piū tinta Maestra / e Barona comenfatte a detto scriviti / una parola chce vivene inmmente / a Voialtre e Io o scritto urbano / e lui zanitati mia detto non e siste /mentre e sisteva solo chce doveva scrivere / Vigile urbano“ <<la più cattiva era la maestra Barone, infatti ha detto: «scrivete una parola che vi viene in mente a voi» e io ho scritto “urbano“ e lei (nzanitate) [anche nella variante ’nsanitàte, lett. “in salute, in sanità“, dal lat. in sanitas (Giordano 2015, 119): locuzione esclamativa ripetuta per scaramanzia subito dopo avere nominato una persona defunta, al fine di allontanare la morte] mi ha detto «non esiste» mentre [invece] esisteva, solo che dovevo scrivere “vigile urbano“>>. Il giovane Peppino prosegue poi la sua vita contadina sino all’arruolamento come militare a Casale Monferrato, in Piemonte, avvenimento più e più volte menzionato nella sua produzione: qui, il dialettofono Peppino lascia necessariamente spazio ad un Peppino recettivo ed in grado di acquisire velocemente l’italiano come una seconda lingua, a motivo della necessaria comunicazione tra individui provenienti da diverse zone d’Italia che pur dovevano comunicare tra loro: “Come / mi parlono Io cirrispondo seno se Io / ci parlasse. come nel Mio Paese nessuno / mi poteva capire“ <<Così come mi parlano, io rispondo. Se no, se io parlassi loro come [parlo] nel mio paese, nessuno mi potrebbe capire>> (tratto dalla risposta al questionario). Allo stesso tempo, egli mette finalmente in pratica l’esercizio della scrittura, inviando delle lettere in Sicilia per rassicurare la famiglia e per inviare loro del denaro. Dopo i dieci mesi di permanenza nel nord Italia, però, Peppino rientra a casa, dove, racconta64, non riesce quasi più in un primo momento ad esprimersi in dialetto, a motivo della sua nuova competenza nella lingua italiana, di cui si rallegra (“dopo diece Mese mia contentava / di parlare Intaliano“ <<dopo dieci mesi, mi rallegravo di parlare in italiano >>, cfr. risposta al questionario): alle domande della madre, ad esempio, la quale gli si rivolge in dialetto, Peppino non sa come rispondere, riportando parole italiane, anziché parole siciliane, e suscitandone le ire. Rientrando nella sua Sicilia, però, Peppino torna alla normalità rurale: aiuta in casa (“quando era Piccolo ce faceva / qual cosa per Me eper tutta la Famiglia“), va a lavorare nei campi, e tra una fiera del bestiame (8.3.2-VI) ed una mietitura del grano (8.3.1-VIII), il giovane Peppino incontra Nina, una ragazza poco più grande di lui e proveniente dal vicino paese di Tortorici, con la quale vive un grande amore, nonostante il loro matrimonio fosse stato inizialmente combinato (8.2-XX). Dalla loro unione nascono due bambine: Natalina e Antonietta, la quale, come Peppino ricorda costantemente, è molto affine all’uomo, in quanto “a bastanza a feziona= / ta della Canpagna“ <<abbastanza affezionata alla campagna>> (8.2-V), a differenza della sorella la quale, invece, “non vada incanpagna / perce non é tanta affezionata“ <<non va in campagna, perché non è molto affezionata>>.

L’infaticabile ed energico Peppino lavora per tutta la sua vita, insieme alla moglie, nei loro possedimenti terrieri. L’energia e la vitalità che caratterizzavano l’uomo, il quale ha “il Vizio Manciare e Lavorare“ <<il vizio di mangiare e lavorare>>, sono forti ancora oggi e forse, lo sono più che mai; dalla sua produzione traspare, infatti, un’inesauribile voglia di fare: “miricordo / chce quando aveva 6 o 7 anni sentivadire / quello a settantanni e me miparevono / veramente assai mentre ora Io chce / ce non quas ottontotto ame mi senbra / che cho sono Nato laltro eri“ <<mi ricordo che quando avevo 6 o 7 anni, sentivo dire «quello ha settant’anni» e a me mi sembravano veramente assai. Mentre ora che io ne ho quasi ottantotto, mi sembra di essere nato l’altro ieri!“>> (8.2.3-I), o ancora: “Sono uno ce voglio Lavo= / rare senpre“ <<sono una persona che vuole sempre lavorare>> (8.2.3-II). Da diversi anni, però, le rituali escursioni campagnole dell’uomo non hanno più luogo, se non saltuariamente, in quanto le figlie non hanno permesso a Peppino di rinnovare la patente, sia per via della sua veneranda età, sia perché sbrigando le sue faccende in campagna, più e più volte egli ha rischiato di farsi male, cadendo per colpa di una radice fuoriuscita dal terreno o gestendo male gli attrezzi da lavoro: egli dipende adesso dalla sua famiglia (figlie, generi, nipoti), la quale rappresenta per lui la chiave per la felicità, in quanto i parenti potrebbero accompagnarlo nella sua amata campagna. Tuttavia, sia a motivo della malattia della moglie65, che per ragioni legate alle preoccupazioni circa la sua spavalderia nelle faccende rurali, essi non possono (e, spesso, non vogliono) esaudire i suoi desideri. L’ultraottantenne Peppino passa, dunque, le proprie giornate in casa, o, al limite, nella piazza del paese, alla ricerca di una distrazione dal suo attaccamento alla campagna.

4.2. Peppino e la scrittura: motivazioni e modalità

Abbiamo detto come l’ultimo episodio in cui il giovane Peppino prende la penna in mano risalga alla sua permanenza da militare in Piemonte. A distanza di circa sessant’anni, la nuova occasione di scrittura è offerta da un evento considerato molto importante per l’uomo: per la prima laurea della nipote maggiore risalente al 2016, egli scrive un biglietto d’auguri in cui esprime il suo orgoglio e le sue felicitazioni per la ragazza. Da questo momento in poi, l’uomo inizia a scrivere con maggiore frequenza fino ad arrivare al punto di non voler andare a dormire la sera senza aver prima finito di riportare i propri racconti e pensieri:

sicome Sono uno ce voglio Lavo= / rare senpre Scrivo ancora e mipia= / tanto e a posta non mivoglio fermare / di scrivere e cosi passa il Tenpo senza / a corgersi seno midoveva mettere dormire / però poi la Notte non dormo e de per / questo ce non voglio dormire durante / la Bella Giornata e poi vela le giò / questa Bella scrittura66

In questo breve passo si racchiudono tutte le motivazioni dell’uomo al suo approccio alla scrittura: essa si configura come piacevole soluzione per passare in modo produttivo le noiose e statiche giornate in paese (come dimostrato anche da un altro frammento riportato nella lettera 8.2-VII: “Tuo afeziona Papa chenon si stacha mi srivere“ <<tuo affezionato papà che non si stanca di scrivere>>). Allo stesso tempo vediamo qui un aspetto fondamentale dell’approccio dell’uomo alla scrittura: egli esprime, infatti, la volontà di far leggere ad un  ipotetico lettore la propria produzione, alla quale attribuisce un enorme valore. Questo non è un aspetto da sottovalutare, in quanto l‘atteggiamento di Peppino rivela la grande ambizione dell’uomo ad essere riconosciuto dagli altri per le sue doti e qualità, che certo lui non mette in dubbio, come dimostrato da altri frammenti: “beno amale / sono uno scienziato“ <<bene o male sono una persona saggia>>, in 8.2-VII; “misento essere / in Tenigente“ <<mi sento essere intelligente>> 8.3.1-II67), tra le quali rientra la capacità scrittoria che egli stesso reputa esteticamente importante (“vela le giò / questa Bella scrittura). A giustificare questo atteggiamento, che potremmo definire come genuinamente vanitoso, interviene, altresì, un presunto legame diretto con la forma d’arte della poesia: Peppino vanta, infatti, un lontano grado di parentela con il famoso poeta galatese Nino Ferraù, legame sanguigno il quale pare nobilitarlo, oltre che motivarne e legittimarne, a suo avviso, le notevoli capacità di scrittura68.

Vorremmo ancora soffermarci sul fattore della condivisione orale delle produzioni. È infatti interessante notare come l’uomo, fiero ed orgoglioso della propria creazione e delle proprie capacità di lettura, chiami all’adunata i membri della famiglia affinché anche loro possano godere delle sue invenzioni „letterarie“, ascoltandolo leggere ad alta voce quanto prodotto. Non di rado, infatti – e anzi, potremmo definirlo oramai come una sorta di rituale – le figlie (così come anche parenti e conoscenti in visita, verso i quali Peppino non si risparmia) sono chiamate ad assistere a vere e proprie letture che spesso assumono le sembianze di Vorlesungen, durante le quali il sorridente e soddisfatto Peppino legge (e, talvolta, corregge) le sue produzioni, fornendo non solo una propria spiegazione „esegetica“ dei punti che il “pubblico“ potrebbe, a suo avviso, trovare più oscuri; ma lasciandosi anche andare a lunghe digressioni orali, nelle quali fornisce ulteriori dettagli sulle vicende da lui vissute o sulle vicende riguardanti altri personaggi, in un modo o nell’altro, correlati ai suoi scritti69. In tal senso, la procedura seguita da Peppino permette all’uomo di intrattenersi, ma anche e soprattutto ed intrattenere, avvicinandosi di più alla propria famiglia.

4.3. Questionario biografico autovalutativo somministrato al soggetto scrivente

Durante la selezione del materiale da inserire nella nostra trattazione, una domanda è sorta spontanea: date le continue interferenze dialettali che, come vedremo nel capitolo 6, investono tutti i piani della lingua che Peppino impiega nelle sue produzioni; qual è la lingua che Peppino crede di utilizzare nei suoi scritti? L’italiano? Il dialetto siciliano? È cosciente delle sue fusioni italo-siciliane? Qual è il livello di percezione linguistica e, di riflesso, di consapevolezza linguistica dell’uomo? Al fine di dare una risposta a questi quesiti e per comprendere come egli percepisca linguisticamente la propria scrittura, abbiamo creato un questionario composto da 22 domande, alcune delle quali erano anche mirate a ricostruire al meglio la storia biografica dell’uomo70.

Vediamo adesso il questionario propostogli:

Questionario  Risposta al questionario
1. Nome e cognome:
2. Sesso:
3. Data di nascita:
4. Luogo di nascita:
5. Provenienza:
6. Tipo di scuola frequentata e periodo di frequentazione scolastica (da quando e quanto a lungo):
7. Professione svolta:
8. Lingua madre:
9. Seconda lingua:
10. Conosci altre lingue?
11. Quale lingua usi/usavi con genitori, fratelli e sorelle?
12. Quale lingua usi per parlare con le tue figlie?
13. Quale lingua usi per parlare con i tuoi nipoti?
14. Che lingua usi per parlare con gli estranei?
15. Che lingua usavi per parlare con i “colleghi“ di lavoro?
16. Che lingua usavi per parlare con gli altri militari?
17. Che lingua usavi per parlare con i tuoi superiori?
18. Hai mai scritto prima del 2016? Es. scrivevi lettere ai tuoi genitori quando eri militare?
19. Che lingua usi quando scrivi alle tue figlie?
20. Che lingua usi quando scrivi ai tuoi nipoti?
21. Che lingua usi quando scrivi ai tuoi generi?
22. Che lingua usi quando scrivi a persone al di fuori della famiglia?
<<Io Sono Nato a Galati Mamertino il 1931 / e sono Nato il 24 o e mianno di chciarato / il 25 Io ofatto sola la Terza elementare / e aveva circa 9 o 10 anni, e poi a 14 o 15 / miofatto fare la scola serale e ci faceva / fare ance le lettere per la Fidanzata. / Io a 16 anni sono andato a zappuliare / il Grano e poi Io per non veninre a / Galati misono stato aiutare alle Mie / zie a Troina. e Io ofatto senpre il Contadino / per Come i Miei Cari Genitore Tranni / quando e Militare a Casale Monfirrato / e poi sono andato a Alessandia. / cie stato un Soldato chce mia detto / Fazzio ma Tu chome ti sei inparato / a parlare i Taliano ? e Io Ciodetto Come / mi parlono Io cirrispondo seno se Io / ci parlasse. come nel Mio Paese nessuno mi poteva capire. e poi quando sono tornato a / Casa dopo diece Mese mia contentava / di parlare Intaliano e a desso posso parlare /  contutti come mipiace. e quando scriveva / a Casa scriveva in Taliano e Io quando / nella Busta mettevo Lire cinque cento / e Mia Cara Mamma era inafabeta / correva per aprire la Busta e Mio / Patre chce sapeva scrivere e legere / ci diceva per chce corre senon sai legere? / Mio Caro Papá atravato 3 sordi e sie p chcon / prato il quaterno e i un solo sordo 1 / lapese e sene andato ascola e il Suo / Caro Papa detto a Mio Figlio non ce bignogno / chce ci in para la scola cideve / in parare solo laducazione e llora / Mio Caro Padre a penzato allora / Io chce sono uno animale? e allora / di. tannu inpoi sono e diventato / un Bravo Bammino e poi / anchce una Bravissima Persona / e di cevá chce le Personoe Brave possono / stare in tutte le Soceetă Civile. / Io parlo come mipiace perŏ scrivere / non si po scrivere indialetto si deve scrivere / per forza in Taliano.71

Le domande inserite nel questionario sono, dunque, come si può notare, soprattutto volte ad indagare gli usi linguistici di Peppino, non solo nel presente, ma anche nel passato: se le domande da 1 a 10 mirano alla composizione di un profilo propriamente sociolinguistico dell’uomo, le domande da 11 a 13 si riferiscono nel particolare alla lingua impiegata oralmente con la famiglia, ora come allora; le domande da 14 a 17, ancora, riguardavano la lingua impiegata oralmente con persone al di fuori della cerchia familiare, ora come allora; le domande comprese tra la 18 e la 22, invece, riguardavano più nello specifico la scrittura di Peppino, anche queste suddivise per tipologia di destinatario (la primissima domanda della serie, la 18, chiede direttamente all’uomo se vi siano state occasioni di scrittura precedenti a quella che inaugura la sua produzione odierna). Durante l’organizzazione del questionario si è pensato di indagare questi ambiti (orale in famiglia; orale con estranei; così come scritto in famiglia; scritto con estranei), al fine di comprendere se Peppino avesse consapevolezza linguistica delle modifiche che egli apporta nel proprio idioletto a seconda della situazione comunicativa in cui opera.

Ora, prima di effettuare delle considerazioni sulle risposte date dall’uomo al questionario, bisogna specificare che siamo ben consapevoli che, come sottolineato da D’Agostino, le indagini autovalutative “non possono essere viste come fotografie oggettive e fedeli in ogni dettaglio della realtà linguistica“ (D'Agostino 2007, 53-54), anche perché un’indagine valutativa “ non prevede un’osservazione diretta del comportamento linguistico“, ma una serie di risposte filtrate dall’individuo stesso a cui è stato sottoposto il questionario (D'Agostino 2007, 51). Men che meno, allora, possiamo pensare che le risposte date da Peppino corrispondano in toto alla verità obiettiva: esse vanno, però, interpretate come le sue verità, da cui noi possiamo muoverci per ricamare delle ipotesi sulle motivazioni, sui ragionamenti, sulle tensioni scrittorie dell’uomo, e soprattutto sulla lingua che Peppino utilizza nelle sue produzioni.

La lunga e complessiva risposta data da Peppino ha fornito interessanti dettagli per la ricostruzione della storia linguistica dell’uomo, oltre ad illuminarci su fatti di cui non eravamo del tutto a conoscenza, come, ad esempio, la capacità del padre di sapere leggere e scrivere. Vediamo come Peppino faccia un sunto delle diverse domande postegli72, rispondendo direttamente alla più generale domanda “che lingua parli?“, non posta da noi. Peppino riporta anzitutto un racconto nel quale narra di quando un suo compagno militare gli chiese come avesse fatto ad imparare l’italiano; è qui interessante vedere come egli abbia individuato la motivazione della sua capacità nella necessità di comunicazione: se avesse continuato a parlare in dialetto in un tale contesto comunicativo, infatti, egli avrebbe certamente compromesso il passaggio delle informazioni tra militari, ed è stato dunque indispensabile imparare la nuova lingua. Allo stesso modo egli spiega che, una volta tornato in Sicilia, avrebbe volentieri continuato a “trarre piacere dal parlare in italiano“, se solo avesse avuto qualcuno con cui praticarlo. È inoltre di definitiva importanza la personale conclusione di Peppino sull’esperienza linguistica avuta da militare, riassunta nella sua capacità di parlare con chiunque, frase dalla quale trapela una certa soddisfazione per le proprie capacità di switchare tra un codice e l’altro, a seconda di come egli reputi necessario o come gli aggradi. In un successivo esempio raccontato, Peppino spiega pure di come le lettere da lui inviate da Casale Monferrato a Galati Mamertino fossero scritte in italiano, e di come la madre analfabeta si precipitasse ad aprirle, probabilmente per il denaro che Peppino vi poneva all’interno, e non per leggerle, come sarcasticamente faceva notare il marito, che al contrario aveva avuto la possibilità di studiare. Emblematica pare, poi, l’ultima riflessione di Peppino sull’atto del parlare e quello dello scrivere: “Io parlo come mipiace perŏ scrivere / non si po scrivere indialetto si deve scrivere / per forza in Taliano“, ossia la lingua della scrittura. Se, infatti, egli reputa di potere esprimersi oralmente come preferisce, dimostrando qui sia la capacità elusiva nel dare una risposta concreta, sia la democratica volontà di difendere il proprio modo di esprimersi, dal punto di vista della scrittura, Peppino dimostra di essere cosciente della presenza di regole e di parametri da rispettare nell’approcciarsi al testo scritto: qui non è prevista libertà di scelta, ma vige, al contrario, l’autorità dell’italiano, lingua alla quale Peppino si sforza di tendere rispettando la convenzione scrittoria. 

4.4. Tipologia delle produzioni

4.4.1. La produzione: caratteri generali

La produzione di Peppino si costituisce di una totalità di 10 quadernetti di normale cancelleria (talvolta a quadri grandi, ma più normalmente a righe) non sempre riempiti nella loro interezza da testi scritti, i quali contengono sia materiale epistolare, ovvero lettere a familiari e conoscenti, sia frammenti o interi brani di genere memorialistico, i quali riportano racconti riguardanti il vissuto dell’uomo oltre che riflessioni e pensieri su di sé, sugli altri, sul mondo. Seppur in minor parte, i quaderni racchiudono, tuttavia, ulteriori brani in cui Peppino riporta intere poesie, racconti e canzoni siciliane imparate durante la giovinezza e spesso intonate durante le faccende quotidiane (brani di impronta popolare che abbiamo momentaneamente scelto di non inserire nel corpus qui trattato – ma presenti nel corpus online disponibile come contributo sulla piattaforma online DH (link) -, in quanto Peppino mette per iscritto questi contenuti in dialetto e non in italiano, tratto, a nostro avviso, linguisticamente non inerente alla presente trattazione sull’italiano dei semicolti), oltre che rappresentazioni grafiche ed illustrazioni inerenti persone, cose o animali, le quali spesso non hanno attinenza con il contenuto dei brani riportati, ma rappresentano un semplice esercizio creativo o d’abbellimento dell’uomo. Per correttezza d’informazione, dobbiamo qui pure specificare che in diversi casi il materiale raccolto era stato trascritto da Peppino su singoli fogli vaganti, non inseriti nei quaderni, o su piani di cartoncino reperiti dall’uomo nell’impeto della scrittura: l’uomo trascrive talvolta persino sulla copertina interna dei quaderni, nel caso in cui non abbia più spazio a disposizione tra i fogli, non rispettando però alcuna logicità nella direzione di scrittura, motivo per il quale diverse porzioni finali di alcuni testi scritti nelle ultime pagine dei quaderni sono stati ritrovati o all’inizio degli stessi, o sono stati inseriti tra altri brani precedenti o direttamente in altri quaderni.

Potrebbe stupire il fatto che le produzioni sin qui raccolte siano quantitativamente limitate rispetto al numero di quaderni da Peppino accumulati; si potrebbe, infatti, logicamente pensare che essi dovrebbero contenere un numero maggiore rispetto alla sessantina di brani da noi inseriti nel corpus in appendice da prendere in esame nella nostra trattazione. Tenendo, però, ancora una volta ben presente il fatto che abbiamo già risparmiato di inserirvi le lunghe poesie, i racconti e le canzoni popolari compresi nei quaderni, bisogna altresì tenere conto di un fattore determinante: la calligrafia di Peppino. La gestione dello spazio entro cui inserire le parole in un rigo non sembra, infatti, preoccupare troppo l’uomo, il quale, con il suo corsivo minuscolo, inserisce solo 6-7 ampie parole per rigo, occupando gran parte della superficie del foglio anche a motivo del largo spazio che Peppino lascia tra l’una e l’altra parola. Vogliamo qui riportare a carattere esemplificativo l’immagine di una delle lettere inserite nel nostro corpus, al fine di mostrare come esse si presentino alla vista del potenziale lettore: 

La lettera 8.2-VI

Il mezzo tramite il quale Peppino mette generalmente per iscritto la propria produzione è costituito da penne biro nere o blu. Sono, tuttavia, presenti produzioni trascritte tramite matite classiche, matite colorate, o, come nell’esempio riportato, pennarelli colorati.

Ancora presenti all’interno dei quaderni sono, infine, le sopracitate fantasiose illustrazioni di Peppino, le quali occupano ulteriore spazio tra una produzione e l’altra. Abbiamo qui scelto di riportare, ancora a titolo dimostrativo, una simpatica illustrazione “commentata“ dall’uomo, in quanto anch’essa riporta emblematicamente nel sottotitolo esplicativo (o per meglio dire sovratitolo esplicativo) un esempio dei fenomeni linguistici che ci accingeremo a descrivere nel capitolo 6:

Illustrazione commentata: crapa, capra, pecora

4.4.2. Lettere a familiari e conoscenti, memorie e pensieri

Il materiale estratto dalla produzione di Peppino che abbiamo deciso di trattare in questa sede, e che suddivideremo quindi, d’ora in avanti, in lettere e memorie e pensieri, rientra debitamente tra le cosiddette “fonti primarie della scrittura“, ossia lettere, diari ed autobiografie (Fresu 2016, 328). Sia gli scritti epistolari che quelli più generalmente memorialistici di Peppino si caratterizzano per una forte natura autobiografica – vediamo come anche per Bruni (1984) lettere e memorie costituiscano, infatti, una sorta di “genere unico, l’autobiografia, parziale (affidata al frammento epistolare), o integrale“ (Bruni 1984, 211) – in cui fulcro centrale è appunto il soggetto scrivente insieme al suo personale rapporto con il mondo che lo circonda e con il quale si relaziona: l‘elemento dialogico si riflette, come vedremo meglio nella nostra analisi, sia nelle lettere che Peppino indirizza espressamente ai diversi destinatari73, sia, talvolta, nelle memorie e nei pensieri, rendendo anche il lettore degli stessi “parte costitutiva della comunicazione“ (Hans-Bianchi 2005, 10)74.

Come osservato da Testa (2014), un altro genere della scrittura dei semicolti “è costituito dal diario, sia come resoconto di fatti privati, sia, in veste di autobiografia mediata, come narrazione di eventi pubblici in cui l’io, a diversi gradi di partecipazione, è entrato in contatto“. (Testa 2014, 33). Durante la lettura delle memorie e dei pensieri di Peppino, potrebbe talvolta sembrare che questi assumano dei tratti per i quali potrebbero essere assimilabili al genere diaristico (riflessioni o descrizioni su quanto accaduto in giornata, riflessioni sul proprio animo, inserimento di una data, espressione programmatica di quanto si vuol mettere su carta ecc.). Tuttavia, sebbene sappiamo che “diari e cronache, per quanto privati, s’immaginino sempre un lettore e una circolazione più vasta di quella instaurata dal confronto con il tu autoriflessivo“ (Testa 2014, 33), il genere diaristico si caratterizza particolarmente per il suo carattere personale ed intimo, sicuramente di più “rispetto alla memoria, che cerca, invece, come suo punto di arrivo naturale, l’altro, il lettore“ (Hans-Bianchi 2005, 10). Nel nostro caso, però, è difficile intravedere un carattere più segreto e intimamente profondo nella produzione di Peppino. Come visto nei paragrafi precedenti, infatti, l’uomo scrive essendo ben consapevole che ciò che lui mette per iscritto passerà almeno dalle mani delle figlie, o dei nipoti, auspicando anche che altri ne trovino diletto, e addirittura mostrando fieramente quanto scritto a parenti ed amici.

Unaltro elemento che vale la pena mettere in rilievo è la componente narrativa che la produzione di Peppino denota, carattere che riscontriamo sia nelle produzioni memorialistiche che di per sé riflettono questa caratteristica, sia nelle produzioni di stampo epistolare, sebbene in queste ultime la dimensione della narrazione non sia tradizionalmente prevista, essendo caratterizzate più dall’elemento dell‘esposizione (D'Achille 1994, 55) o della descrizione. Come riscontrato da D’Achille, però, anche la lettera può talvolta presentare “una spiccata componente narrativa“ nella produzione semicolta (D'Achille 1994, 55). Se è chiaro cosa significhi riconoscere un’impronta narrativa all’interno di testi riportanti racconti e memorie del proprio vissuto, però, non lo è altrettanto se ci riferiamo al genere epistolare. Bisogna qui fare allora un ulteriore passo avanti e parlare della tendenza di Peppino ad inserire brevi episodi narrativi non solo creando contenuti narrativi a se stanti, ma anche all’interno delle lettere stesse, come vedremo nel § 4.3.2. 

4.4.3. Omogeneità strutturale e tematica delle produzioni

Un punto sul quale è bene soffermarsi sono i punti d’omogeneità e quelli d’eterogeneità delle produzioni presenti nel materiale facente parte del nostro corpus. Partiamo con il dire che, rispetto ad altri corpora presi in esame dagli studiosi nello studio dell’italiano dei semicolti, come ad esempio Leo Spitzer (1976) o Mocciaro (1991), punto in comune a tutti gli scritti qui presi in esame è lo scrivente (o mittente nel caso delle lettere vere e proprie); se i corpora di Spitzer e Mocciaro raccoglievano infatti testimonianze scritte da parte di più soggetti sociolinguisticamente diversi tra loro (e, nel caso di Mocciaro, anche diacronicamente differenti, in quanto contenente testi distribuiti in più secoli), il nostro corpus presenta una definitiva omogeneità sotto questo aspetto: l’unico scrivente è Peppino, con la sua storia sociolinguistica ed il suo personale idioletto. Il corpus presenta però una disomogeneità per quanto riguarda i destinatari delle lettere, le quali sono indirizzate sì per la maggior parte ai membri della famiglia (figlie, generi, moglie, nipoti, fratelli), ma in un particolare caso anche ad una persona estranea al circuito familiare. Il nostro corpus vanta, infine, la presenza di una lettera indirizzata metaforicamente ad un oggetto inanimato, all’eterno amore di Peppino, la campagna, e di una scritta alla moglie, che però non può materialmente leggerla. Queste differenze sono importanti in quanto possono implicare delle modifiche formali o, quantomeno, dei tentativi nell’idioletto di Peppino, come vedremo nel capitolo 6. 

Dal punto di vista strutturale, invece, le lettere di Peppino si suddividono in due gruppi: le lettere da un lato (in un totale di 23 brani; più il biglietto d’auguri di laurea, che rappresenta un sottogenere a sé) e gli scritti a carattere più prettamente autobiografico dall’altro (25 in totale), tra cui rientrano memorie, racconti, pensieri sul presente, e che abbiamo più generalmente definito come memorie e pensieri.

Nel primo gruppo rientrano a loro volta quelle che potremmo definire come “lettere vere e proprie“, provviste cioè di elementi e formule universali e tipiche del genere epistolare, ricorrenti anche nella produzione di Peppino (ma non del tutto sistematicamente) con l’aggiunta, però, di refrain tipicamente semicolti – si pensi, ad esempio, alle formule elencate nel capitolo Le scuse per la cattiva scrittura, in Spitzer (1976, 63-64). Tra le formule impiegate personalmente da Peppino nelle sue lettere ricordiamo:

<a + nome del destinatario> ( 2/23 volte; lettere che credeva sarebbero state effettivamente spedite)
<data> (11/23 volte)
<luogo> (5/23 volte)

<Caro/a + nome del destinatario> (18/23 volte)

<identificazione: io sono (Peppino/tuo padre/suocero/nonno/zio)…> (12/23 volte)
<ti scrivo per dirti che…> (10/23 volte)
<spero che…> (6/23 volte)

<non mi dilungo> nella sua personale variante prolungo (6/23 volte)

<scusa per gli errori> (7/23 volte)
<formule di saluto varie> (14/23 volte)
<Tuo [X] Peppino Rocco Fazio> (6/23 volte)

Come visto, tuttavia, questi elementi formali non seguono uno schema fisso, ma possono trovarsi variamente sparsi all’interno delle lettere scritte da Peppino (talvolta, come nel caso dei saluti, più volte all’interno della stessa produzione); così come possono non presentarsi tutti insieme e contemporaneamente all’interno dello stesso brano, valendo dunque come tratti non uniformi e disomogenei. Da un punto di vista tematico, invece, bisogna menzionare il fatto che le lettere presentino diversi nuclei tematici, quali quello della lode al destinatario, spesso inserita dopo la formula ti scrivo per dirti o immediatamente successiva al Caro/a, o ancora successiva ad un racconto circa l’infanzia del destinatario o relativo ad un episodio accaduto più di recente  e riportato a dimostrazione di quanto ne sia giustificata l’attuale lode. Allo stesso modo possiamo ritrovare nei brani il tema del consiglio e delle raccomandazioni, dati talvolta spassionatamente, altre volte in forma ben strutturata e supportata da racconti che fungano da esempi: in tal senso, allora, le lettere di Peppino riflettono un carattere di tipo narrativo, in quanto includono al loro interno veri e propri racconti, seppur talvolta brevi ed in funzione spesso esplicativa o “didattica“. Altro elemento presente nelle lettere è il bene che Peppino prova nei confronti dei destinatari delle missive: non di rado, e anzi, molto frequentemente, l’uomo esprime il proprio affetto verso i propri cari tramite l’espressione ti voglio bene, più e più volte ripetuta nel testo.

Abbiamo detto, però, che possiamo ancora distinguere un’altra varietà di lettera di Peppino: si tratta di produzioni espressamente indirizzate a qualcuno (a differenza delle memorie in cui Peppino si rivolge, come vedremo, in generale ai lettori), e dunque collocate sotto la categoria epistolare, ma formalmente atipiche in quanto non introdotte dalla formula Caro/a…, bensì derivanti da riflessioni o episodi di vita quotidiana e, dunque, strutturalmente opposte al primo tipo. Le strutture seguite da questa seconda tipologia di lettera si presentano secondo i quattro diversi schemi:

8.2-IV a figlia2

menzione del destinatario: assente

8.2-VI a figlia2

menzione del destinatario: assente

8.2-VII a figlia1

menzione del destinatario: in terza persona

8.2-IX a figlia1

menzione del destinatario: 

racconto di episodio quotidiano

lode ad esso correlata

saluti

lode

augurio di buona vita

raccomandazioni

saluti

data

identificazione

lode

saluti

saluti

identificazione

lode a se stesso

intento della missiva

consiglio

supporto al consiglio dato: formula scaramantica dialettale

scuse per gli errori

consigli e raccomandazioni

saluti

canzone siciliana sul ruolo del padre

lode a se stesso

consiglio

supporto al consiglio dato: il coraggio di Mussolini

appello diretto all’interessata

ulteriore supporto al consiglio dato sopra

consiglio 

saluti

scuse per gli errori

saluti

raccomandazioni

saluti

raccomandazioni

saluti

Vediamo dunque come anche in questo caso la struttura della lettera si diversifichi, talvolta integrando racconti basati su esperienze personali, talvolta riportando elementi popolari quali canzoni superstiziose e racconti; altre volte riportando esempi storici a supporto delle proprie tesi, talvolta chiudendo con canzoni dialettali a sottolineare il proprio ruolo in famiglia. Come abbiamo visto, inoltre, questo tipo di lettera può presentare anche solo parzialmente e casualmente gli elementi e le formule epistolari che più di frequente si trovano nelle lettere vere e proprie.

Per quanto riguarda le memorie ed i pensieri, invece, il discorso si fa più ampio in quanto, sebbene siano state raggruppate per tematica75se stesso e la famiglia; campagna; infanzia e scuola; vita militare ecc., come vedremo meglio nel capitolo 5 – queste produzioni presentano una tale libertà strutturale e anche tematica, all’interno della più grande categoria sotto la quale sono state inserite, che non è possibile raggruppare e teorizzare rigidamente: se alcune di queste si caratterizzano per l’iniziale inserimento di un detto popolare da cui Peppino trae successivamente una riflessione sulla propria saggezza, altre partono proprio dall’autocelebrazione di sé, tramite il supporto di vari esempi, o ancora si configurano come biglietti da visita o cartoline pubblicitarie in cui Peppino si improvvisa ironicamente avvocato, indirizzandosi ad un presunto lettore-cliente. Ma non è solo il carattere autocelebrativo a caratterizzare queste produzioni: può, infatti, ancora capitare di imbattersi, ad esempio, in un elenco dei mesi dell’anno o delle lingue parlate dalla nipote maggiore, brano in cui si fa altresì menzione del viaggio di lei in America, riconducendolo dunque al viaggio in America del padre, per poi inserire, infine, un proverbio popolare a chiusura del testo; così come può capitare di ritrovarsi, invece, di fronte ad un lungo elenco di tipo genealogico sulla propria famiglia. Taluni frammenti possono talvolta essere intesi come brevi aforismi, mentre altri lunghi brani riportano dei racconti di vita vissuta dall’uomo, oltre che canzoni, poesie e detti popolari direttamente inseriti nelle produzioni (talvolta preceduti dall’intenzione di scriverne, talvolta no). Vediamo dunque come in questa seconda tipologia di produzione regni una sorta di caos tematico e strutturale, un caos che assume il carattere di un canvas sul quale Peppino riversa tutto ciò che gli passa per la mente e che pensa valga la pena di mettere per iscritto.

Peppino Rocco e la scrittura

 

Sulla complessità del tema, dovuta sia alla relativa libertà da parte dei linguisti di area germanofona nell’attribuire a questa etichetta valori spesso differenti, sia ad una questione prettamente terminologica (accanto alla Varietätenlinguistik convive, infatti, in ambito germanofono la “Variationslinguistik“ o “linguistica della variazione“), oltre che per una più approfondita disamina sugli studi condotti sulla variazione linguistica, (cfr. Sinner 2014).
Per un approfondimento sul carattere sociale dell’uso del linguaggio, cfr. Lepschy 1996, 139-143.
L‚influenza sociale sulla realtà linguistica si riflette ad esempio sia nello status attribuito dai parlanti a determinate varianti che in quello attribuito dalla società stessa a determinate varietà di lingua o lingue (Krefeld 2016, 262); sul ruolo attivo dei parlanti in quanto agenti sociali nella standardizzazione dell’italiano, come esempio di influenza sociale sulla lingua, invece, cfr. Serianni 2006 e Berruto 2007.
Non presentando alcuna differenza strutturale rispetto alla ‚lingua italiana‘ (D'Agostino 2007, 69), i dialetti presenti sul territorio italiano non devono essere considerati come “varietà locali della lingua nazionale, né tantomeno [come] deformazioni o correzioni di questa [in quanto] proprio come l’italiano letterario – costituitosi anch’esso sulla base di un dialetto (il fiorentino trecentesco) – e come le altre lingue e i dialetti romanzi, [essi] derivano dal latino volgare e hanno dunque, dal punto di vista storico-linguistico, la stessa dignità della lingua“ (D'Achille 2003, 13). La distinzione operata tra dialetto e lingua sarà allora di tipo esclusivamente sociale e dipenderà dal prestigio linguistico di cui i due sistemi godono presso i parlanti (D'Agostino 2007, 69).
Per un ampio approfondimento sulla situazione italo-romanza pre-unitaria, si rimanda qui al fondamentale “Storia linguistica dell’Italia unita“ di Tullio De Mauro (1986), oltre che a Bruni (1984, 81-172); tuttavia, vale la pena ricordare qui brevemente che “prima dell’Unità, l’italiano al di fuori della Toscana (dove lingua e dialetto sono sempre stati in rapporto di contiguità), era una lingua nota a un numero di persone alquanto ridotto [in quanto] la stragrande maggioranza della popolazione parlava […] uno dei dialetti che si erano formati nella nostra penisola dopo il crollo dell’Impero romano“ (D'Achille 2003, 23).
Uno dei principali fenomeni che portarono gli italiani ad avvicinarsi ad una lingua nazionale è certamente costituito dal processo di alfabetizzazione legato all’obbligo scolastico introdotto dalla legge Casati già nel 1859 (sebbene il tasso d’evasione all’obbligo sia rimasto molto alto almeno sino agli anni Trenta); ma a giocare un altrettanto rilevante ruolo nella diffusione della lingua nazionale furono altresì la crescente industrializzazione e l’urbanizzazione ad essa relativa, fenomeni per i quali le grandi masse contadine si spostarono dalle zone rurali alle città, provocando tra i nuovi e i vecchi cittadini l’esigenza di intendersi in una lingua comune; la successiva promozione della lingua unitaria avvenne parimenti grazie ai mezzi di comunicazione di massa quali i giornali, la radio e, a partire dagli anni Cinquanta, la televisione, “scuola di lingua e di cultura“ grazie alla quale “i ceti diseredati relegati in posizione subalterna dalla scarsa cultura […] imparano a parlare l’italiano e, con l’italiano, imparano com’è fatta la cultura dei cittadini, delle classi dominanti“ (De Mauro 1994, 128). Per un esaustivo e dettagliato approfondimento sul tema, si rimanda al sopracitato De Mauro (1986).
Non per negligenza, ma poiché il focus verte qui sul rapporto tra i due diasistemi maggiori, non affronteremo in questa sede la questione delle minoranze linguistiche presenti sul territorio italiano e delle relative altre lingue ivi parlate. Per una  descrizione sociolinguistica del complesso repertorio italiano plurilingue relativo ad antiche e nuove minoranze, si rimanda a Francescato (1993), D’Agostino (2007) e Krefeld (2016), il quale distingue in tal senso due tipologie di sociolinguistica: quella degli idiomi, la quale comprenderebbe lo studio delle lingue minoritarie e i dialetti; e quella della variazione, inerente, come vedremo, allo studio di specifiche varianti avvertite come marcate dai parlanti, e propria della varietistica (Krefeld 2016, 263).
Con la nozione di ‚repertorio‘ si intende “l’insieme delle lingue, o le varietà di una stessa lingua, e delle loro norme d’uso, impiegate in una comunità“ (D'Agostino 2007, 109); a tal proposito, Berruto definiva il repertorio linguistico italiano medio come un diasistema (lingua nazionale-dialetto) il cui rapporto (sino ad allora definito ‚diglossico, in cui alla varietà alta era rigidamente riservato l’uso scritto e formale; mentre a quella bassa, anche impiegata per la socializzazione primaria e dunque una L1, l’uso parlato informale) rifletteva una situazione di “bilinguismo endogeno a bassa distanza strutturale con dilalìa“, indicando così la compresenza di due lingue e delle loro relative varietà, non strutturalmente troppo diverse tra loro, e non più rigidamente separate rispetto all’ambito d’uso informale, ma “impiegabili nella conversazione quotidiana e con uno spazio relativamente ampio di sovrapposizione“ (Berruto 1993, 5-6).
Al glottologo Giovan Battista  Pellegrini è infatti dovuta la prima basilare quadripartizione delle varietà presenti nel repertorio italiano; essa comprendeva l‘ ‚italiano standard o comune‘, l‘ ‚italiano regionale‘, la ‚koinè dialettale o dialetto regionale‘, ed il ‚dialetto locale‘; da questa quadripartizione presero successivamente il via altri fondamentali approfondimenti ed ampliamenti sociolinguistici alla struttura del repertorio linguistico italiano, caratterizzato dalla dialettica tra italiano e dialetti delle diverse regioni italiane da un lato e la coesistenza tra le “diverse norme di realizzazione di un medesimo idioma“ dall’altro (De Mauro 1977, 124). Per un ampio commento sulle varietà italiane e sulle relative denominazioni offerte dagli studiosi dal 1960 sino al 1987, si veda Berruto (1987); per una tavola sinottica delle diverse classificazioni delle stesse, invece, si rimanda a Berruto (1993, 18;26).
Sebbene essa non goda di uno “statuto teorico autonomo, [e si configuri anzi] come ambito di lavoro orientato in senso empirico, con scopi prevalentemente descrittivi“ (Berretta 1988, 762), Holtus-Radtke sottolineano però in ogni caso la specificità della linguistica delle varietà rispetto alla sociolinguistica: a differenza della sua matrice, infatti, la linguistica delle varietà si occuperebbe di indagare e descrivere anche dei tipi di “Varietäten [,] die nicht [nur] von der Sozialen Determination der Sprache und ihrer Sprecher abhängen“ (Holtus/Radtke 1983, 16).
Come notato da Holtus-Radtke (1983), il termine ‚varietà‘ non era tra l’altro di recente coniazione: Benvenuto Terracini se ne era infatti già avanguardisticamente occupato nei suoi lavori pre-sociolinguistici sulla dialettologia nei primi anni del Novecento, sebbene questi non si concentrassero ancora sul problema della “Systematizität“ del fenomeno, né vi fosse una “fundierte Grundlegung des Varietätenbegriffs“ (Holtus/Radtke 1983, 13-14).
Relativo, dunque, sia ad un intero sistema di lingua che solo ad alcuni tratti specifici presenti all’interno dei sistemi linguistici.
I due sistemi di base sui quali, come sostiene Dardano (1994, 344), si costruisce tutto il repertorio linguistico italiano.
Sui sempre più evidenti limiti della terminologia adottata dalla tradizione germanofona risalente alla quadripartizione delle dimensioni di variazione offerta da Koch/Oesterreicher (1985; 1990), basata sui parametri di ‚immediatezza‘ (o ‚vicinanza‘) e ‚distanza‘ – oltre che sulle conseguenti implicazioni metodologiche rispetto alla linguistica percezionale ad essa connessa – si veda il contributo “Varietà ibride? Che cosa ne pensa la linguistica variazionale“ disponibile sulla piattaforma Lehre in den Digital Humanities (Krefeld 2018).
E in tal senso, reale attuazione della linguistica della parole preannunciata da Ferdinand de Saussure (sul tema, cfr. Raimondi 2009, 15-18; Krefeld 2015).
Iannàccaro spiega, infatti, che “è proprio attraverso la constatazione della variazione linguistica (di qualunque tipo) che il parlante viene a contatto con varietà diverse rispetto al proprio idioletto […] ed è indotto a rifletterci sopra“ (Iannàccaro 2015, 23).
O, nel caso specifico dei test percettivi, nel sapere linguistico dei cosiddetti ‚informanti‘, soggetti sottoposti, ad esempio, all’ascolto di stimoli uditivi registrati dai ricercatori sul campo.
Un elemento “marcato“ è dunque un elemento “provvisto di una marca che lo contraddistingue rispetto alla sua manifestazione considerata, per motivi qualitativi e/o quantitativi, come basica, o normale, o canonica“ (Ferrari 2012, 17); la proprietà di marcatezza/non marcatezza può essere applicata a tutti i livelli dell’analisi linguistica (Ferrari 2012, 17) ed è inoltre spesso messa in relazione con i principi di naturalezza elaborati dalle teorie di morfologia naturale e sintassi naturale, secondo le quali si riterranno non marcati i tratti “cognitivamente più accessibili – ossia più naturali -, che favoriscono la processabilità dell’informazione e la corrispondenza tra la percezione della realtà e la sua rappresentazione linguistica“ (Cerruti 2009, 254).
Per un approfondimento sul tema, si rimanda al volume “Perzeptive Variatätenlinguistik“, a cura di Krefeld-Pustka (2010); oltre che a Krefeld(2015).
Simone (1990) spiega che “le lingue verbali vivono in diacronia, nel senso che si modificano nel tempo […] le manifestazioni di questo mutamento [riguardano ad esempio] la dotazione di suoni di una lingua [,] i significati e le forme delle parole [,] l’organizzazione grammaticale, e così via“ (Simone 1990, 77-78).
Sulla denominazione possibilmente fuorviante di questa varietà – la nozione di “regionale“ non va infatti pensata come corrispondente all’effettiva estensione amministrativa delle regioni d’Italia – cfr. Sobrero (2012, 129-130).
Per un più chiaro approfondimento sul ruolo delle componenti della situazione comunicativa, quali i partecipanti, gli atti comunicativi, i risultati, la cosiddetta localizzazione ecc., si veda Grassi-Sobrero-Telmon (2012, 204-211).
In senso sociolinguistico, il concetto di ‚continuum‘ indica usualmente un insieme composto da un ventaglio di varietà (tra cui si distinguono una varietà alta ed una bassa, ai due poli), i cui confini, nebulosi ed indefiniti, possono sovrapporsi e dissolversi l’uno nell’altro, impedendo una precisa identificazione delle stesse, specie se contigue, da parte della sociolinguistica (Berruto 1987, 27-28); per un approfondimento sul tema, anche rispetto alle obiezioni sollevate sulle implicazioni di questa definizione, si veda Berruto (1987, 27-42).
È ragionevole credere allora che le possibili varianti di una specifica variabile siano riscontrabili ed ascrivibili a diverse dimensioni, e che vadano a costituire – insieme alle altre – quelle che Krefeld (2018) definisce come “varietà ibride“, smentendo, nello specifico, il ragionamento di Koch/Oesterreicher (1990) il cui schema prevedeva che ad ogni dimensione della variazione corrispondesse un numero definito di varietà, a loro volta composte da un preciso numero di varianti.
Entrambi caratterizzati da fenomeni epilettici dai quali la donna era afflitta sin da giovane e a causa dei quali veniva rapportata, secondo la cultura popolare salentina, ad una realtà magica. Nonostante la loro medesima natura, inoltre, la donna ne distingueva superstiziosamente e religiosamente le manifestazioni: ella raccontava infatti di avere voglia di ballare prima di una crisi di tarantismo, e di avere la tendenza a dimenarsi per terra durante le crisi epilettiche di San Donato (Rossi 1994, 80-85).
“La scrittura parla di sé insieme a qualunque altra cosa di cui parla: essa si costituisce su proprie peculiarità di codificazione dell’esperienza, di forma di rappresentazione, di lingua, di temporalità e spazialità, di costruzione dell’interlocutore“ (Apolito 1994, 13).
“La donna ha frequentato solo la prima elementare, ma è in grado di esprimere per iscritto quanto vuole comunicare; le sue lettere presentano grossolani errori di grammatica, e sono quasi totalmente sprovviste di punteggiatura“ (Rossi 1994, 79).
Circa questo termine, D’Achille precisa che l’aggettivo semicolto (successivamente adottato, come vedremo, per indicare i soggetti interessati dal fenomeno linguistico scritto dell’italiano dei semicolti) rifletteva sia una chiara differenziazione rispetto ai termini colto ed incolto, sia una maggiore specificità rispetto alla serie terminologica assieme alla quale esso sarebbe potuto essere semplicisticamente associato: semianalfabeta, semialfabeta, semincolto; secondo D’Achille, infatti, questi ultimi sarebbero stati da collocare in un gradino più in basso rispetto al semicolto propriamente detto, in quanto “[in]capaci di servirsi dello scritto [né] per usi funzionali e pratici […], [né] per fini latamente espressivi“ e, al limite, in grado di “apporre la propria firma o poco più“ (D'Achille 1994, 42-43). Accanto alla designazione di semicolto, il linguista propone invece di apporre i termini poco colto, mediocolto, o semiletterato, in ogni caso da collocare su gradini intermediamente diversi, data la differente e non rigida caratterizzazione culturale dei soggetti semicolti (D'Achille 1994, 42-43).
Per un’approfondita, diversa argomentazione, ovvero sulle debolezze dell’originaria visione unitaria dell’italiano popolare, almeno per quanto riguarda gli elementi linguistici e non contenutistici espressi in questo tipo di lingua, si rinvia almeno a Berruto (1987, 108-110).
Basti pensare che a distanza di ottant’anni, ancora tra il 1951 ed il 1955, solo il 18% della popolazione italiana impiegava l’italiano, sebbene in forma ancora artificiosa e pomposa, poco spontanea; il 20% era invece dialettofono, mentre la restante percentuale si muoveva in un limbo linguistico diglossico, impiegando la lingua italiana in situazioni estremamente formali ed il dialetto nella quotidianità, data la sua “efficacia espressiva“ (De Mauro 1994, 117).
La necessità delle masse di “mettere da parte i rispettivi dialetti, cominciando ad usare, per intendersi, gli elementi di lingua italiana a loro noti“ si manifesta inoltre con le prime associazioni di lavoratori postunitarie e con lo svilupparsi dei primi canti sindacali e di protesta, come ad esempio il Canto degli scariolanti: questi erano infatti caratterizzati da un vocabolario semplice, in cui affioravano anche degli elementi dialettali, unito ad una certa “oscurità sintattica“, e, a livello grafico, ad un abuso delle maiuscole; altro elemento evidenziato dal linguista è la “brusca rottura stilistica“ o l’alternanza tra forme popolari e forme auliche, allora ancora persistenti a causa della forte influenza dell’opera lirica ancora sentita, il cui influsso viene paragonato da De Mauro con quello esercitato dalla televisione negli anni Cinquanta e Sessanta (De Mauro 1994, 118-121).
Il primo conflitto mondiale costrinse i soldati a misurarsi con una dimensione del tutto nuova: come spiega Glauco Sanga, infatti, i contadini non avevano mai avuto sino ad allora la necessità di avvicinarsi allo strumento culturale della scrittura, in quanto “la diffusione dell’italiano avveniva per via orale o, al più, attraverso la lettura [e] tradizionalmente in paese c’era sempre qualcuno delegato a scrivere: il parroco o il segretario comunale o un paesano colto(Sanga 1984, 173) tutt’altra situazione si presentava invece in trincea, in cui i contadini ormai soldati dovevano necessariamente confrontarsi a tu per tu con penna e carta. Tra le motivazioni che spinsero alla scrittura, ricordiamo infatti la necessità di rassicurare le famiglie sulle proprie condizioni di salute, oltre che la possibilità, nel caso dei prigionieri di guerra, di “allontanare l’incubo del rientro al fronte e della possibile morte in trincea; [di] esprimere un’autentica sofferenza psichica; [di] sottrarsi allo stigma della follia e all’istituzione, fortemente autoritaria, del manicomio; [di] tentare di rimediare a una situazione angosciante con la richiesta (nelle lettere al direttore) di ottenere la documentazione necessaria per un sicuro rientro a casa“ (Testa 2014, 101).
Come spiega Cortellazzo, una rivalutazione delle testimonianze “dal basso“ poté avvenire solamente nel secondo dopoguerra, con una rinnovata volontà politica d’opposizione alla “cultura egemonica fra le due guerre [la quale] non tollerava che, accanto alla cronaca ufficiale, linda nella forma, spesso retorica e falsa, trovasse posto la cronaca degli altri, dei protagonisti sottoposti e, infine, sopportanti il maggior peso di ogni avventura sociale“ (Cortellazzo 1972, 19).
Come spiega Lorenzo Renzi nell’introduzione alla raccolta epistolare di Leo Spitzer, questo lavoro era sino ad allora sconosciuto ai più ed i “i filologi e gli studiosi di italiano popolare ne parlavano, ma più per sentito dire che per conoscenza diretta“ (Renzi 1976, VII)).
Diversi sono i capitoli dedicati nell’opera ai dissimulati tentativi di richiesta di provviste e viveri da parte dei prigionieri a parenti e familiari. Se le lamentele sulle misere condizioni dei prigionieri avessero raggiunto l’Italia, questo avrebbe potuto costituire un ulteriore possibile movente per la continuazione dell’offensiva nel conflitto mondiale, e i prigionieri ne erano consapevoli. Sugli originali espedienti linguistici da questi ultimi adoperati per descrivere il concetto di “fame“ al fine di sfuggire all’occhio pressante della censura austriaca, si veda inoltre l’importante lavoro linguistico del filologo Spitzer sulla lingua popolare, Die Umschreibungen des Hungers im Italienischen[Le circonlocuzioni impiegate per esprimere la fame in italiano] (supplemento alla “Zeitschrift fuer romanische Philologie“, Niemeyer, Halle 1920), pubblicato un anno prima delle Lettere, lavoro in cui lo studioso mette in luce le diverse colorite strategie linguistiche impiegate per aggirare l’ostacolo della censura, il cui sguardo si era “acuito per le lamentele causate dalla fame“ e aveva comportato un “raffinamento dei metodi d’indagine impiegati“ dai censori (Spitzer 1976, 10).
Facciamo qui riferimento a tre atteggiamenti linguistici riguardanti l’alternanza del codice tra italiano e dialetto, possibili in un contesto bilingue qual era e qual è tuttora quello italiano: il code-switching o commutazione di codice, il code-mixing o enunciato mistilingue, e il tag-switching anche conosciuto come commutazione extrafrasale (D'Agostino 2007, 144; D'Achille 2003, 179). Il code-switching, ossia il passaggio funzionale da un idioma ad un altro nello stesso enunciato, viene operato consapevolmente dal parlante in base alla situazione comunicativa in cui egli si trova ed è altresì condizionato da motivazioni sociali e “identitarie“: esso dipende, infatti, sia dal prestigio sociale che lo standard riveste nella situazione comunicativa rispetto al dialetto, percepito come varietà diastraticamente “bassa“ (D'Agostino 2007, 118), sia dalla forza identitaria delle diverse varietà, in questo caso di quella dialettale, come fattore attivo di riconoscimento dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale e linguistico (D'Agostino 2007, 118); nel caso delle lettere analizzate da Spitzer, però, l’impiego del dialetto assume spesso il valore di “codice dell’intimità“ dovuto alla necessità di sfuggire agli occhi attenti della pressante censura operata dai censori sulle missive (Spitzer 1976, 107). Il code-mixing, ovvero il mescolamento non funzionale di più idiomi all’interno di una stessa frase, è, al contrario, un fenomeno non intenzionale, dovuto alle incertezze del parlante dialettofono e in particolare alla sua approssimativa conoscenza della lingua italiana (D'Achille 2003, 179). Il tag-switching, invece, si caratterizza per l’inserimento di elementi isolati quali interiezioni, riempitivi ecc. all’interno dell’enunciato (si pensi, ad esempio, alla funzione ludica del dialetto espletata tramite l’inserimento di questi ultimi elementi nella comunicazione colloquiale, specie giovanile).
È bene, tuttavia, sottolineare che per questioni legate alla censura, lo stesso Spitzer non fornì informazioni sugli scriventi, di cui non si conoscono certo i nomi, ma neppure l’età, né l’effettivo grado d’istruzione (si noti, inoltre, che non tutte le lettere raccolte dal linguista presentano lo stesso grado di competenza linguistica: alcuni mittenti risultano essere nettamente più colti di altri, o per meglio dire, meno “incolti“ di altri, nonostante lo sforzo dello studioso di creare un corpus il più possibile omogeneo a livello socio-culturale); in base al contesto, nondimeno, è spesso possibile rintracciare alcuni indizi che aiutino, pur limitatamente, a ricomporre il puzzle diastratico dello scrivente.
Qui De Mauro faceva sarcasticamente riferimento all’azione soffocante del “greve rullo dell’italiano scolastico“ (De Mauro 1994, 134), che a poco servì – a suo avviso – nell’educazione al “pieno e libero possesso della lingua italiana“, e che invece, “per la debolezza delle sue strutture, anzitutto, poi per l’impreparazione linguistica del personale insegnante […] ha svolto un’azione di indebolimento dei dialetti [esercitando] un’azione di repressione del parlato piuttosto che di addestramento all’uso e scritto e parlato e colloquiale e formale della lingua“ (De Mauro 1994, 136).
Come spiega Berruto, anche Tatiana Alisova si era per esempio già occupata nel 1965 della struttura della frase relativa del cosiddetto “italiano popolare“ sovrapponendo, tuttavia, questa definizione alla dimensione parlata e colloquiale della lingua, e creando così una prima ambiguità tra la definizione di “italiano popolare“ e quella di “italiano parlato colloquiale“ (Berruto 1987, 105).
Oltre a Lettere di una tarantata (1970) di Annabella Rossi, infatti, si ricordano, ad esempio, il romanzo autobiografico Una donna di Ragusa (1957), di Maria Occhipinti, donna siciliana di umili origini; Quaderno (1958), diario di Alfonso Muscillo, usciere di una biblioteca romana; il Diario della grande guerra (1961) di Francesco Giuliani, pastore abruzzese. Per un ulteriore approfondimento sui testi semicolti pubblicati in questo periodo e su quelli presi in esame dagli studiosi, si rimanda a Sobrero (1975, 108, note 5 e 6); D’Achille (D'Achille 1994, 43-45, note 18-24; 28).
Le difficili circostanze storiche presenti nella storia linguistica italiana hanno influito, secondo Fresu (2016), sulla tipologia testuale in cui i testi semicolti si sono sviluppati nel tempo, tra cui si annoverano: “testimonianze provenienti dal o indirizzate al fronte“, sotto forma di lettere, ma anche nelle urgenti espressioni del sé riscontrabili in diari, memorie, taccuini di guerra; anche il fenomeno migratorio ha prodotto diverse produzioni epistolari, oltre che produzioni su cartolina o lettere indirizzate dai migranti ai giornali (Fresu 2016, 335-336). Per un approfondimento sugli ulteriori generi testuali interessati dalla scrittura dei semicolti, cfr. Fresu (2016, 335-339).
Radtke fa qui però notare come questa definizione non sia sufficientemente caratterizzante o esclusiva di questa varietà, in quanto parimenti applicabile all’italiano regionale (Radtke 1979, 44).
“In questa chiave possono quindi essere letti anche i pesanti tratti di interferenza del substrato dialettale che svolgono il ruolo della lingua materna nella varietà di apprendimento“ (D'Agostino 2007, 127).
Si parla di fossilizzazione quando la conoscenza della lingua di un individuo si blocca ad un determinato stadio senza possibilità di progressione (D'Agostino 2007, 83).
D’Agostino fa inoltre notare come questa varietà non sia allo stesso modo accostabile neanche all’italiano tipico delle produzioni dei bambini appartenenti alle prime classi delle elementari, nonostante esse presentino sovente caratteristiche simili a quelle dei testi semicolti. Parrebbe infatti poco ragionevole far rientrare queste ultime sotto l’etichetta dell’italiano popolare, in quanto gli specifici tratti di cui sopra vengono presto superati dai bambini nelle successive fasi di apprendimento scolastico, cosa che, come detto, non avviene nei parlanti di italiano popolare (D'Agostino 2007, 127).
Tra le fonti andate poi a creare il corpus analizzato da Cortellazzo vi erano: lettere di soldati e prigionieri di guerra durante il primo conflitto mondiale, caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale; lettere di altra provenienza quali quelle di emigrati friulani, o esempi come quello di Anna del Salento; memorie autobiografiche di diversa provenienza, quali ad esempio memorie di contadini lucani, di sottoproletari lombardi, o di banditi siciliani; testimonianze di diversa natura e di diversa provenienza, quali documenti di soldati processati durante la prima guerra mondiale,  o di emigrati a Milano; compiti scolastici di diversa provenienza (Cortellazzo 1972, 19-20)
Oltre a suggerire l’idea di “una varietà sovraindividuale“ (Krefeld 2016, 267).
Con la nozione di diglossia (Ferguson 1959) si intende la compresenza su un determinato territorio linguistico di due sistemi di lingua ai quali la comunità di parlanti attribuisce un diverso prestigio sociale, tale per cui uno dei due idiomi sarà considerato come varietà ‚alta‘ e di maggiore prestigio; mentre l’altro verrà connotato come varietà bassa, più informale e non adatta a contesti “alti“. È importante notare che i contesti d’uso dei due idiomi saranno rigidamente separati: alla varietà alta spetteranno i contesti formali, mentre quella bassa sarà impiegata per domini ordinari, propri della vita quotidiana (D'Agostino 2007, 77-78). Come visto in capitolo 3, però, la situazione italiana non è più ascrivibile a questo concetto: si parla oggi infatti di dilalìa ossia una condizione in cui i contesti d’uso delle due varietà A e B sono mutati: in un contesto dilalico quale quello odierno, infatti, entrambi gli idiomi, dunque sia quello “alto“ che quello “basso“, possono essere impiegati in contesti informali e colloquiali (D'Agostino 2007, 79).
Anche i due studiosi notavano, nella loro analisi, la forte influenza del dialetto su questa varietà, ed individuavano le maggiori interferenze tra parlato e scritto sul piano grafico, il cui uso non ha “riscontro sul piano del parlato, ma è insegnato a scuola“ (Sobrero 1975, 110): si segnalava dunque la presenza di doppie o scempie, là dove non sarebbero state previste, così come la poca padronanza delle regole relative all’interpunzione, agli accenti, agli apostrofi, all’uso di lettere maiuscole o minuscole, oltre che una difficoltà nella percezione dello spazio tra le parole, con i conseguenti fenomeni di agglutinazione o deglutinazione (in contro); dal punto di vista morfosintattico, frequente era l’errato accordo tra soggetto e verbo o tra sostantivo e aggettivo, dipeso dal fatto che lo scrivente si basasse su concordanze ad sensum (Sobrero 1975, 113), e ancora pleonasmi nell’uso dei pronomi (alla mamma le era piaciuta) così come l’uso di gli nelle forme oblique del femminile e del plurale, l’uso del ‚che polivalente‘, la coordinazione preferita alla subordinazione (Sobrero 1975, 113). Il  ‚modello‘ scolastico avrebbe operato meno, invece, a livello lessicale il quale, però, essendo connesso alla nuova realtà del mondo sociale, del lavoro, della televisione, portava ad una riduzione della presenza di termini dialettali; allorquando ve ne fossero stati, Sobrero parlava di una “consapevole scelta linguistica“ facendo riferimento a fenomeni rapportabili al bilinguismo, quali il commutamento di codice, oggi conosciuto come code-switching (Sobrero 1975, 115).
“Se si badasse solo alla morfosintassi, l’italiano popolare sarebbe fondamentalmente unitario“ (Berruto 1987, 109, nota 7), in quanto livello di analisi in generale meno soggetto alla differenziazione da area ad area (Berruto 1987, 109). Su questa tesi non concorda Mengaldo (1994) il quale, prendendo ad esempio l’accusativo preposizionale preceduto da a, spiega che tale fenomeno sarà sempre e solo fenomeno meridionale e mai settentrionale, se non eventualmente per motivi altri dall’affioramento dialettale. Per questa ed altre tesi contro l’unitarietà morfosintattica dell’italiano popolare, cfr. Mengaldo (1994, 109-110).
Bisogna altresì tenere presente, come ricorda Cerruti (2009), che ‚‚l’univocità di risultati a cui conduce in certi casi l’azione del sistema dialettale in regioni differenti è tale o perché, semplicemente, sono consimili le forme o le strutture di sostrato trasposte in italiano o perché l’effetto del contatto tra due codici è analogo in quanto rispondente allo stesso tipo di meccanismi“ (Cerruti 2009, 35); i tratti sovraregionali dell’italiano popolare, invece, possono essere riconducibili o a tratti tipici della testualità del parlato, o appunto a “tendenze e possibilità panromanze latenti in italiano“, tratti che facilmente si riflettono anche nell’italiano regionale (Cerruti 2009, 35), come ad esempio quello della ’semplificazione‘,  un meccanismo linguistico che avviene quando “a una certa forma (o struttura) di una lingua si contrappone una forma o una struttura più semplice, cioè più facile da realizzare, meno complessa, che può sostituire la prima senza che si perdano le informazioni essenziali contenute nel messaggio“ (Sobrero/Miglietta 2011, 175).
“Statisticamente, l’insieme di tratti che caratterizza in maniera più o meno netta e ‚densa‘ questa varietà tende a presentarsi presso parlanti diseredati culturalmente, presso le cosiddette classi subalterne scarsamente scolarizzate e poco/non colte [;] il carattere di ’sociale‘ è insomma netto se lo inquadriamo nei parametri di classificazione di varietà della lingua […], ma, come del resto è da supporre in generale per quanto riguarda le relazioni tra varietà di lingua e utenti, non è affatto deterministico“ (Berruto 1983, 87).
Non è del tutto facile distinguere con chiarezza “ciò che è popolare da ciò che è meramente informale e colloquiale“ (Lepschy 1989, 30); dal punto di vista morfologico e sintattico, ad esempio, sono diversi i tratti che le due varietà condividono: concordanze devianti, ridondanze pronominali, impiego del che polivalente, concordanze ad sensum; topicalizzazioni e riprese enfatiche (Berruto 1983, 93).
Parliamo qui dunque di eventuali tratti appartenenti a varietà diatopiche e diastratiche marcati anche diafasicamente, e non delle varietà in toto, le quali difficilmente possono “rappresentare esse stesse varietà marcate in diafasia“ (Cerruti 2009, 35).
Incertezza continuamente “soggetta a pressioni d’ogni tipo: dall’italiano aulico ai linguaggi settoriali al dialetto“ (Sanga 1984, 15). Sulla funzione dell’incertezza della norma, si noti, inoltre, come questa contribuisca “alla formazione di un uso instabile e fluttuante, al cui interno si vanno comunque delineando delle cristallizzazioni (sempre soggette a possibili regressioni) che, per ampiezza di diffusione, tendono ad imporsi agli italiani regionali ( e di qui allo standard)“; secondo Sanga, e successivamente Berruto, l’italiano popolare risulta come il “maggiore centro di innovazione linguistica della lingua italiana“.
Si rimanda qui al modello delle varietà di italiano proposto da Sabatini (1985), in cui si propone un italiano standard in opposizione all‘italiano comune, così come la coppia italiano regionale delle classi istruite e italiano regionale delle classi popolari (o semplicemente italiano popolare). Una simile suddivisione varrebbe inoltre anche per il sistema linguistico dialettale, nel quale si riconoscerebbero un dialetto regionale/provinciale ed un dialetto locale (Sabatini 1985).
Berruto propone inoltre di vedere all’interno dell’italiano popolare stesso una “piccola gamma di sottovarietà“, facendo distinzione tra un italiano popolare ‚basso‘ e un italiano popolare ‚medio‘, meno marcato e con minori interferenze dialettali (Berruto 1987, 114-115).
Usi in cui “vengono specialmente in primo piano tratti che in una corrispondente formulazione orale sarebbero del tutto inosservati, anzi invisibili“ (Berruto 2014, 280).
L’italiano popolare orale si caratterizza manifestamente nella pronuncia regionale “marcata verso il basso“ (Sobrero/Miglietta 2011, 101), ma anche per le false partenze, per le frequenti riformulazioni, per i generali cambi di progettazione nell’organizzazione testuale con le conseguenti correzioni e ripetizioni, e ancora, per i passaggi dal discorso diretto all’indiretto e per l’uso improprio delle forme al congiuntivo e al condizionale, oltre che per gli anacoluti e le topicalizzazioni; come ancora indicato da Sobrero-Miglietta, dal punto di vista morfologico, esso è caratterizzato dalle concordanze a senso e dalle ridondanze pronominali (tratti, come visto, spesso presenti nell’italiano colloquiale), ma anche da semplificazioni nominali e verbali, scambi di preposizione ecc; il lessico, invece, è ricco di termini generici (affare, cosa, coso, roba), ed è forte la tendenza ad inserire nel discorso espressioni e termini appartenenti alla sfera della burocrazia o termini aulici e tecnici, finendo però per storpiarli sul piano del significante, e risultando nei cosiddetti malapropismi, come vedremo nel capitolo 6 (Sobrero/Miglietta 2011, 100-101). Tutti questi fenomeni tipici dell’oralità si rivelano importanti per la nostra trattazione in quanto coerentemente trasposti nello scritto (Sobrero/Miglietta 2011, 100).
Sulla questione della possibile collocazione temporale dell“’Ur-italiano popolare“ e sulla nascita delle prime scritture semicolte propriamente dette rispetto alla normalizzazione grammaticale bembiana Cinquecentesca e pre-cinquecentesca, oltre che sulla separazione tra scritture proprie della varietà “alta“ e scritture riconducibili alla varietà “medio-bassa“, si vedano i critici lavori di Berruto (1987, 112-113) e Testa (2014, 21-24), oltre che il fondamentale lavoro di D’Achille (1994, 49-52; 57-65) ed i lavori di Valenti riguardanti questa varietà nel contesto cinquecentesco specificatamente siciliano (Valenti 2015, 533-542). A tal proposito, data la cospicua presenza di una parte dei tratti sub-standard nell’italiano popolare, concordemente con Bruni, Berruto sostiene che l’italiano popolare abbia offerto “una gamma di possibilità presente nell’italiano degli inizi, poi esclusa dalla codificazione bembiana della norma letteraria [e ricomparsa] con vigore quando una massa prima inesistente di parlanti non colti si è appropriata di una varietà di italiano“ (Berruto 1987, 113).
Dall‘Appendix Probi, una lista contenente 227 “errori di lingua“ evidentemente ben radicati nell’ambiente romano del primo secolo, che il grammatico Marco Valerio Probo tentò di correggere, al Satiricon di Petronio, testo contenente la nota Cena di Trimalchione, passaggio rappresentativo della compresenza di diversi stili impiegati dall’autore per distinguere socialmente i propri personaggi e volutamente rivelatore di una lingua “altra“, non rientrante nelle categorie normative imposte dal latino classico, fino ad arrivare all‘Itinerarium Egeriae, testo autobiografico ben lontano dal latino classico e improntato sul parlato dell’autrice, la pellegrina romana Egeria (Bruni 1984, 175-189).
Sulle drammatiche dinamiche che mossero gli scriventi semicolti alla scrittura durante la prima guerra mondiale, cfr. (Fresu 2015).
Cogliamo qui l’occasione per una dovuta precisazione sulle modalità di traduzione adottate nella nostra trattazione: le traduzioni da noi proposte vogliono anzitutto essere strumento per la globale comprensione semantica dei testi analizzati. Nonostante si sia tentato, infatti, in un primo momento, di mantenere almeno una certa aderenza morfologica e sintattica al testo originale, si è reso subito chiaro come ciò avrebbe inevitabilmente portato ad incomprensioni e malintesi, già presenti negli originali, anche all’interno delle traduzioni stesse. Di conseguenza, si è scelto di tradurre le intere lettere ed i frammenti presi in esame rendendoli il più possibile coesi e coerenti, laddove possibile, ai fini del nostro lavoro. Nostre sono anche le traduzioni in italiano dei singoli termini dialettali riportati nelle traduzioni, eccetto dove diversamente specificato; e a tal proposito, è doveroso ricordare che siamo consapevoli del fatto che altri studiosi, specie se di origine siciliana e provenienti da zone dell’isola diverse rispetto alla nostra, potrebbero riscontrare delle incongruenze (fonetiche, morfologiche, lessicali) tra la varietà qui riportata e la varietà da loro stessi parlata. È quindi fondamentale ribadire che i termini dialettali siciliani riportati nell’analisi sotto la voce “sic.“ non hanno la pretesa di essere riconosciuti come rappresentativi di un ipotetico siciliano standard: essi sono forme e termini facenti invece parte della varietà di siciliano parlata nel paese di Galati Mamertino, alla quale ci rifacciamo.
Sono aspetti questi che ben conosciamo, in quanto a noi raccontati in prima persona più e più volte nel corso degli anni.
Da diversi anni, la moglie di Peppino è a letto, a causa della demenza senile. Ella non parla, né pare recepire le parole dei familiari. Ciononostante, Peppino le porta ogni giorno un fiore raccolto nel giardino di casa, parlandole e rassicurandola sul bene che le vuole.
<<Siccome sono una persona che vuole sempre lavorare, scrivo ancora e mi piace tanto e per questo non mi non voglio smettere di scrivere, e così passa il tempo senza che ce ne si accorga, se no mi potrei mettere a dormire [il pomeriggio], però poi la notte non dormirei. Ed è per questo che non voglio dormire durante la bella giornata, e poi ve lo leggerò, questo bello scritto>>.
E ancora, durante i quotidiani colloqui con la famiglia, Peppino declama di essere, metaforicamente parlando, un professore, tanto è il suo sapere.
Sebbene le scuse per la propria scrittura siano presenti nella produzione di Peppino, abbiamo notato come queste vadano nel tempo via via scemando, rivelando la sicurezza dell’uomo, sviluppatasi con l’esercizio della stessa, nei confronti del testo scritto.
È qui inoltre interessante notare come, durante la lettura ad alta voce delle lettere e dei pensieri scritti, se da un lato Peppino legge effettivamente quanto trascritto, dall’altro va un po‘ a memoria, iniziando a pronunciare le prime sillabe, saltando alcuni caratteri o direttamente alcune parole, ma completando ugualmente la frase ed il pensiero ricordando quanto scritto, in quanto gli episodi narrati da Peppino nel nostro corpus costituiscono in gran parte una sorta di repertorio di eventi e narrazioni che l’uomo ha sempre condiviso oralmente con le figlie e la famiglia nel corso della sua vita. Avendo usufruito „in anteprima“ delle eventuali spiegazioni fornite da Peppino sulle proprie produzioni, le figlie dell’uomo hanno potuto aiutarci a sciogliere alcuni punti per noi di difficile comprensione o generalmente oscuri.
Data la distanza fisica che intercorre tra chi scrive e Peppino, non è stato possibile inoltrare il questionario di persona a Peppino; esso è stato bensì inviato alle figlie dell’uomo, le quali si sono occupate di raccogliere ed inviarci la risposta. Anche a motivo di ciò, non è stato possibile seguire passaggio per passaggio il processo di risposta al questionario, che non potremo perciò descrivere nel dettaglio.
<<Io Sono Nato a Galati Mamertino nel 1931 e sono nato il 24 e mi hanno dichiarato [all’anagrafe] il 25. Io ho fatto solo la terza elementare e avevo circa 9 o 10 anni, e poi a 14 o 15 mi sono fatto la scuola serale e [il maestro] ci faceva fare anche le lettere per la fidanzata. Io a 16 anni sono andato a zappare [sic. zappuliare] il grano e poi io, per evitare di venire a Galati sono rimasto ad aiutare le mie zie a Troina. E Io ho fatto sempre il contadino, come i miei cari genitori, tranne quando ho fatto il militare a Casale Monferrato e poi sono andato ad Alessandria. C’è stato un soldato che mi ha chiesto: «Fazio, ma tu come hai imparato a parlare italiano?» e Io gli ho detto: «Così come mi parlano, io rispondo. Se no, se io parlassi loro come [parlo] nel mio paese nessuno mi potrebbe capire». E poi quando sono tornato a  casa, dopo dieci mesi, mi rallegravo di parlare in italiano e adesso posso parlare con tutti come mi piace. E quando scrivevo a casa, scrivevo in italiano e io quando nella busta mettevo cinquecento lire, la mia cara mamma era analfabeta e correva per aprire la busta e mio padre, che sapeva scrivere e leggere, le diceva: «perché corri se non sai leggere?». Il mio caro papà ha trovato tre soldi e si è comprato il quaderno e con un solo soldo una matita [sic. lapis] e se n’è andato a scuola e il suo caro papà ha detto [parlando con il maestro]: «a mio figlio non c’è bisogno che gli insegni [le varie cose che si insegnano a] scuola. Gli deve solo insegnare [sic. imparari] l’educazione». E allora il mio caro padre ha pensato: «ma allora io che cosa sono? Un animale?» e allora, da allora [sic. di tannu] in avanti è diventato un bravo bambino e poi anche una bravissima persona e diceva che le persone brave possono stare in tutte le società civili. Io parlo come mi piace però, quanto allo scrivere non si può scrivere in dialetto: si deve scrivere per forza in italiano>>.
Utilizzando le domande del questionario come una griglia da cui partire per costruire una produzione, eludendo, però, diverse delle stesse.
Pur non preoccupandosi però di spedirle: esse sono infatti serenamente conservate nei quaderni e solo qualora si presenti l’occasione, vengono mostrate agli interessati. In ogni caso, però, bisogna notare come Peppino non ponga mai all’interlocutore delle domande che prevedano delle risposte dal destinatario, come a segnalare, a livello inconscio, di sapere già che questi non riceverà la lettera.
A proposito del genere epistolare, Fresu (2008) ritiene, inoltre, che la “dialogicità a distanza“, tratto proprio del genere della lettera vada a giustificare “i cedimenti verso una pianificazione arcorata all’oralità e sfumata in toni familiari e informali“, nelle scritture semicolte.
A tal proposito si segnala la presenza di cosiddetti “doppioni“ nei nuclei tematici, come accade nelle produzioni di Tommaso Bordonaro, siciliano semicolto classe 1909, emigrato in America; come spiega Amenta (2012, 737), con il passare del tempo, Bordonaro pare avere dimenticato di avere scritto ed inviato le proprie produzioni al professore che ne curava le edizioni, creando, così, nuove produzioni sugli stessi temi già trattati. Anche le produzioni di Peppino presentano, come detto, più volte gli stessi argomenti; tuttavia, pare che questo sia non tanto da ricondurre alla memoria dell’uomo, che pure certamente potrebbe giocare dei brutti scherzi; quanto all’importanza che per lui queste tematiche rivestono. Per quanto riguarda, al contrario, l’inserimento di veri e propri doppioni di racconti, canzoni e poesie, simili nella forma oltre che nel contenuto, è lì possibile che ciò sia da attribuire al fatto che l’uomo non ricordi di averle già “immortalate“ per iscritto. In ogni caso, la presenza dei doppioni ha talvolta reso più leggero il processo di ricostruzione e traduzione dei testi, spesso a tratti criptici.

5. Metodologia

Ci proponiamo di illustrare, in questo capitolo, le operazioni metodologiche secondo cui abbiamo riportato in formato digitale la produzione di Peppino e tramite le quali abbiamo allestito un corpus online, mezzo che consentirà di accedere ai dati digitalizzati ed eseguire ulteriori analisi di tipo linguistico sull’italiano impiegato dall’uomo nel testo scritto, in un’ottica di ricerca futura. Prima di avviarci nella descrizione delle scelte compiute durante la trascrizione, si procederà qui a spiegare brevemente in cosa consista la cosiddetta linguistica dei corpora e in base a quali nuovi principi metodologici un corpus digitale debba essere creato.

5.1. Linguistica dei corpora ed edizione corpus online

Con la definizione linguistica dei corpora (eng. corpus linguistics) si intende la connessione tra la tradizionale disciplina della linguistica e le moderne tecnologie informatiche76 sviluppatesi da ottant’anni a questa parte77, le quali consentono un’analisi del linguaggio umano e dell’informazione linguistica tramite la raccolta e l’indagine sistematica di “grandi quantità di testi che, con le metodologie oggi a disposizione, possono raggiungere l’ordine dei miliardi di parole“ (Cresti/Moneglia 2016, 581).

La linguistica dei corpora interessa raccolte informatiche di dati linguistici inerenti alla lingua sia parlata che la lingua scritta; i documenti facenti parte delle raccolte vengono accuratamente selezionati ed organizzati secondo specifici criteri, a seconda dello scopo della ricerca, che permettano poi di rilevare con esattezza oggettiva, sulla base di un‘analisi dei dati di frequenza, l‘occorrenza statistica di un determinato fenomeno linguistico ed illuminare, così, i linguisti sulla “basicità o perifericità“ dello stesso nel sistema della lingua (Spina 2001, 53; Cresti/Moneglia 2016, 581)78.

Ma cos’è un corpus online? Seguendo la definizione fornita da Barbera-Marello (2008, 159), esso sarebbe una

raccolta di testi (scritti, orali o multimediali) o parti di essi in numero finito in formato elettronico trattati in modo uniforme (ossia tokenizzati ed addizionati di markup adeguato) così da essere gestibili ed interrogabili informaticamente; se (come spesso) le finalità sono linguistiche (descrizione di lingue naturali o loro varietà), i testi sono perlopiù scelti in modo da essere autentici e rappresentativi79.

La disciplina della linguistica dei corpora non interessa però solamente “lo studio del dato linguistico in quanto tale, [ma anche] le specifiche modalità della sua archiviazione e del recupero dell’informazione in esso contenuta“ (Cresti/Moneglia 2016, 581). Onde evitare fraintendimenti, è necessario nel nostro caso fare distinzione tra il corpus preso in esame nella nostra analisi linguistica esemplare svolta nel capitolo 6 e riportato qui (in appendice) in modo tale da rendere più agevole un confronto con i testi analizzati (disponibile sia in versione cartacea della presente tesi, che nella versione digitale), ed il vero e proprio corpus online creato sotto forma di contributo a se stante e consultabile sulla piattaforma Lehre in den Digital Humanities gestita dal gruppo IT-Gruppe Geisteswissenschaften della Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera (link), il quale raccoglie sia le produzioni di Peppino riportate in questa sede, sia quei brani non inseriti né analizzati in questa sede (poesie, canti e racconti popolari), sulla cui creazione discuteremo nei seguenti paragrafi. Bisogna inoltre rimarcare il fatto che, proprio in un’ottica di duratura conservazione dei dati digitalizzati e di possibile riutilizzo degli stessi, secondo le linee guida dei principi FAIR (findable, accessible, interoperable, reusable) e per la cui realizzazione tecnica rimandiamo almeno a Lücke (2018), si è inoltre proceduti con l’ulteriore inserimento del materiale su un sistema informatico finalizzato alla gestione, alla raccolta e alla consultazione dei dati digitalizzati, il quale potrà permettere in futuro anche un’analisi di tipo quantitativo dei dati raccolti, non operata in questa sede.

Per quanto riguarda i nuovi principi di digitalizzazione dei dati di ricerca, ossia i principi FAIR, per i quali si rimanda nello specifico a Krefeld/Lücke 2018 e Krefeld/Lücke (im Druck), pare qui altresì utile illustrare brevemente quale sia l’intento alla base degli stessi. L’acronimo FAIR contiene in sé quattro parole chiave per la comprensione delle linee teoriche applicabili ai processi di conservazione ed utilizzo dei dati di ricerca: con l’accezione findable <<reperibile>> si intende mettere in rilievo l’aspetto dell’indipendenza del nuovo metodo rispetto alla rigida reperibilità fisica del mezzo concreto, il libro, nel quale da secoli le informazioni vengono conservate, e che, però, risulta obsoleto in un’ottica di accessibilità e conservazione duratura dei dati, i quali potrebbero essere invece memorizzati in più spazi digitali; connesso a questa accezione è ancora il termine accessible <<accessibile>>, ossia libero da restrizioni legislative legate a questioni di copyright o di violazione della privacy; il termine interoperable <<interoperabile>> si riferisce, invece, alla capacità del sistema centrale di interazione con altri sistemi in un’ottica di scambio d’informazioni, le quali vengono scomposte secondo un principio di granularità dei dati, catalogate in categorie ben definite, e contrassegnate tramite un identificatore numerico univoco. Tramite l’attuazione dei tre principi precedenti è possibile pensare al riutilizzo dei dati stessi (reusable <<riutilizzabile>>).

5.2. Scelta del materiale analizzato: tipologia, disposizione cronologica e tematica nel corpus

Il corpus che abbiamo allestito è costituito da 24 lettere e da 25 intere pagine e frammenti di memorie di Peppino, che abbiamo raccolto e trascritto online a partire dal dicembre del 2018. Il corpus non deve, tuttavia, essere inteso come completo e concluso, ma come momentaneamente rappresentativo della produzione dell’uomo: da quando Peppino si accingeva a prendere la penna in mano per la prima volta, come detto, in occasione della scrittura di un biglietto d’auguri per la laurea della nipote maggiore avvenuta nel 2016, egli non ha infatti smesso di scrivere, e per gusto, e per evasione. Ciò ha avuto come conseguenza un massiccio incremento della sua produzione, la quale, nel giro di tre anni, è arrivata a contare più di dieci quaderni colmi di scritti di diverso tipo: lettere, memorie, racconti, canzoni e poesie popolari. Il nostro corpus online raccoglie, dunque, le produzioni relative agli anni compresi tra il 2016 e l’aprile del 2019, mese in cui il questionario autovalutativo di cui abbiamo parlato nel capitolo 4 è stato sottoposto a Peppino, e la cui risposta è stata inserita nel corpus online su DH (oltre che nella presente, nel capitolo 4). Come abbiamo visto, però, non è detto che il corpus debba ritenersi ultimato, in quanto tanti altri sono gli scritti di Peppino di cui non abbiamo ancora preso visione. Come già fatto presente nel capitolo 4, inoltre, si è scelto in questa sede di non inserire nel presente corpus in appendice i racconti, le poesie e le canzoni vere e proprie che Peppino ha trascritto, le quali sono però presenti nel sopracitato corpus online. Come precedentemente sottolineato, comunque, alcune delle lettere contengono in ogni caso al loro interno dei frammenti di poesie, di canzoni e racconti popolari.

 

5.2.1. Datazione ed ordine di disposizione del materiale

Il materiale raccolto ed analizzato è databile tra l’aprile del 2016 ed il marzo del 2019, fatta eccezione per le risposte date al questionario somministrato allo scrivente nell’aprile del 2019 affrontate nel capitolo 4. La disposizione delle lettere all’interno del corpus segue dunque una linea temporale idealmente tracciabile dal 2016 al 2019, per quanto possibile. È bene infatti rimarcare la valenza dell’avverbio idealmente in quanto, se da un lato è vero che alcune lettere presentano una data precisa (seguendo i pattern: “giorno/mese/anno“; “mese/anno“ ecc.), la quale permette di collocarle più o meno esattamente dal punto di vista temporale, la maggior parte delle produzioni ne è al contrario sprovvista, riportando semplicemente l’anno in cui è stata prodotta o addirittura non riportando alcun riferimento temporale80. Ciononostante, è stato possibile procedere nella disposizione in successione cronologica del corpus in quanto il materiale è stato prodotto, come accennato, su fogli di quaderno: quando una lettera o pensiero contenuto in uno di questi avesse riportato una datazione specifica, sarebbe stato logico pensare che anche le altre a seguire fossero da collocare temporalmente nello stesso periodo. È tuttavia stata riscontrata un’oggettiva difficoltà nel riconoscimento del materiale, in quanto, stando alle informazioni fornite dalle figlie, avendo finito lo spazio a disposizione sul quaderno utilizzato e nella foga dello scrivere, Peppino avrebbe spesso riempito con le sue produzioni spazi vuoti di vecchi quaderni che trovava in casa. Di fondamentale aiuto è stata allora la presenza delle figlie dell’uomo, le quali, avendo una più approfondita conoscenza del materiale, hanno aiutato nella ricollocazione delle lettere e dei pensieri in successione temporale: le lettere seguiranno in ogni caso una disposizione temporale per anno, di cui si può essere relativamente sicuri.

La prima produzione inserita nel corpus è quella che ha offerto la prima l’occasione di scrittura del 2016, il biglietto di auguri per la laurea della nipote Alessia; seguono altre tre lettere riconducibili allo stesso anno. A seguire sono state inserite cinque lettere risalenti al 2017 e quindici lettere chiaramente riconducibili al 2018: che sia dovuto ad uno sforzo autonomo o ad un suggerimento, Peppino inizia dal 2018 ad inserire con più frequenza una datazione, specialmente nelle lettere, ma talvolta anche nelle memorie, sebbene egli spesso indichi semplicemente l’anno di produzione delle stesse.

Le memorie raccolte saranno, invece, disposte nel corpus attraverso un metodo leggermente diverso. Se infatti anche queste presentano spesso, come sopra, una datazione specifica (anche qui seguendo il pattern “giorno/mese/anno“, “mese/anno“ o semplicemente “anno“), ed è dunque stato possibile collocarle in una disposizione cronologica, si è ritenuto altresì necessario uno smistamento di tipo tematico81, in quanto, come visto nel capitolo precedente, diversi sono i temi che affiorano ripetutamente nelle memorie e nelle riflessioni di Peppino, tanto da poterli generalmente raggruppare in cinque grandi categorie: famiglia, campagna, vita militare, auto e scuola guida, infanzia e scuola. Anche in questo caso, infatti, è bene sottolineare l’impossibilità di una distinzione tematica vera e propria, in quanto non di rado, in quelle che potrebbero a prima vista sembrare produzioni interamente incentrate su un unico tema, Peppino salta improvvisamente ad un’altra tematica, seguendo una sorta di proprio flusso di coscienza, come detto nel capitolo 4. Le categorie elencate vanno allora intese come rappresentative per prevalenza tematica delle produzioni ivi rientranti. 

Pensieri e frammenti di pagine di memorie saranno quindi in primo luogo disposti per argomento e, all’interno della disposizione tematica, saranno ordinati per data, laddove questo sia possibile. A differenza delle lettere, che sovente è stato possibile riconoscere grazie alle formule di chiusura adottate dall’uomo, infatti, le memorie di Peppino sono al contrario disposte nei quaderni in modo definitivamente casuale, seguendo, ad utilizzare un’espressione eufemistica, il principio del “qualsiasi spazio vuoto va riempito“ o “dove c’è spazio, si può scrivere“: di conseguenza si è scelto, durante la ricerca, di trascriverli in ogni caso poiché provvisti di tratti linguistici, specialmente lessicali, notevoli nell’analisi dell’italiano dei semicolti, ma le difficoltà spesso riscontrate nell’identificazione e nell’isolamento di un singolo frammento di memoria rispetto agli altri frammenti è stata considerevole. Anche in questo caso, il contributo da parte delle figlie dell’uomo è stato di fondamentale aiuto per distinguere l’uno dall’altro frammento.

Al fine renderne più semplice la categorizzazione e l’individuazione delle produzioni a cui si farà riferimento durante la successiva analisi, nella presente tesi è stata loro attribuita una numerazione in numeri romani, preceduti, tuttavia, da un ulteriore codice numerico e da un trattino < – >,  i quali servono ad indicare il capitolo e l’eventuale sottocapitolo che la piattaforma ha loro automaticamente attribuito: 8 per Appendice; 8.1 per le Linee guida per la lettura dei testi; 8.2 Biglietto d’auguri per la laurea nipote e lettere varie. Le lettere saranno allora così identificabili: “8.2-“ seguito da una numerazione da I a XXIV; le memorie si suddivideranno invece in “8.3.1“ “8.3.2“ ecc., a seconda delle varie tematiche, seguiti da < – > e il numero in lettere romane (es. 8.3.2-III; 8.3.4-I, ecc.).

5.3. Metodo ed inserimento trascrizione su DH delle lettere e delle memorie

L’edizione dei testi semicolti necessita di una metodologia molto scrupolosa, in nome del principio di fedeltà scientifica già delineato in Spitzer (1976, 43), successivamente confermato dall’antropologa Annabella Rossi a proposito delle sue Lettere da una tarantata:

il lavoro di selezione e di <<montaggio>> è sempre pericoloso e fuorviante perché la scelta può <<cambiare>> il senso originale del <<discorso>>, può fraintendere alcune sfumature che molte volte costituiscono parte essenziale del tutto. Il taglio di una frase, di una parola, di un periodo, di una parte di un’autobiografia può alterare parzialmente o totalmente le intenzioni, il senso e le possibilità di interpretazione di un discorso (Rossi 1994, 91)

Durante la trascrizione del materiale da noi raccolto dal formato cartaceo al formato digitale si è scelto dunque di rispettare e riportare, per quanto possibile, al dettaglio il testo originale, anche, come ancora una volta sottolineato da D’Achille, nel pieno rispetto delle forme grafiche e fonetiche, degli errori e delle irregolarità [e] nell’inserimento della punteggiatura, nello scioglimento delle abbreviazioni, nella divisione delle parole, la cui opportunità andrà valutata caso per caso“ (D'Achille 1994, 57). Laddove non sia stato possibile rendere le specifiche particolarità formali del materiale selezionato, o siano state operate scelte differenti, ciò verrà indicato nel presente lavoro. Vediamo adesso quale sia stato il nostro approccio alla trascrizione del materiale.

5.3.1. Inserimento segni paragrafematici su DH

Per quanto riguarda i segni paragrafematici, come ad esempio gli accenti apposti sulle vocali, Peppino riporta – in modo assolutamente arbitrario, è bene ricordare – diverse varianti della direzione grafica data al tratto. Nell’apporre il segno sulla vocale “e“, ad esempio, egli riprodurrà le varianti grafiche “è“ con accento grave, “é“ con accento acuto, ma anche “ē“ con accento lungo ed “ĕ“ con accento breve; lo stesso varrà per le altre vocali presenti nelle produzioni: 

 

Esempio di <e> con accento grave

Esempio di <e> con accento acuto

Esempio di <e> con macron (accento lungo)

Esempio di <e> con accento breve

Pur essendo convinti che questa non sia un’operazione ponderata da parte dello scrivente, né che gli accenti breve e lungo abbiano di conseguenza alcun valore consciamente fonologico (anche perché, come vedremo nel capitolo 6), spesso casualmente, posizionati su vocali che non richiederebbero una distinzione fonologica), si è deciso di riportarli in formato digitale per amore della fedeltà rispetto al materiale, e nella consapevolezza che così puntualmente trascritto, esso potrà forse un giorno essere utilizzato per un’ulteriore analisi a livello paragrafematico: durante la prima fase di trascrizione su DH, essi verranno dunque inseriti tramite l’aggiunta dei seguenti diacritici sulle vocali, < ` >, < ´ >, < ¯ >, < ˘ >, come nei seguenti esempi:

[ 1 ] P. è brava <<P. è brava>> (8.2-VI);

[ 2 ] ĕ Ti voglio Tanto Bene <<e ti voglio tanto bene>> (8.2-II);

[ 3 ] chome Tu voi Bene A Mé <<come tu vuoi bene a me>> (8.2-II);

[ 4 ] Tisaluto ē Tidico ciavo <<ti saluto e ti dico ciao>> (8.2-II).

Qualsiasi altro segno paragrafematico, quali ad esempio i segni d’interpunzione o gli apostrofi, sono stati fedelmente riportati durante la trascrizione su DH, qualora essi siano stati presenti nelle produzioni.

 

5.3.2. Inserimento di correzioni e cancellature su DH

Anche gli spazi che segnalano la divisione delle parole sono stati rispettati durante la trascrizione. Quantunque Peppino abbia ritenuto necessario, dopo una rilettura di quanto scritto, correggere il testo tramite l’unione di due parole (trattino di legamento) o tramite separazione delle stesse (sbarra obliqua), come nelle immagini sotto riportate, queste due operazioni sono state rese nella trascrizione – per una logica imitazione dell’ortografia – rispettivamente tramite a) l’inserimento del trattino basso o underscore < _ > nel caso in cui egli abbia voluto unire le due parole; b) della tripla82 barra obliqua o slash < /// > nel caso in cui egli abbia voluto separarle (sottolineiamo che non è verificabile il grado di autonomia dell’autore nell’effettuare tali correzioni, per altro piuttosto rare83):

 

Esempio di unione di parola tramite underscore < _ >

Esempio di separazione di parola tramite slash < / >

Ed ecco dunque come questi fenomeni sono stati riportati durante la trascrizione su DH:

[ 5 ] a) an_che <<anche>> (8.2-XIV); 

        b) ē deper///questo che levogliono tutti Bene <<ed è per questo che Le vogliono tutti bene>>  (8.2-XVI).

Per quanto riguarda gli interventi di correzione di Peppino tramite cancellatura sulle parole, questi sono stati riportati su DH tramite l’inserimento delle parole interessate, seguito dalla loro evidenziazione e dal comando di testo sbarrato presente nel campo di scrittura previsto nella creazione di contributi sulla piattaforma. Cancellature del seguente tipo sono state  riportate nel contributo come in [ 6 ]:

Esempio di correzione tramite cancellatura

[ 6 ] Tu Cass ima Carissima <<tu, carissima>> (8.2-XVII).

 

5.3.3. Inserimento correzioni: grafemi, sillabe, gruppi di parole

Le correzioni tramite inserimento apportate da Peppino dopo la rilettura delle lettere sono state rese su DH tramite l’evidenziazione delle stesse con il colore blu. È bene precisare che queste correzioni sono state talvolta inserite da Peppino nelle produzioni originali tra un grafema e l’altro, in base allo spazio disponibile sul foglio, o sopra la parola da correggere, specialmente nel caso in cui si fosse trattato di inserire singoli grafemi mancanti, come si evince dalla seguente immagine:

Esempio di inserimento singolo grafema

Altre volte, invece, le correzioni hanno comportato l’inserimento di sillabe, intere parole o gruppi di parole totalmente mancanti. Anche in questo caso, Peppino ha sovente inserito le correzioni un rigo sopra la parola da correggere, sebbene alle volte non proprio in forma centrata ma a destra della parola, come in Abb. 12, lasciando a volte spazio all’interpretazione in base al contesto:

Esempio di inserimento sillaba mancante

Esempio di inserimento singola parola mancante

Esempio di inserimento gruppo di parole mancanti

Come visto, l’individuazione dei tipi di correzione per inserimento di cui sopra è in questi casi risultata in ogni caso poco problematica, sia perché Peppino ha talvolta apportato le correzioni tramite una penna di colore diverso rispetto a quella utilizzata durante la stesura delle produzioni, sia grazie all’inserimento delle correzioni in alto, sopra la parola da correggere, continuando  anche con la stessa penna. In questi casi si è scelto di trascrivere in DH questo tipo di inserimenti evidenziando anch’essi in blu ed inserendoli nel testo digitalizzato, lì dove presumibilmente e ragionevolmente si suppone che Peppino li avrebbe inseriti, durante la stesura e/o durante la correzione, se avesse avuto a disposizione più spazio sul foglio bianco:

[ 7 ] aivoluto <<hai voluto>> (8.2-V.)84

[ 8 ] Carissima Canpagna <<carissima campagna>> (8.2-XXIII);

[ 9 ] scrivere una prossamitiva <<scrivere un’approssimativa>> (8.2-VII);

[ 10 ] chogliere unpo di fico <<raccogliere un po‘ di fichi>> (8.2-XXIII). 

 

5.3.4. Aggiunte correttive ai singoli grafemi

Nei casi sin qui discussi si è potuto procedere con relativa scioltezza alla decisione di quale metodo adottare nella trascrizione del materiale su DH, in quanto, come visto, le correzioni di Peppino vengono inconsapevolmente segnalate nel testo originale tramite diversi espedienti: il differente colore della penna, la posizione loro attribuita nello spazio, ecc.

Nel caso in cui le aggiunte correttive di Peppino siano state, però, apportate al momento della stesura del materiale (dunque con una penna dello stesso colore), o nel caso in cui siano  state effettuate delle aggiunte successive ai singoli grafemi ma con la stessa penna, non è sempre stato del tutto semplice procedere nel distinguere quale tratto o grafema sia stato inserito per primo: in casi come quello in Abb. 13 la difficoltà di ricostruzione dell’accaduto è relativamente bassa, in quanto si può dedurre – anche tramite un confronto calligrafico con le altre g presenti nel testo – che Peppino abbia in un primo momento scritto sequitemi <<seguitemi>> per poi apporre alla q la codina della g durante la rilettura e riuscire nella corretta trascrizione della parola seguitemi; non è, invece, di così semplice risoluzione il caso in Abb. 14, in cui è ipotizzabile che la parola scordarmi sia stata troncata a motivo di un’apocope sillabica (come vedremo nel capitolo 6, fenomeno tipico della scrittura di Peppino), risultando nella forma scorda, poi corretta tramite l’aggiunta della sbarretta a voler creare una <t>, forse sulla base della parola scordato che, durante la lettura ad alta voce, è possibile sia balenata nella mente dell’uomo: 

Esempio di combinazione tra grafema <q> e <g>

Esempio di combinazione tra grafema <d> e <t>

Nel caso di Abb. 15 e Abb. 16, assistiamo invece ad una vera e propria fusione tra grafemi:

Esempio di fusione grafica di <g> e <l>, per la parola <moglie>

Quest’immagine dimostra la fusione effettuata in un sol tratto durante la fase di stesura e permette di ricostruire fedelmente il movimento che la mano di Peppino ha tracciato con la penna sul foglio: questa tratteggia una <l>, allungandola a formare una <g>, nel tentativo di scrivere il nesso grafico <gl> presente nella parola moglie. 

Nel caso di Abb. 16, invece, è presumibile che si tratti di una correzione effettuata durante la rilettura: dopo avere spontaneamente scritto ma detto <<m’ha detto>> sulla base della percezione orale del continuum linguistico, Peppino riflette ed aggiunge un segno diacritico sulla terza gambetta della <m> in modo da riprodurre la <i> necessaria a correggere quanto scritto nella forma, a suo dire, esatta “mia(mi ha):

Esempio di fusione grafica di <m>, <i> ed <a>, per <mi ha>

Durante la trascrizione su DH, tuttavia, la difficoltà relativa a queste aggiunte correttive è risieduta non tanto nell’interpretabilità delle stesse, quanto soprattutto nel fatto che, come visto, esse sono spesso risultate in una combinazione grafica di caratteri sconosciuti al sistema grafematico italiano (e difficili da riprodurre persino per imitazione degli eventuali simboli presenti nell’IPA, International Phonetic Association), tanto da non poter essere resa tramite alcun simbolo nel contributo su DH. In tal senso, allora, anche noi abbiamo dovuto rinunciare a quel “grado di fedeltà“ di cui Spitzer lamentava la mancanza relativamente alla possibilità di riportare gli esatti caratteri e la calligrafia dei mittenti delle lettere raccolte (Spitzer 1976: 43). Le particolari combinazioni create da Peppino sono state in ogni caso rese tramite l’inserimento in grassetto di entrambi i caratteri interessati nella fusione:

[ 11 ] seqguitemi <<seguitemi>> (8.2-IX);

[ 12 ] scordta <<scordarmi/scordato>> (8.2-II);

[ 13 ] moglie <<moglie>> (8.2-VII);

[ 14 ] e mia detto <<e mi ha detto>> (8.2-XX).

Un caso a parte è rappresentato dalla fusione ottica dei grafemi <f> e <l> presente nella lettera 8.2-II: qui è infatti stata effettuata la cancellazione della barretta lunga che avrebbe costituito una <f> in corsivo minuscolo se la mano di Peppino avesse continuato a tracciarla, e che ha invece preso così forma di <l>, come si evince dall’immagine:

Esempio di cancellazione della fusione tra <f> e <l>

Come rendere questa fusione nella trascrizione con cancellazione su DH? Si è anzitutto pensato di porre l’accento sulla cancellatura operata da Peppino, inserendo in questo caso la < f > sottoposta a sbarramento, dunque < f >; tuttavia, l’aspetto finale del grafema così sbarrato da Peppino è come detto quello di una < l >; non potendo sorvolare sul fatto che si tratti di un unico grafema, il tutto è stato allora evidenziato in grassetto, come accaduto per indicare le fusioni grafematiche poc’anzi rappresentate, ottenendo < fl >: 

[15 ] queste due paro= / fle perdirte <<queste due parole per dirti>> (8.2-II);

 

Uno degli ultimi due casi che vogliamo qui prendere in considerazione è costituito dall’inserimento di Peppino, a seguito della rilettura, di un grafema direttamente su quello ritenuto scorretto (dunque non semplicemente inserito al di sopra, bensì sul grafema da correggere):

Esempio di apposizione grafema corretto su grafema scorretto

In questo caso il bisticcio tra lemmi è stato riportato nella trascrizione su DH tramite l’inserimento del carattere ritenuto errato seguìto da sbarramento, più l’inserimento del nuovo carattere evidenziato in blu, come in [ 16 ]:

[ 16 ] Caro genoero <<caro genero>> (8.2-VIII).

 

Salta spesso infine all’occhio il caso in cui Peppino abbia voluto correggere la desinenza di una parola percepita come errata:

Esempio di correzione tramite inserimento diacritico su grafema

In questo caso la parola Salute viene preceduta dalla parola tantissimi, indicando l’intenzione di scrivere “tantissimi saluti“; rileggendosi, Peppino si accorge del mancato accordo tra la parola ed il suo aggettivo, e provvede dunque alla correzione, apportando sulla <-e> di Salute un segno diacritico, che manifesta la volontà di volerla trasformare in <i>. Ciò viene riportato nella trascrizione in DH tramite l’inserimento, accanto al grafema da correggere, del simbolo tipografico < ° > data la somiglianza con il diacritico riprodotto da Peppino, evidenziato dal colore blu:

[ 17 ] tantissimi Salute° <<tantissimi saluti>> (8.2-XI).

 

5.3.5. Inserimento materiale su Vim e collegamento al database MyAdmin

Dopo la fase di trascrizione del materiale raccolto su DH, si è reso necessario procedere con l’inserimento delle produzioni sull’editor di testo Vim e con la successiva connessione tra questi e la banca dati MyAdmin, la quale ha reso possibile il salvataggio del materiale trasposto in formato digitale. Data la relativa complessità delle operazioni informatiche da effettuare in questa fase della ricerca, si è rivelata di fondamentale importanza la guida del Dr. Stephan Lücke ITC München, il quale ci ha accompagnati illustrando la metodologia necessaria per queste primissime fasi di inserimento nel database del materiale.

Per quanto riguarda l’inserimento dei brani su Vim, necessario per la conversione dei testi in un formato consono al successivo inserimento nella bancadati (formato .txt), è stato fondamentale riportare un preciso schema per ogni singola produzione. Ogni inserimento doveva essere preceduto da una griglia con delle informazioni utili a distinguere o accomunare ogni singolo testo. Le diciture presenti nella griglia erano le seguenti: von <<da>>, an <<a>>, aus <<da (luogo)>>, nach <<a (luogo)>>, Datum <<data>>, Gattung <<genere>>, Quelle <<fonte>>, Anmerkung <<nota>>, ognuna delle quali era preceduta dal segno < # >; infine, a separare la griglia dal corpo del testo da noi inserito, è stato indispensabile l’inserimento di < —– >, come si vede nella tabella riportata sotto:

#Von: Grossvater
#An: Enkelin1
#Aus: Galati Mamertino (ME)
#Nach: München
#Datum: 04-16
#Gattung: Brief
#Quelle: Privatbriefe Brancatelli
#Anmerkung:
—–

Cara Alessia Tiscrivo queste due paro = / {{[[f]]l}}e perdirte che stobene disalute / e{3} chosi spero chestai Bene an che / Tu e i [[Tuo]] Tue amice e{3} Ti voglio / Tanto Bene chome Tu voi Bene / A Me{1} Tisaluto e{4} Tidico che / mentre che dormivo Ti{1}o sognoto / che mia Braciavi non posso / scor{{dt}}a Mai di Te Tusei una / Racaza tanta inteligente / e pequesto chemivoi tanto bene / perce perce vedi che Io ti voglio / assai bene non miprollugo piu / Ciao apresto intanto allungo ancora / la Mamma e uscita fori conla / Zia lesalute te mando Io dinovo Ciao / eTi saluta ance Papa

In questo caso il mittente è identificato con la denominazione Grossvater <<nonno>>; il destinatario è identificato come Enkelin1 <<nipote1>>, in quanto diversi sono i nipoti a cui Peppino indirizza le lettere ed è dovuta una diversificazione del tipo: nipote1 (femmina), nipote2 (femmina), nipote1 (maschio); così come figlia1, figlia2 ecc.; il luogo dal quale la lettera è stata spedita (anche se nel nostro caso si riferisce più al luogo in cui è stata scritta, in quanto le lettere di Peppino non sono state effettivamente spedite) e la sua rispettiva destinazione; la data; il genere testuale (in questo caso, lettera) e la fonte, ovvero chi ha fornito il materiale (nel nostro caso “Lettere private – Brancatelli“), necessario per distinguere le lettere da noi raccolte da quelle pure inserite nel database ma provenienti da altri corpora, come nel caso delle lettere dei prigionieri di guerra di Leo Spitzer, precedentemente riportate all’interno del database e di certo maggiormente diversificate rispetto alle nostre (mittenti, destinatari, luoghi a cui sono state inviate ecc.).

Bisogna altresì ricordare che il testo da noi trascritto nell’esempio in tabella presenta delle peculiarità rispetto a quelli riportati nel corpus in appendice e in quello a se stante su DH. Come si può notare, ai grafemi accentati è stato, infatti, attribuito un codice ASCII, in quanto se si fosse proceduto in modo diverso, ossia riportando direttamente i grafemi come <è> <é> <ē> ed <ĕ>, essi non sarebbero stati adeguatamente riconosciuti e rintracciabili da un punto di vista qualitativo nel database. Si riporta qui a titolo esemplificativo uno degli schemi per l’inserimento dei diversi accenti sulla <e>: <è> = e{1}; <é> = e{2} <ē> = e{3}; <ĕ> = e{4}.

Il contenuto delle lettere e delle memorie è stato, infine, correttamente inserito nel database MyAdmin, nel quale ha subito un processo di tagging e tokenizzazione, ed è pronto per delle future analisi di ricerca.

Sulla complessità del tema, dovuta sia alla relativa libertà da parte dei linguisti di area germanofona nell’attribuire a questa etichetta valori spesso differenti, sia ad una questione prettamente terminologica (accanto alla Varietätenlinguistik convive, infatti, in ambito germanofono la “Variationslinguistik“ o “linguistica della variazione“), oltre che per una più approfondita disamina sugli studi condotti sulla variazione linguistica, (cfr. Sinner 2014).
Per un approfondimento sul carattere sociale dell’uso del linguaggio, cfr. Lepschy 1996, 139-143.
L‚influenza sociale sulla realtà linguistica si riflette ad esempio sia nello status attribuito dai parlanti a determinate varianti che in quello attribuito dalla società stessa a determinate varietà di lingua o lingue (Krefeld 2016, 262); sul ruolo attivo dei parlanti in quanto agenti sociali nella standardizzazione dell’italiano, come esempio di influenza sociale sulla lingua, invece, cfr. Serianni 2006 e Berruto 2007.
Non presentando alcuna differenza strutturale rispetto alla ‚lingua italiana‘ (D'Agostino 2007, 69), i dialetti presenti sul territorio italiano non devono essere considerati come “varietà locali della lingua nazionale, né tantomeno [come] deformazioni o correzioni di questa [in quanto] proprio come l’italiano letterario – costituitosi anch’esso sulla base di un dialetto (il fiorentino trecentesco) – e come le altre lingue e i dialetti romanzi, [essi] derivano dal latino volgare e hanno dunque, dal punto di vista storico-linguistico, la stessa dignità della lingua“ (D'Achille 2003, 13). La distinzione operata tra dialetto e lingua sarà allora di tipo esclusivamente sociale e dipenderà dal prestigio linguistico di cui i due sistemi godono presso i parlanti (D'Agostino 2007, 69).
Per un ampio approfondimento sulla situazione italo-romanza pre-unitaria, si rimanda qui al fondamentale “Storia linguistica dell’Italia unita“ di Tullio De Mauro (1986), oltre che a Bruni (1984, 81-172); tuttavia, vale la pena ricordare qui brevemente che “prima dell’Unità, l’italiano al di fuori della Toscana (dove lingua e dialetto sono sempre stati in rapporto di contiguità), era una lingua nota a un numero di persone alquanto ridotto [in quanto] la stragrande maggioranza della popolazione parlava […] uno dei dialetti che si erano formati nella nostra penisola dopo il crollo dell’Impero romano“ (D'Achille 2003, 23).
Uno dei principali fenomeni che portarono gli italiani ad avvicinarsi ad una lingua nazionale è certamente costituito dal processo di alfabetizzazione legato all’obbligo scolastico introdotto dalla legge Casati già nel 1859 (sebbene il tasso d’evasione all’obbligo sia rimasto molto alto almeno sino agli anni Trenta); ma a giocare un altrettanto rilevante ruolo nella diffusione della lingua nazionale furono altresì la crescente industrializzazione e l’urbanizzazione ad essa relativa, fenomeni per i quali le grandi masse contadine si spostarono dalle zone rurali alle città, provocando tra i nuovi e i vecchi cittadini l’esigenza di intendersi in una lingua comune; la successiva promozione della lingua unitaria avvenne parimenti grazie ai mezzi di comunicazione di massa quali i giornali, la radio e, a partire dagli anni Cinquanta, la televisione, “scuola di lingua e di cultura“ grazie alla quale “i ceti diseredati relegati in posizione subalterna dalla scarsa cultura […] imparano a parlare l’italiano e, con l’italiano, imparano com’è fatta la cultura dei cittadini, delle classi dominanti“ (De Mauro 1994, 128). Per un esaustivo e dettagliato approfondimento sul tema, si rimanda al sopracitato De Mauro (1986).
Non per negligenza, ma poiché il focus verte qui sul rapporto tra i due diasistemi maggiori, non affronteremo in questa sede la questione delle minoranze linguistiche presenti sul territorio italiano e delle relative altre lingue ivi parlate. Per una  descrizione sociolinguistica del complesso repertorio italiano plurilingue relativo ad antiche e nuove minoranze, si rimanda a Francescato (1993), D’Agostino (2007) e Krefeld (2016), il quale distingue in tal senso due tipologie di sociolinguistica: quella degli idiomi, la quale comprenderebbe lo studio delle lingue minoritarie e i dialetti; e quella della variazione, inerente, come vedremo, allo studio di specifiche varianti avvertite come marcate dai parlanti, e propria della varietistica (Krefeld 2016, 263).
Con la nozione di ‚repertorio‘ si intende “l’insieme delle lingue, o le varietà di una stessa lingua, e delle loro norme d’uso, impiegate in una comunità“ (D'Agostino 2007, 109); a tal proposito, Berruto definiva il repertorio linguistico italiano medio come un diasistema (lingua nazionale-dialetto) il cui rapporto (sino ad allora definito ‚diglossico, in cui alla varietà alta era rigidamente riservato l’uso scritto e formale; mentre a quella bassa, anche impiegata per la socializzazione primaria e dunque una L1, l’uso parlato informale) rifletteva una situazione di “bilinguismo endogeno a bassa distanza strutturale con dilalìa“, indicando così la compresenza di due lingue e delle loro relative varietà, non strutturalmente troppo diverse tra loro, e non più rigidamente separate rispetto all’ambito d’uso informale, ma “impiegabili nella conversazione quotidiana e con uno spazio relativamente ampio di sovrapposizione“ (Berruto 1993, 5-6).
Al glottologo Giovan Battista  Pellegrini è infatti dovuta la prima basilare quadripartizione delle varietà presenti nel repertorio italiano; essa comprendeva l‘ ‚italiano standard o comune‘, l‘ ‚italiano regionale‘, la ‚koinè dialettale o dialetto regionale‘, ed il ‚dialetto locale‘; da questa quadripartizione presero successivamente il via altri fondamentali approfondimenti ed ampliamenti sociolinguistici alla struttura del repertorio linguistico italiano, caratterizzato dalla dialettica tra italiano e dialetti delle diverse regioni italiane da un lato e la coesistenza tra le “diverse norme di realizzazione di un medesimo idioma“ dall’altro (De Mauro 1977, 124). Per un ampio commento sulle varietà italiane e sulle relative denominazioni offerte dagli studiosi dal 1960 sino al 1987, si veda Berruto (1987); per una tavola sinottica delle diverse classificazioni delle stesse, invece, si rimanda a Berruto (1993, 18;26).
Sebbene essa non goda di uno “statuto teorico autonomo, [e si configuri anzi] come ambito di lavoro orientato in senso empirico, con scopi prevalentemente descrittivi“ (Berretta 1988, 762), Holtus-Radtke sottolineano però in ogni caso la specificità della linguistica delle varietà rispetto alla sociolinguistica: a differenza della sua matrice, infatti, la linguistica delle varietà si occuperebbe di indagare e descrivere anche dei tipi di “Varietäten [,] die nicht [nur] von der Sozialen Determination der Sprache und ihrer Sprecher abhängen“ (Holtus/Radtke 1983, 16).
Come notato da Holtus-Radtke (1983), il termine ‚varietà‘ non era tra l’altro di recente coniazione: Benvenuto Terracini se ne era infatti già avanguardisticamente occupato nei suoi lavori pre-sociolinguistici sulla dialettologia nei primi anni del Novecento, sebbene questi non si concentrassero ancora sul problema della “Systematizität“ del fenomeno, né vi fosse una “fundierte Grundlegung des Varietätenbegriffs“ (Holtus/Radtke 1983, 13-14).
Relativo, dunque, sia ad un intero sistema di lingua che solo ad alcuni tratti specifici presenti all’interno dei sistemi linguistici.
I due sistemi di base sui quali, come sostiene Dardano (1994, 344), si costruisce tutto il repertorio linguistico italiano.
Sui sempre più evidenti limiti della terminologia adottata dalla tradizione germanofona risalente alla quadripartizione delle dimensioni di variazione offerta da Koch/Oesterreicher (1985; 1990), basata sui parametri di ‚immediatezza‘ (o ‚vicinanza‘) e ‚distanza‘ – oltre che sulle conseguenti implicazioni metodologiche rispetto alla linguistica percezionale ad essa connessa – si veda il contributo “Varietà ibride? Che cosa ne pensa la linguistica variazionale“ disponibile sulla piattaforma Lehre in den Digital Humanities (Krefeld 2018).
E in tal senso, reale attuazione della linguistica della parole preannunciata da Ferdinand de Saussure (sul tema, cfr. Raimondi 2009, 15-18; Krefeld 2015).
Iannàccaro spiega, infatti, che “è proprio attraverso la constatazione della variazione linguistica (di qualunque tipo) che il parlante viene a contatto con varietà diverse rispetto al proprio idioletto […] ed è indotto a rifletterci sopra“ (Iannàccaro 2015, 23).
O, nel caso specifico dei test percettivi, nel sapere linguistico dei cosiddetti ‚informanti‘, soggetti sottoposti, ad esempio, all’ascolto di stimoli uditivi registrati dai ricercatori sul campo.
Un elemento “marcato“ è dunque un elemento “provvisto di una marca che lo contraddistingue rispetto alla sua manifestazione considerata, per motivi qualitativi e/o quantitativi, come basica, o normale, o canonica“ (Ferrari 2012, 17); la proprietà di marcatezza/non marcatezza può essere applicata a tutti i livelli dell’analisi linguistica (Ferrari 2012, 17) ed è inoltre spesso messa in relazione con i principi di naturalezza elaborati dalle teorie di morfologia naturale e sintassi naturale, secondo le quali si riterranno non marcati i tratti “cognitivamente più accessibili – ossia più naturali -, che favoriscono la processabilità dell’informazione e la corrispondenza tra la percezione della realtà e la sua rappresentazione linguistica“ (Cerruti 2009, 254).
Per un approfondimento sul tema, si rimanda al volume “Perzeptive Variatätenlinguistik“, a cura di Krefeld-Pustka (2010); oltre che a Krefeld(2015).
Simone (1990) spiega che “le lingue verbali vivono in diacronia, nel senso che si modificano nel tempo […] le manifestazioni di questo mutamento [riguardano ad esempio] la dotazione di suoni di una lingua [,] i significati e le forme delle parole [,] l’organizzazione grammaticale, e così via“ (Simone 1990, 77-78).
Sulla denominazione possibilmente fuorviante di questa varietà – la nozione di “regionale“ non va infatti pensata come corrispondente all’effettiva estensione amministrativa delle regioni d’Italia – cfr. Sobrero (2012, 129-130).
Per un più chiaro approfondimento sul ruolo delle componenti della situazione comunicativa, quali i partecipanti, gli atti comunicativi, i risultati, la cosiddetta localizzazione ecc., si veda Grassi-Sobrero-Telmon (2012, 204-211).
In senso sociolinguistico, il concetto di ‚continuum‘ indica usualmente un insieme composto da un ventaglio di varietà (tra cui si distinguono una varietà alta ed una bassa, ai due poli), i cui confini, nebulosi ed indefiniti, possono sovrapporsi e dissolversi l’uno nell’altro, impedendo una precisa identificazione delle stesse, specie se contigue, da parte della sociolinguistica (Berruto 1987, 27-28); per un approfondimento sul tema, anche rispetto alle obiezioni sollevate sulle implicazioni di questa definizione, si veda Berruto (1987, 27-42).
È ragionevole credere allora che le possibili varianti di una specifica variabile siano riscontrabili ed ascrivibili a diverse dimensioni, e che vadano a costituire – insieme alle altre – quelle che Krefeld (2018) definisce come “varietà ibride“, smentendo, nello specifico, il ragionamento di Koch/Oesterreicher (1990) il cui schema prevedeva che ad ogni dimensione della variazione corrispondesse un numero definito di varietà, a loro volta composte da un preciso numero di varianti.
Entrambi caratterizzati da fenomeni epilettici dai quali la donna era afflitta sin da giovane e a causa dei quali veniva rapportata, secondo la cultura popolare salentina, ad una realtà magica. Nonostante la loro medesima natura, inoltre, la donna ne distingueva superstiziosamente e religiosamente le manifestazioni: ella raccontava infatti di avere voglia di ballare prima di una crisi di tarantismo, e di avere la tendenza a dimenarsi per terra durante le crisi epilettiche di San Donato (Rossi 1994, 80-85).
“La scrittura parla di sé insieme a qualunque altra cosa di cui parla: essa si costituisce su proprie peculiarità di codificazione dell’esperienza, di forma di rappresentazione, di lingua, di temporalità e spazialità, di costruzione dell’interlocutore“ (Apolito 1994, 13).
“La donna ha frequentato solo la prima elementare, ma è in grado di esprimere per iscritto quanto vuole comunicare; le sue lettere presentano grossolani errori di grammatica, e sono quasi totalmente sprovviste di punteggiatura“ (Rossi 1994, 79).
Circa questo termine, D’Achille precisa che l’aggettivo semicolto (successivamente adottato, come vedremo, per indicare i soggetti interessati dal fenomeno linguistico scritto dell’italiano dei semicolti) rifletteva sia una chiara differenziazione rispetto ai termini colto ed incolto, sia una maggiore specificità rispetto alla serie terminologica assieme alla quale esso sarebbe potuto essere semplicisticamente associato: semianalfabeta, semialfabeta, semincolto; secondo D’Achille, infatti, questi ultimi sarebbero stati da collocare in un gradino più in basso rispetto al semicolto propriamente detto, in quanto “[in]capaci di servirsi dello scritto [né] per usi funzionali e pratici […], [né] per fini latamente espressivi“ e, al limite, in grado di “apporre la propria firma o poco più“ (D'Achille 1994, 42-43). Accanto alla designazione di semicolto, il linguista propone invece di apporre i termini poco colto, mediocolto, o semiletterato, in ogni caso da collocare su gradini intermediamente diversi, data la differente e non rigida caratterizzazione culturale dei soggetti semicolti (D'Achille 1994, 42-43).
Per un’approfondita, diversa argomentazione, ovvero sulle debolezze dell’originaria visione unitaria dell’italiano popolare, almeno per quanto riguarda gli elementi linguistici e non contenutistici espressi in questo tipo di lingua, si rinvia almeno a Berruto (1987, 108-110).
Basti pensare che a distanza di ottant’anni, ancora tra il 1951 ed il 1955, solo il 18% della popolazione italiana impiegava l’italiano, sebbene in forma ancora artificiosa e pomposa, poco spontanea; il 20% era invece dialettofono, mentre la restante percentuale si muoveva in un limbo linguistico diglossico, impiegando la lingua italiana in situazioni estremamente formali ed il dialetto nella quotidianità, data la sua “efficacia espressiva“ (De Mauro 1994, 117).
La necessità delle masse di “mettere da parte i rispettivi dialetti, cominciando ad usare, per intendersi, gli elementi di lingua italiana a loro noti“ si manifesta inoltre con le prime associazioni di lavoratori postunitarie e con lo svilupparsi dei primi canti sindacali e di protesta, come ad esempio il Canto degli scariolanti: questi erano infatti caratterizzati da un vocabolario semplice, in cui affioravano anche degli elementi dialettali, unito ad una certa “oscurità sintattica“, e, a livello grafico, ad un abuso delle maiuscole; altro elemento evidenziato dal linguista è la “brusca rottura stilistica“ o l’alternanza tra forme popolari e forme auliche, allora ancora persistenti a causa della forte influenza dell’opera lirica ancora sentita, il cui influsso viene paragonato da De Mauro con quello esercitato dalla televisione negli anni Cinquanta e Sessanta (De Mauro 1994, 118-121).
Il primo conflitto mondiale costrinse i soldati a misurarsi con una dimensione del tutto nuova: come spiega Glauco Sanga, infatti, i contadini non avevano mai avuto sino ad allora la necessità di avvicinarsi allo strumento culturale della scrittura, in quanto “la diffusione dell’italiano avveniva per via orale o, al più, attraverso la lettura [e] tradizionalmente in paese c’era sempre qualcuno delegato a scrivere: il parroco o il segretario comunale o un paesano colto(Sanga 1984, 173) tutt’altra situazione si presentava invece in trincea, in cui i contadini ormai soldati dovevano necessariamente confrontarsi a tu per tu con penna e carta. Tra le motivazioni che spinsero alla scrittura, ricordiamo infatti la necessità di rassicurare le famiglie sulle proprie condizioni di salute, oltre che la possibilità, nel caso dei prigionieri di guerra, di “allontanare l’incubo del rientro al fronte e della possibile morte in trincea; [di] esprimere un’autentica sofferenza psichica; [di] sottrarsi allo stigma della follia e all’istituzione, fortemente autoritaria, del manicomio; [di] tentare di rimediare a una situazione angosciante con la richiesta (nelle lettere al direttore) di ottenere la documentazione necessaria per un sicuro rientro a casa“ (Testa 2014, 101).
Come spiega Cortellazzo, una rivalutazione delle testimonianze “dal basso“ poté avvenire solamente nel secondo dopoguerra, con una rinnovata volontà politica d’opposizione alla “cultura egemonica fra le due guerre [la quale] non tollerava che, accanto alla cronaca ufficiale, linda nella forma, spesso retorica e falsa, trovasse posto la cronaca degli altri, dei protagonisti sottoposti e, infine, sopportanti il maggior peso di ogni avventura sociale“ (Cortellazzo 1972, 19).
Come spiega Lorenzo Renzi nell’introduzione alla raccolta epistolare di Leo Spitzer, questo lavoro era sino ad allora sconosciuto ai più ed i “i filologi e gli studiosi di italiano popolare ne parlavano, ma più per sentito dire che per conoscenza diretta“ (Renzi 1976, VII)).
Diversi sono i capitoli dedicati nell’opera ai dissimulati tentativi di richiesta di provviste e viveri da parte dei prigionieri a parenti e familiari. Se le lamentele sulle misere condizioni dei prigionieri avessero raggiunto l’Italia, questo avrebbe potuto costituire un ulteriore possibile movente per la continuazione dell’offensiva nel conflitto mondiale, e i prigionieri ne erano consapevoli. Sugli originali espedienti linguistici da questi ultimi adoperati per descrivere il concetto di “fame“ al fine di sfuggire all’occhio pressante della censura austriaca, si veda inoltre l’importante lavoro linguistico del filologo Spitzer sulla lingua popolare, Die Umschreibungen des Hungers im Italienischen[Le circonlocuzioni impiegate per esprimere la fame in italiano] (supplemento alla “Zeitschrift fuer romanische Philologie“, Niemeyer, Halle 1920), pubblicato un anno prima delle Lettere, lavoro in cui lo studioso mette in luce le diverse colorite strategie linguistiche impiegate per aggirare l’ostacolo della censura, il cui sguardo si era “acuito per le lamentele causate dalla fame“ e aveva comportato un “raffinamento dei metodi d’indagine impiegati“ dai censori (Spitzer 1976, 10).
Facciamo qui riferimento a tre atteggiamenti linguistici riguardanti l’alternanza del codice tra italiano e dialetto, possibili in un contesto bilingue qual era e qual è tuttora quello italiano: il code-switching o commutazione di codice, il code-mixing o enunciato mistilingue, e il tag-switching anche conosciuto come commutazione extrafrasale (D'Agostino 2007, 144; D'Achille 2003, 179). Il code-switching, ossia il passaggio funzionale da un idioma ad un altro nello stesso enunciato, viene operato consapevolmente dal parlante in base alla situazione comunicativa in cui egli si trova ed è altresì condizionato da motivazioni sociali e “identitarie“: esso dipende, infatti, sia dal prestigio sociale che lo standard riveste nella situazione comunicativa rispetto al dialetto, percepito come varietà diastraticamente “bassa“ (D'Agostino 2007, 118), sia dalla forza identitaria delle diverse varietà, in questo caso di quella dialettale, come fattore attivo di riconoscimento dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale e linguistico (D'Agostino 2007, 118); nel caso delle lettere analizzate da Spitzer, però, l’impiego del dialetto assume spesso il valore di “codice dell’intimità“ dovuto alla necessità di sfuggire agli occhi attenti della pressante censura operata dai censori sulle missive (Spitzer 1976, 107). Il code-mixing, ovvero il mescolamento non funzionale di più idiomi all’interno di una stessa frase, è, al contrario, un fenomeno non intenzionale, dovuto alle incertezze del parlante dialettofono e in particolare alla sua approssimativa conoscenza della lingua italiana (D'Achille 2003, 179). Il tag-switching, invece, si caratterizza per l’inserimento di elementi isolati quali interiezioni, riempitivi ecc. all’interno dell’enunciato (si pensi, ad esempio, alla funzione ludica del dialetto espletata tramite l’inserimento di questi ultimi elementi nella comunicazione colloquiale, specie giovanile).
È bene, tuttavia, sottolineare che per questioni legate alla censura, lo stesso Spitzer non fornì informazioni sugli scriventi, di cui non si conoscono certo i nomi, ma neppure l’età, né l’effettivo grado d’istruzione (si noti, inoltre, che non tutte le lettere raccolte dal linguista presentano lo stesso grado di competenza linguistica: alcuni mittenti risultano essere nettamente più colti di altri, o per meglio dire, meno “incolti“ di altri, nonostante lo sforzo dello studioso di creare un corpus il più possibile omogeneo a livello socio-culturale); in base al contesto, nondimeno, è spesso possibile rintracciare alcuni indizi che aiutino, pur limitatamente, a ricomporre il puzzle diastratico dello scrivente.
Qui De Mauro faceva sarcasticamente riferimento all’azione soffocante del “greve rullo dell’italiano scolastico“ (De Mauro 1994, 134), che a poco servì – a suo avviso – nell’educazione al “pieno e libero possesso della lingua italiana“, e che invece, “per la debolezza delle sue strutture, anzitutto, poi per l’impreparazione linguistica del personale insegnante […] ha svolto un’azione di indebolimento dei dialetti [esercitando] un’azione di repressione del parlato piuttosto che di addestramento all’uso e scritto e parlato e colloquiale e formale della lingua“ (De Mauro 1994, 136).
Come spiega Berruto, anche Tatiana Alisova si era per esempio già occupata nel 1965 della struttura della frase relativa del cosiddetto “italiano popolare“ sovrapponendo, tuttavia, questa definizione alla dimensione parlata e colloquiale della lingua, e creando così una prima ambiguità tra la definizione di “italiano popolare“ e quella di “italiano parlato colloquiale“ (Berruto 1987, 105).
Oltre a Lettere di una tarantata (1970) di Annabella Rossi, infatti, si ricordano, ad esempio, il romanzo autobiografico Una donna di Ragusa (1957), di Maria Occhipinti, donna siciliana di umili origini; Quaderno (1958), diario di Alfonso Muscillo, usciere di una biblioteca romana; il Diario della grande guerra (1961) di Francesco Giuliani, pastore abruzzese. Per un ulteriore approfondimento sui testi semicolti pubblicati in questo periodo e su quelli presi in esame dagli studiosi, si rimanda a Sobrero (1975, 108, note 5 e 6); D’Achille (D'Achille 1994, 43-45, note 18-24; 28).
Le difficili circostanze storiche presenti nella storia linguistica italiana hanno influito, secondo Fresu (2016), sulla tipologia testuale in cui i testi semicolti si sono sviluppati nel tempo, tra cui si annoverano: “testimonianze provenienti dal o indirizzate al fronte“, sotto forma di lettere, ma anche nelle urgenti espressioni del sé riscontrabili in diari, memorie, taccuini di guerra; anche il fenomeno migratorio ha prodotto diverse produzioni epistolari, oltre che produzioni su cartolina o lettere indirizzate dai migranti ai giornali (Fresu 2016, 335-336). Per un approfondimento sugli ulteriori generi testuali interessati dalla scrittura dei semicolti, cfr. Fresu (2016, 335-339).
Radtke fa qui però notare come questa definizione non sia sufficientemente caratterizzante o esclusiva di questa varietà, in quanto parimenti applicabile all’italiano regionale (Radtke 1979, 44).
“In questa chiave possono quindi essere letti anche i pesanti tratti di interferenza del substrato dialettale che svolgono il ruolo della lingua materna nella varietà di apprendimento“ (D'Agostino 2007, 127).
Si parla di fossilizzazione quando la conoscenza della lingua di un individuo si blocca ad un determinato stadio senza possibilità di progressione (D'Agostino 2007, 83).
D’Agostino fa inoltre notare come questa varietà non sia allo stesso modo accostabile neanche all’italiano tipico delle produzioni dei bambini appartenenti alle prime classi delle elementari, nonostante esse presentino sovente caratteristiche simili a quelle dei testi semicolti. Parrebbe infatti poco ragionevole far rientrare queste ultime sotto l’etichetta dell’italiano popolare, in quanto gli specifici tratti di cui sopra vengono presto superati dai bambini nelle successive fasi di apprendimento scolastico, cosa che, come detto, non avviene nei parlanti di italiano popolare (D'Agostino 2007, 127).
Tra le fonti andate poi a creare il corpus analizzato da Cortellazzo vi erano: lettere di soldati e prigionieri di guerra durante il primo conflitto mondiale, caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale; lettere di altra provenienza quali quelle di emigrati friulani, o esempi come quello di Anna del Salento; memorie autobiografiche di diversa provenienza, quali ad esempio memorie di contadini lucani, di sottoproletari lombardi, o di banditi siciliani; testimonianze di diversa natura e di diversa provenienza, quali documenti di soldati processati durante la prima guerra mondiale,  o di emigrati a Milano; compiti scolastici di diversa provenienza (Cortellazzo 1972, 19-20)
Oltre a suggerire l’idea di “una varietà sovraindividuale“ (Krefeld 2016, 267).
Con la nozione di diglossia (Ferguson 1959) si intende la compresenza su un determinato territorio linguistico di due sistemi di lingua ai quali la comunità di parlanti attribuisce un diverso prestigio sociale, tale per cui uno dei due idiomi sarà considerato come varietà ‚alta‘ e di maggiore prestigio; mentre l’altro verrà connotato come varietà bassa, più informale e non adatta a contesti “alti“. È importante notare che i contesti d’uso dei due idiomi saranno rigidamente separati: alla varietà alta spetteranno i contesti formali, mentre quella bassa sarà impiegata per domini ordinari, propri della vita quotidiana (D'Agostino 2007, 77-78). Come visto in capitolo 3, però, la situazione italiana non è più ascrivibile a questo concetto: si parla oggi infatti di dilalìa ossia una condizione in cui i contesti d’uso delle due varietà A e B sono mutati: in un contesto dilalico quale quello odierno, infatti, entrambi gli idiomi, dunque sia quello “alto“ che quello “basso“, possono essere impiegati in contesti informali e colloquiali (D'Agostino 2007, 79).
Anche i due studiosi notavano, nella loro analisi, la forte influenza del dialetto su questa varietà, ed individuavano le maggiori interferenze tra parlato e scritto sul piano grafico, il cui uso non ha “riscontro sul piano del parlato, ma è insegnato a scuola“ (Sobrero 1975, 110): si segnalava dunque la presenza di doppie o scempie, là dove non sarebbero state previste, così come la poca padronanza delle regole relative all’interpunzione, agli accenti, agli apostrofi, all’uso di lettere maiuscole o minuscole, oltre che una difficoltà nella percezione dello spazio tra le parole, con i conseguenti fenomeni di agglutinazione o deglutinazione (in contro); dal punto di vista morfosintattico, frequente era l’errato accordo tra soggetto e verbo o tra sostantivo e aggettivo, dipeso dal fatto che lo scrivente si basasse su concordanze ad sensum (Sobrero 1975, 113), e ancora pleonasmi nell’uso dei pronomi (alla mamma le era piaciuta) così come l’uso di gli nelle forme oblique del femminile e del plurale, l’uso del ‚che polivalente‘, la coordinazione preferita alla subordinazione (Sobrero 1975, 113). Il  ‚modello‘ scolastico avrebbe operato meno, invece, a livello lessicale il quale, però, essendo connesso alla nuova realtà del mondo sociale, del lavoro, della televisione, portava ad una riduzione della presenza di termini dialettali; allorquando ve ne fossero stati, Sobrero parlava di una “consapevole scelta linguistica“ facendo riferimento a fenomeni rapportabili al bilinguismo, quali il commutamento di codice, oggi conosciuto come code-switching (Sobrero 1975, 115).
“Se si badasse solo alla morfosintassi, l’italiano popolare sarebbe fondamentalmente unitario“ (Berruto 1987, 109, nota 7), in quanto livello di analisi in generale meno soggetto alla differenziazione da area ad area (Berruto 1987, 109). Su questa tesi non concorda Mengaldo (1994) il quale, prendendo ad esempio l’accusativo preposizionale preceduto da a, spiega che tale fenomeno sarà sempre e solo fenomeno meridionale e mai settentrionale, se non eventualmente per motivi altri dall’affioramento dialettale. Per questa ed altre tesi contro l’unitarietà morfosintattica dell’italiano popolare, cfr. Mengaldo (1994, 109-110).
Bisogna altresì tenere presente, come ricorda Cerruti (2009), che ‚‚l’univocità di risultati a cui conduce in certi casi l’azione del sistema dialettale in regioni differenti è tale o perché, semplicemente, sono consimili le forme o le strutture di sostrato trasposte in italiano o perché l’effetto del contatto tra due codici è analogo in quanto rispondente allo stesso tipo di meccanismi“ (Cerruti 2009, 35); i tratti sovraregionali dell’italiano popolare, invece, possono essere riconducibili o a tratti tipici della testualità del parlato, o appunto a “tendenze e possibilità panromanze latenti in italiano“, tratti che facilmente si riflettono anche nell’italiano regionale (Cerruti 2009, 35), come ad esempio quello della ’semplificazione‘,  un meccanismo linguistico che avviene quando “a una certa forma (o struttura) di una lingua si contrappone una forma o una struttura più semplice, cioè più facile da realizzare, meno complessa, che può sostituire la prima senza che si perdano le informazioni essenziali contenute nel messaggio“ (Sobrero/Miglietta 2011, 175).
“Statisticamente, l’insieme di tratti che caratterizza in maniera più o meno netta e ‚densa‘ questa varietà tende a presentarsi presso parlanti diseredati culturalmente, presso le cosiddette classi subalterne scarsamente scolarizzate e poco/non colte [;] il carattere di ’sociale‘ è insomma netto se lo inquadriamo nei parametri di classificazione di varietà della lingua […], ma, come del resto è da supporre in generale per quanto riguarda le relazioni tra varietà di lingua e utenti, non è affatto deterministico“ (Berruto 1983, 87).
Non è del tutto facile distinguere con chiarezza “ciò che è popolare da ciò che è meramente informale e colloquiale“ (Lepschy 1989, 30); dal punto di vista morfologico e sintattico, ad esempio, sono diversi i tratti che le due varietà condividono: concordanze devianti, ridondanze pronominali, impiego del che polivalente, concordanze ad sensum; topicalizzazioni e riprese enfatiche (Berruto 1983, 93).
Parliamo qui dunque di eventuali tratti appartenenti a varietà diatopiche e diastratiche marcati anche diafasicamente, e non delle varietà in toto, le quali difficilmente possono “rappresentare esse stesse varietà marcate in diafasia“ (Cerruti 2009, 35).
Incertezza continuamente “soggetta a pressioni d’ogni tipo: dall’italiano aulico ai linguaggi settoriali al dialetto“ (Sanga 1984, 15). Sulla funzione dell’incertezza della norma, si noti, inoltre, come questa contribuisca “alla formazione di un uso instabile e fluttuante, al cui interno si vanno comunque delineando delle cristallizzazioni (sempre soggette a possibili regressioni) che, per ampiezza di diffusione, tendono ad imporsi agli italiani regionali ( e di qui allo standard)“; secondo Sanga, e successivamente Berruto, l’italiano popolare risulta come il “maggiore centro di innovazione linguistica della lingua italiana“.
Si rimanda qui al modello delle varietà di italiano proposto da Sabatini (1985), in cui si propone un italiano standard in opposizione all‘italiano comune, così come la coppia italiano regionale delle classi istruite e italiano regionale delle classi popolari (o semplicemente italiano popolare). Una simile suddivisione varrebbe inoltre anche per il sistema linguistico dialettale, nel quale si riconoscerebbero un dialetto regionale/provinciale ed un dialetto locale (Sabatini 1985).
Berruto propone inoltre di vedere all’interno dell’italiano popolare stesso una “piccola gamma di sottovarietà“, facendo distinzione tra un italiano popolare ‚basso‘ e un italiano popolare ‚medio‘, meno marcato e con minori interferenze dialettali (Berruto 1987, 114-115).
Usi in cui “vengono specialmente in primo piano tratti che in una corrispondente formulazione orale sarebbero del tutto inosservati, anzi invisibili“ (Berruto 2014, 280).
L’italiano popolare orale si caratterizza manifestamente nella pronuncia regionale “marcata verso il basso“ (Sobrero/Miglietta 2011, 101), ma anche per le false partenze, per le frequenti riformulazioni, per i generali cambi di progettazione nell’organizzazione testuale con le conseguenti correzioni e ripetizioni, e ancora, per i passaggi dal discorso diretto all’indiretto e per l’uso improprio delle forme al congiuntivo e al condizionale, oltre che per gli anacoluti e le topicalizzazioni; come ancora indicato da Sobrero-Miglietta, dal punto di vista morfologico, esso è caratterizzato dalle concordanze a senso e dalle ridondanze pronominali (tratti, come visto, spesso presenti nell’italiano colloquiale), ma anche da semplificazioni nominali e verbali, scambi di preposizione ecc; il lessico, invece, è ricco di termini generici (affare, cosa, coso, roba), ed è forte la tendenza ad inserire nel discorso espressioni e termini appartenenti alla sfera della burocrazia o termini aulici e tecnici, finendo però per storpiarli sul piano del significante, e risultando nei cosiddetti malapropismi, come vedremo nel capitolo 6 (Sobrero/Miglietta 2011, 100-101). Tutti questi fenomeni tipici dell’oralità si rivelano importanti per la nostra trattazione in quanto coerentemente trasposti nello scritto (Sobrero/Miglietta 2011, 100).
Sulla questione della possibile collocazione temporale dell“’Ur-italiano popolare“ e sulla nascita delle prime scritture semicolte propriamente dette rispetto alla normalizzazione grammaticale bembiana Cinquecentesca e pre-cinquecentesca, oltre che sulla separazione tra scritture proprie della varietà “alta“ e scritture riconducibili alla varietà “medio-bassa“, si vedano i critici lavori di Berruto (1987, 112-113) e Testa (2014, 21-24), oltre che il fondamentale lavoro di D’Achille (1994, 49-52; 57-65) ed i lavori di Valenti riguardanti questa varietà nel contesto cinquecentesco specificatamente siciliano (Valenti 2015, 533-542). A tal proposito, data la cospicua presenza di una parte dei tratti sub-standard nell’italiano popolare, concordemente con Bruni, Berruto sostiene che l’italiano popolare abbia offerto “una gamma di possibilità presente nell’italiano degli inizi, poi esclusa dalla codificazione bembiana della norma letteraria [e ricomparsa] con vigore quando una massa prima inesistente di parlanti non colti si è appropriata di una varietà di italiano“ (Berruto 1987, 113).
Dall‘Appendix Probi, una lista contenente 227 “errori di lingua“ evidentemente ben radicati nell’ambiente romano del primo secolo, che il grammatico Marco Valerio Probo tentò di correggere, al Satiricon di Petronio, testo contenente la nota Cena di Trimalchione, passaggio rappresentativo della compresenza di diversi stili impiegati dall’autore per distinguere socialmente i propri personaggi e volutamente rivelatore di una lingua “altra“, non rientrante nelle categorie normative imposte dal latino classico, fino ad arrivare all‘Itinerarium Egeriae, testo autobiografico ben lontano dal latino classico e improntato sul parlato dell’autrice, la pellegrina romana Egeria (Bruni 1984, 175-189).
Sulle drammatiche dinamiche che mossero gli scriventi semicolti alla scrittura durante la prima guerra mondiale, cfr. (Fresu 2015).
Cogliamo qui l’occasione per una dovuta precisazione sulle modalità di traduzione adottate nella nostra trattazione: le traduzioni da noi proposte vogliono anzitutto essere strumento per la globale comprensione semantica dei testi analizzati. Nonostante si sia tentato, infatti, in un primo momento, di mantenere almeno una certa aderenza morfologica e sintattica al testo originale, si è reso subito chiaro come ciò avrebbe inevitabilmente portato ad incomprensioni e malintesi, già presenti negli originali, anche all’interno delle traduzioni stesse. Di conseguenza, si è scelto di tradurre le intere lettere ed i frammenti presi in esame rendendoli il più possibile coesi e coerenti, laddove possibile, ai fini del nostro lavoro. Nostre sono anche le traduzioni in italiano dei singoli termini dialettali riportati nelle traduzioni, eccetto dove diversamente specificato; e a tal proposito, è doveroso ricordare che siamo consapevoli del fatto che altri studiosi, specie se di origine siciliana e provenienti da zone dell’isola diverse rispetto alla nostra, potrebbero riscontrare delle incongruenze (fonetiche, morfologiche, lessicali) tra la varietà qui riportata e la varietà da loro stessi parlata. È quindi fondamentale ribadire che i termini dialettali siciliani riportati nell’analisi sotto la voce “sic.“ non hanno la pretesa di essere riconosciuti come rappresentativi di un ipotetico siciliano standard: essi sono forme e termini facenti invece parte della varietà di siciliano parlata nel paese di Galati Mamertino, alla quale ci rifacciamo.
Sono aspetti questi che ben conosciamo, in quanto a noi raccontati in prima persona più e più volte nel corso degli anni.
Da diversi anni, la moglie di Peppino è a letto, a causa della demenza senile. Ella non parla, né pare recepire le parole dei familiari. Ciononostante, Peppino le porta ogni giorno un fiore raccolto nel giardino di casa, parlandole e rassicurandola sul bene che le vuole.
<<Siccome sono una persona che vuole sempre lavorare, scrivo ancora e mi piace tanto e per questo non mi non voglio smettere di scrivere, e così passa il tempo senza che ce ne si accorga, se no mi potrei mettere a dormire [il pomeriggio], però poi la notte non dormirei. Ed è per questo che non voglio dormire durante la bella giornata, e poi ve lo leggerò, questo bello scritto>>.
E ancora, durante i quotidiani colloqui con la famiglia, Peppino declama di essere, metaforicamente parlando, un professore, tanto è il suo sapere.
Sebbene le scuse per la propria scrittura siano presenti nella produzione di Peppino, abbiamo notato come queste vadano nel tempo via via scemando, rivelando la sicurezza dell’uomo, sviluppatasi con l’esercizio della stessa, nei confronti del testo scritto.
È qui inoltre interessante notare come, durante la lettura ad alta voce delle lettere e dei pensieri scritti, se da un lato Peppino legge effettivamente quanto trascritto, dall’altro va un po‘ a memoria, iniziando a pronunciare le prime sillabe, saltando alcuni caratteri o direttamente alcune parole, ma completando ugualmente la frase ed il pensiero ricordando quanto scritto, in quanto gli episodi narrati da Peppino nel nostro corpus costituiscono in gran parte una sorta di repertorio di eventi e narrazioni che l’uomo ha sempre condiviso oralmente con le figlie e la famiglia nel corso della sua vita. Avendo usufruito „in anteprima“ delle eventuali spiegazioni fornite da Peppino sulle proprie produzioni, le figlie dell’uomo hanno potuto aiutarci a sciogliere alcuni punti per noi di difficile comprensione o generalmente oscuri.
Data la distanza fisica che intercorre tra chi scrive e Peppino, non è stato possibile inoltrare il questionario di persona a Peppino; esso è stato bensì inviato alle figlie dell’uomo, le quali si sono occupate di raccogliere ed inviarci la risposta. Anche a motivo di ciò, non è stato possibile seguire passaggio per passaggio il processo di risposta al questionario, che non potremo perciò descrivere nel dettaglio.
<<Io Sono Nato a Galati Mamertino nel 1931 e sono nato il 24 e mi hanno dichiarato [all’anagrafe] il 25. Io ho fatto solo la terza elementare e avevo circa 9 o 10 anni, e poi a 14 o 15 mi sono fatto la scuola serale e [il maestro] ci faceva fare anche le lettere per la fidanzata. Io a 16 anni sono andato a zappare [sic. zappuliare] il grano e poi io, per evitare di venire a Galati sono rimasto ad aiutare le mie zie a Troina. E Io ho fatto sempre il contadino, come i miei cari genitori, tranne quando ho fatto il militare a Casale Monferrato e poi sono andato ad Alessandria. C’è stato un soldato che mi ha chiesto: «Fazio, ma tu come hai imparato a parlare italiano?» e Io gli ho detto: «Così come mi parlano, io rispondo. Se no, se io parlassi loro come [parlo] nel mio paese nessuno mi potrebbe capire». E poi quando sono tornato a  casa, dopo dieci mesi, mi rallegravo di parlare in italiano e adesso posso parlare con tutti come mi piace. E quando scrivevo a casa, scrivevo in italiano e io quando nella busta mettevo cinquecento lire, la mia cara mamma era analfabeta e correva per aprire la busta e mio padre, che sapeva scrivere e leggere, le diceva: «perché corri se non sai leggere?». Il mio caro papà ha trovato tre soldi e si è comprato il quaderno e con un solo soldo una matita [sic. lapis] e se n’è andato a scuola e il suo caro papà ha detto [parlando con il maestro]: «a mio figlio non c’è bisogno che gli insegni [le varie cose che si insegnano a] scuola. Gli deve solo insegnare [sic. imparari] l’educazione». E allora il mio caro padre ha pensato: «ma allora io che cosa sono? Un animale?» e allora, da allora [sic. di tannu] in avanti è diventato un bravo bambino e poi anche una bravissima persona e diceva che le persone brave possono stare in tutte le società civili. Io parlo come mi piace però, quanto allo scrivere non si può scrivere in dialetto: si deve scrivere per forza in italiano>>.
Utilizzando le domande del questionario come una griglia da cui partire per costruire una produzione, eludendo, però, diverse delle stesse.
Pur non preoccupandosi però di spedirle: esse sono infatti serenamente conservate nei quaderni e solo qualora si presenti l’occasione, vengono mostrate agli interessati. In ogni caso, però, bisogna notare come Peppino non ponga mai all’interlocutore delle domande che prevedano delle risposte dal destinatario, come a segnalare, a livello inconscio, di sapere già che questi non riceverà la lettera.
A proposito del genere epistolare, Fresu (2008) ritiene, inoltre, che la “dialogicità a distanza“, tratto proprio del genere della lettera vada a giustificare “i cedimenti verso una pianificazione arcorata all’oralità e sfumata in toni familiari e informali“, nelle scritture semicolte.
A tal proposito si segnala la presenza di cosiddetti “doppioni“ nei nuclei tematici, come accade nelle produzioni di Tommaso Bordonaro, siciliano semicolto classe 1909, emigrato in America; come spiega Amenta (2012, 737), con il passare del tempo, Bordonaro pare avere dimenticato di avere scritto ed inviato le proprie produzioni al professore che ne curava le edizioni, creando, così, nuove produzioni sugli stessi temi già trattati. Anche le produzioni di Peppino presentano, come detto, più volte gli stessi argomenti; tuttavia, pare che questo sia non tanto da ricondurre alla memoria dell’uomo, che pure certamente potrebbe giocare dei brutti scherzi; quanto all’importanza che per lui queste tematiche rivestono. Per quanto riguarda, al contrario, l’inserimento di veri e propri doppioni di racconti, canzoni e poesie, simili nella forma oltre che nel contenuto, è lì possibile che ciò sia da attribuire al fatto che l’uomo non ricordi di averle già “immortalate“ per iscritto. In ogni caso, la presenza dei doppioni ha talvolta reso più leggero il processo di ricostruzione e traduzione dei testi, spesso a tratti criptici.
Non deve qui stupire la convergenza tra tali discipline, apparentemente lontane tra loro: come fa notare Spina, infatti, uno dei tanti elementi di contatto tra le due sarebbe costituito dal fatto che entrambe si occupano dello “studio di diverse modalità di comunicazione che, in entrambi i casi, avvengono mediante l’uso di codici“ (codifica e decodifica del codice nel passaggio tra parlante-mittente e parlante-ricevente, nel caso delle lingue naturali; codifica in “linguaggio macchina“ delle istruzioni ricevute dall’utente, e codifica della risposta della macchina in un linguaggio comprensibile per l’utente, nel caso degli elaboratori elettronici) per la trasmissione dell’informazione (Spina 2001, 9). Strumenti e metodi visceralmente propri dell’informatica vengono inoltre serenamente utilizzati dalla linguistica: uno su tutti, il parametro della composizione/scomposizione tramite il quale essa opera la segmentazione del continuum linguistico, parametro caro all’informatica che è “per sua natura, basata su tecnologie che permettono di atomizzare oggetti diversi (testi scritti e parlati, immagini fisse e in movimento, suoni), [ e ] di scomporli nella catena di zero e di uno su cui si fonda il codice binario che essa utilizza“ (Ivi: 10). Per un approfondimento sugli ulteriori punti di convergenza e punti di scambio tra linguistica ed informatica, si veda Spina (2001, 9-12).
Come spiega Spina (2001, 7)l’esponenziale evoluzione delle tecnologie informatiche ha permesso di passare dai primi rudimentali “calcolatori elettronici“ diffusisi negli anni Quaranta-Cinquanta ai personal computer sviluppati trent’anni dopo, passando da un iniziale dominio contestualmente ristretto quale quello prettamente scientifico (si pesi a discipline basate sul calcolo quali matematica e fisica) ad una funzionalità eclettica (general purpose) che potesse aprire a diverse operazioni, tra cui spiccano, tra le altre, la conservazione ed il trattamento di informazioni attraverso lo strumento dell‘elaboratore elettronico. Spina individua inoltre le origini teoriche della disciplina nelle menti di filosofi e matematici quali Leibniz, Boole, Pascal e Russell, in quanto lo sviluppo delle nuove tecnologie sarebbe derivato proprio dall’intersezione tra studi di logica e studi matematici (Spina 2001, 8).
Per un approfondimento diacronico sullo sviluppo delle iniziative più rilevanti nel campo degli studi linguistici assistiti da computer, cfr. Spina (2001, 17-29).
È interessante vedere come l’ambito linguistico in cui la linguistica dei corpora trova maggiore applicazione sia quello lessicografico, ambito in cui è possibile operare un celere confronto digitale dei dati; nel caso della sintassi, al contrario, l’analisi linguistica del dato testuale fornito dal corpus non è sufficiente, in quanto è necessario contestualizzare le connessioni sintattiche tramite l’aggiunta di ulteriori informazioni ad opera dell’uomo stesso (Spina 2001).
A tal proposito è bene sottolineare la presenza di alcune annotazioni trascritte dalle curatrici del materiale sulle copie originali delle produzioni dell’uomo, circa la data di stesura delle stesse (prevedendo di spedirle o tentando, talvolta, di ordinarle cronologicamente), o sotto forma di delucidazioni rispetto al pensiero – o alla scrittura stessa – a tratti poco cristallino del padre, nella previsione, nel caso delle lettere, di farle leggere con più scorrevolezza agli interessati. Si potrebbe pensare che queste vadano a confondersi con le note apposte dallo stesso scrivente e a compromettere il lavoro di ricerca, ma in realtà gli interventi da parte di terzi sull’originale si distinguono sensibilmente dalle annotazioni dello stesso Peppino: le due tipologie di correzione o intervento sono infatti visibilmente diverse e ben riconoscibili per calligrafia, colore dell’inchiostro e carattere impiegato, in quanto Peppino non sembra conoscere altro carattere che il corsivo minuscolo, mentre le figlie impiegano di norma lo stampatello maiuscolo o, al limite, un corsivo minuscolo con una calligrafia comunque inequivocabilmente non attribuibile a Peppino.
In tal senso si è fatto riferimento alla metodologia di raggruppamento per tema seguita da Leo Spitzer nell’edizione delle Lettere di prigionieri di guerra italiani (1915-1918), nella quale il linguista analizzò le specificità delle lettere raccolte in 23 diversi capitoli a cui aveva dedicato una specifica tematica ricorrente nelle produzioni: la lontananza, l’attesa della pace, le richieste di denaro e vestiario sono solo alcuni dei diversi temi che più si riproponevano nello scambio epistolare contenuto in questa edizione.
Si è qui reso necessario impiegare una tripla barra obliqua al fine di distinguerla sia dalla singola barra obliqua da noi regolarmente inserita nei testi riportati per segnalare il tornare a capo di Peppino, sia e dall’effettivo inserimento operato dall’uomo di una sbarra obliqua nel riportare una data, in 8.3.1-VIII: “11//12//2182018“.
La lettera che presenta questo fenomeno è difatti quella che aveva più possibilità di essere realmente recapitata al destinatario o, se non propriamente recapitata, quantomeno mostrata alla diretta interessata: stiamo parlando della lettera 8.2-XVI, indirizzata alla parrucchiera del paese. La produzione potrebbe avere subito delle lievi correzioni non solo per volontà di Peppino durante la sua personale rilettura, ma da parte delle figlie. Di conseguenza pare qui corretto sottolineare la possibile non piena attendibilità della specifica correzione effettuata tramite < / >.
Tramite il lavoro di lettura, trascrizione e analisi eseguito in questi mesi sulle produzioni di Peppino, si è avuto modo di sviluppare una comprensione del modus operandi dell’uomo rispetto alla scrittura e alla sistematicità delle soluzioni da lui adottate. Questo ragionamento non vuole dunque avere la deterministica pretesa di conoscere come egli si sarebbe potuto approcciare alla risoluzione del problema dell’inserimento, tra due parole precedentemente univerbate quali sono avoluto <<hai voluto>>, del grafema i dimenticato durante la stesura. È tuttavia opportuno ritenere, data la frequente occorrenza del fenomeno, che in casi come questo Peppino avrebbe inserito il grafema tra le due parole, non curandosi di separarle, come da noi riportato durante la trascrizione su DH.

6. Analisi lettere e frammenti di pensieri di un semicolto siciliano

Abbiamo sin qui discusso di come l’italiano popolare, così come anche l’italiano regionale, in realtà, risenta del sostrato dialettale relativo al territorio in cui il parlante si muove e come questa interferenza si evidenzi anzitutto oralmente sul piano dell’intonazione e sulla pronuncia e, ancora, nella grammatica e nella scelta lessicale, ma di riflesso anche nella scrittura dei semicolti, ossia di chi non dispone di mezzi scrittori “a norma“ forniti dall’istruzione pubblica, o ne dispone in termini ridotti, e tuttavia si cimenta con carta e penna. Ciò si riflette dunque su diversi piani linguistici: il livello grafematico, spazio in cui salta visivamente all’occhio di chi si trovi a leggere le produzioni semicolte la difficoltà dello scrivente nel rendere graficamente diversi nessi consonantici o, come vedremo, luogo in cui la mancata competenza di chi scrive rispetto alle regole di interpunzione si manifesta chiaramente; il livello fonetico, inerente alle realizzazioni scritte che hanno un riscontro nel sistema fonetico-fonologico della lingua in cui esse vengono prodotte, in questo caso nell’italiano popolare di Sicilia – livello strettamente connesso a quello grafematico ma da trattare in un quadro a sé, in quanto, come spiega Mocciaro, bisogna distinguere i “fenomeni puramente grafici dalle trascrizioni connesse con la fonetica“ specie laddove sia possibile “intravedere un rapporto tra resa grafica e realtà fonetica e […] individuare, quindi, oltre le incertezze e le incongruenze grafiche, alcuni tratti della pronunzia soggiacente“ (Mocciaro 1991, 19); il livello morfosintattico, altra area linguistica nella quale si rivela l’interferenza con i tratti dialettali siciliani, oltre che spazio in cui i fenomeni di semplificazione e livellamento operati dai parlanti semicolti si riversano con forza, a causa dell’articolata presenza di tratti e paradigmi di complessa natura poco gestibili dagli scriventi. Altro fondamentale livello linguistico in cui è forte l’interferenza della lingua madre sull’italiano impiegato nella scrittura dei semicolti è quello relativo alla scelta lessicale e alla fraseologia adoperata dagli scriventi, oltre che, come vedremo, all’inserimento di elementi paremiologici quali i proverbi ed i detti popolari. Anche il livello testuale, infine, relativo alle tipologie testuali, alla progettazione e alla stesura del testo, e nel quale intervengono i meccanismi di coerenza e coesione del testo, rappresenta un interessante campo d’analisi.

Basandoci adesso sulle osservazioni presenti nei maggiori studi precedentemente citati e tenendo conto della fondamentale guida linguistica di Ruffino (2001) e, più nello specifico, di Mocciaro (1991) per lo studio delle caratteristiche dell’italiano dei semicolti di Sicilia, tenteremo adesso di addentrarci concretamente nell’analisi e nella descrizione commentata di questi peculiari tratti, riscontrabili anche nell’italiano scritto di Peppino Rocco Fazio. È bene precisare che al fine di non procedere con sterili e noiose ripetizioni che potrebbero tediare il lettore nella descrizione di determinate caratteristiche dei testi trattati, si procederà qui con un’analisi di tipo “esemplare“ di alcune lettere e frammenti di pensieri, carichi di elementi a nostro avviso di interessante natura linguistica, estratti dal corpus online creato durante la stesura della presente tesi; l’analisi non si concentrerà, dunque, sull’intera produzione di Peppino (che pur è resa disponibile nel corpus consultabile online su DH, oltre che nell’appendice della presente), in quanto le lettere e i frammenti scelti per l’analisi contengono tratti rappresentativi della stessa, che inevitabilmente si ripetono nelle diverse produzioni di Peppino. La serie di comportamenti linguistici osservati e messi in evidenza nella nostra trattazione non vuole, inoltre, assumere un carattere assolutistico né prescrittivo, in quanto l’analisi, come detto poc’anzi, si basa su un’osservazione generale dei fenomeni presenti nel corpus, nel personale italiano di Peppino, il quale potrebbe certamente presentare elementi diversi rispetto, ad esempio, all’italiano scritto dei suoi coetanei compaesani.

6.1. Livello grafico-fonetico

Come spiegato da Simone (1990, 76-77), “la sostanza dell’espressione delle lingue verbali è primariamente fonica“. La lingua parlata si fonda, infatti, sulla realizzazione concreta dei suoni, o foni, che l’uomo produce attraverso il proprio apparato fono-articolatorio, e la fonetica è quella branca della linguistica che si occupa dello studio dei suoni linguistici. La dimensione orale della lingua è, però, come più volte ripetuto nella nostra trattazione, connessa al piano scritto: alla potenzialità degli enunciati in lingua di essere trasferiti in un’altra sostanza dell’espressione, pur rimanendo enunciati verbali, secondo il principio della trasferibilità, si deve il fatto che la lingua possa essere trasferita in scrittura, e dunque in una sostanza non più fonica ma grafica (Simone 1990, 76-77). I foni vengono convenzionalmente resi su carta tramite i grafemi, le unità minime dei sistemi di scrittura corrispondenti nei sistemi alfabetici alle “lettere“ (vocali, semivocali, consonanti e semiconsonanti), le quali hanno una diretta corrispondenza con le unità fonetiche della lingua. Così come la fonetica si occupa della produzione dei foni, la grafematica si occupa sia delle relazioni esistenti tra grafemi, sia dello studio di tratti e notazioni grafiche possibili solo in forma scritta ad essa strettamente correlate, ossia dei cosiddetti segni paragrafematici, quali la punteggiatura, che consente di riprodurre graficamente gli elementi prosodici tipici del parlato (pause, ritmo, ecc.), l’uso del maiuscolo e del minuscolo, l’indicazione degli spazi tra una parola e l’altra in funzione segmentatrice ecc., fondamentali indicatori della scansione del parlato e strumenti per la comprensione dell’articolazione sintattica e logica del testo (Cignetti 2011).

Nell’italiano dei semicolti si segnala una certa difficoltà nella resa grafica di questi segni, talvolta dovuta all’interferenza con il sostrato dialettale (livello fonetico), talvolta dovuta alla mancata acquisizione delle norme che regolano l’uso della punteggiatura, ossia “l’ultima cosa che l’allievo impara ad usare correttamente [ed è] perciò naturale che ci si trovi di fronte a scritture prive totalmente di segni di interpunzione e a scritture che ne denunciano un uso arbitrario“ (Sobrero 1975, 111). Vediamo adesso come Peppino affronti il problema della resa grafica nella trascrizione del suo italiano parlato e dei segni paragrafematici nelle sue produzioni.

 

6.1.1. L’interpunzione

Dal punto di vista dell’interpunzione, la produzione di Peppino si caratterizza generalmente più per la mancanza di segni quali il punto, la virgola, il punto interrogativo e il punto esclamativo, che per la loro presenza. Qualora essi siano presenti, però, si nota un uso del tutto personale degli stessi. In tal senso, i frammenti scelti per questo livello d’analisi sono stati appositamente selezionati dal corpus per poter mettere in evidenza tali peculiari usi nella scrittura dell’uomo. Si noti, ad esempio, il frammento di pensiero 8.3.1-I sotto il raggruppamento tematico “famiglia“, in cui Peppino, parlando degli insegnamenti ricevuti dal padre e dal padrino, impiega il punto fermo, il punto e virgola, i due punti, e per ben due volte il punto interrogativo: 

gli omini sidivino inquatro chatogorie / omini menzi omini umigne ĕ quaraqua / midiceva il Bonama di Mio Papà / zanitati un omo vale per quello che / sa senon sa nente chi é nu zudi / chastagnera. é Mio Patrino midiceva / chi bono ĕ bono per tutti ĕ chi ĕ / tinto e tinto per Sesteso; era / Fratello di Mia Mamma: ? questa ĕ la Mia inteligenza?85

Questo passo rappresenta uno dei pochi in cui sembra che si Peppino ricordi vagamente della necessità, appresa a scuola e forse maturata tramite la lettura di opuscoli e riviste, di inserire la punteggiatura nei suoi scritti. È possibile che egli abbia qui tentato di impiegare i segni d’interpunzione durante la prima stesura dello scritto, sebbene sia anche ragionevole pensare che l’abbia fatto durante la rilettura delle sue produzioni, in cui è intervenuto correggendo e apportando piccole modifiche a quanto scritto. Nonostante essi possano apparire come anarchicamente “fuori posto“ e non rispondano alle regole che convenzionalmente vi si riconosce86, questi segni d’interpunzione non sembrano essere stati apposti del tutto casualmente, ma secondo la possibile logica del dividere un pensiero da un altro, attribuendo, però, a qualsiasi segno a disposizione tra la serie presente un valore però arbitrario e rispettando le pause che, nel parlato, ci sarebbero tra un pensiero e l’altro: in quest’ottica, il primo punto fermo al terzo rigo potrebbe volere inconsciamente indicare sia una pausa che una distinzione tra ciò che il padre dell’uomo, da un lato, e il padrino dall’altro lato solevano ripetere a Peppino quando era ragazzo. Anche il punto e virgola al quarto rigo potrebbe assumere lo stesso valore, ossia quello di separare il detto riportato poco sopra dall’osservazione genealogica sul padrino, assumendo la funzione di un punto fermo o di una virgola87, sebbene il suo uso possa effettivamente essere appropriato anche in questo caso. Sembrerebbe azzeccato, invece, l’inserimento dei due punti prima dell’osservazione finale “questa ĕ la Mia inteligenza?“, quasi come se questa fosse conseguenza riassuntiva delle precedenti osservazioni relative agli insegnamenti dei propri cari che hanno contribuito a formare la saggezza (inteligenza) dell’uomo. La presenza del punto interrogativo subito dopo i due punti, però, rende l’interpretazione più complicata e ci porta a fare un passo in avanti: possiamo affermare con una certa sicurezza la tendenza di Peppino ad inserire il punto interrogativo là dove egli vorrebbe in realtà esprimere l’enfasi che normalmente si renderebbe con il punto esclamativo. L’intera produzione di Peppino ne è, infatti, totalmente estranea, mentre è frequente il ricorso al punto interrogativo in luogo di quello esclamativo, come si nota nell’esempio preso in esamequesta ĕ la Mia inteligenza?“, in cui si esclude la possibilità di una domanda retorica, vista la predisposizione di Peppino all’elogio altrui e all’auto-elogio; e ancora, in 8.3.1-III, “non chabiare a Vocato per che il / migliore sono io? tanti Salute“ <<non cambiare avvocato perché il migliore sono io! Tanti saluti>>; o, in 8.3.1-VII, “Inglese Tedesco é Francese? / Mia Nipote Parla queste / lLio Lingue: <<Inglese, tedesco e francese! Mia nipote parla queste lingue>>, dove, anche in questo caso, è da escludere un’effettiva intenzione interrogativa o retorica, le quali, se vi fossero, comprometterebbero la logicità e la coerenza del periodo così strutturato. Su sei punti interrogativi presenti nell’intera produzione, dell’uomo, solo in un caso Peppino utilizza effettivamente questo segno d’interpunzione in luogo di domanda, come si nota nella lettera alla badante (8.2-XXI) in cui si legge: “chilo sa see pentito di chome sie / chonportato? <<chi lo sa se è pentito di come si è comportato?>>, possibile forma ipercorretta, in quanto l’italiano standard non prevede l’inserimento del punto interrogativo in una domanda indiretta. Nel caso dell’esempio analizzato, anche il primo punto interrogativo al quarto rigo potrebbe allora assumere un valore esclamativo, relativo forse al fatto che il padrino di Peppino fosse in realtà lo zio, in quanto fratello della madre; o semplicemente, potrebbe essere attribuibile ad un atteggiamento enfatico tipico dell’uomo, il quale, parlando e raccontando alla famiglia delle proprie esperienze, tende ad enfatizzare con il tono della voce e con i gesti i fatti che reputa personalmente più salienti, anche al fine di tenere alta l’attenzione dell’interlocutore durante i suoi lunghi discorsi. Tuttavia, come visto, il punto interrogativo in questione ricorre in concomitanza con i due punti. Si potrebbe allora pensare che, ricordandone la funzione esplicativa, Peppino abbia inteso utilizzarli , a suo modo, correttamente per indicare, nella frase successiva, il risultato degli insegnamenti ricevuti, così come avvenuto nella lettera 8.2-V e nel pensiero 8.3.1-V, in cui essi sono impiegati in maniera appropriata per introdurre un discorso diretto88: “e mie venuto da Me e ciodetto: didove sei / venuto“; e con funzione “elencativa“, per introdurre una muttetta, un componimento poetico popolare: “ē a desso / scrivo una muttetta: na fimmina / bugiarda mia lasciato“ <<e adesso scrivo un componimento in musica [sic. muttetta]: una donna [sic. fimmina] bugiarda mi ha lasciato>>. Il diverso impiego di questo tratto d’interpunzione negli altri tre esempi presenti nel corpus, però, non lascia stabilire con certezza quale valore effettivo sia loro attribuito; sembra che essi vengano infatti impiegati a chiusura di una frase (dunque con valore di funto fermo) sia in 8.2-XVIII: “Senpre Tuo affezionatimo Nonno / Peppino Rocco Fazio Ciao: “; sia nella già menzionata 8.3.1-VII: “Mia Nipote Parla queste / lLio Lingue: dovevo scrivolo prima / sio sichima Alessia“ <<mia nipote parla queste lingue. Dovevo scriverlo prima, si chiama Alessia>>; sia alla fine di un elenco dei mesi dell’anno, in 8.3.2-V “Settenbre Ottobre Novebre ĕ Dicenbre: “. Resta certo il fatto che il valore che Peppino attribuisce al segno grafico dei due punti sia arbitrario, e che nell’esempio analizzato esso possa aver voluto sia assumere il valore di punto fermo che quello proprio dei due punti. Per quanto riguarda l’inserimento del punto interrogativo, possibilmente avvenuto durante la rilettura, è invece ipotizzabile che esso sia stato utilizzato per esprimere un valore inconsciamente esclamativo al fine di evidenziare l’importanza di quanto scritto, ignorando la regola che non prevede il susseguirsi di due segni d’interpunzione; o che esso sia stato inserito di getto dopo i due punti, anticipando erroneamente la successiva e pianificata intenzione di porre l’esclamazione alla fine della frase, rivelando, quindi, una progettazione scrittoria dell’uomo.

Si segnala, in ogni caso, l’impiego di diversi segni d’interpunzione in altrettante diverse soluzioni creative rispetto all’inserimento in cifre della data in cui le lettere ed i pensieri sono stati scritti, o della data di nascita dell’uomo, pratica che diventa sempre più frequente man mano che Peppino si abitua alla scrittura: se alle volte è il punto fermo a separare una cifra dall’altra, come nel caso della lettera 8.2-XII: “20.18“, di 8.2-XV: “2018. 11 Febraio“, e di 8.3.3-I: “Sono Nata 24.1931“; altre volte la separazione avviene tramite l’impiego di un trattino: “24-11 2018“ (lettera 8.2-XVII); di virgole “26, 11, 2018“ (lettera 8.2-XVIII); di un punto fermo leggermente sopraelevato e centrale rispetto al rigo: “4•12 2018“ (lettera 8.2-XIX); o di una barra obliqua tra le cifre, come nel pensiero 8.3.1-VIII: “11//12//218201889. Interessante è qui notare come Peppino si astenga quasi totalmente dall’inserire segni d’interpunzione quando il mese riportato è espresso in lettere, anziché in cifre: “27 febraio Io sono Tuo affeziona= / tissimo Papa“ (8.2-V); “27 febr febraio“ (8.2-VI); “2018. 11 Febraio“ (8.2-XV), in cui come visto, il punto fermo si presenta tra le cifre “2018“ e “11′‚ ma non tra “11“ e “Febraio‘‚; e ancora, “Galati Mamertino Dicenbre 2018“ (8.2-XXII), “Galati Martino 29 Dicenbre 2018“ (8.2-XXIII) e “Galati Mamertino 20 Marzo 2019“ (8.3.2-VI). Ciò rivela l’acquisizione o il ricordo delle regole di punteggiatura relative alla trascrizione delle date: in questo caso sembra quindi che Peppino riesca a discernere quando sia necessario l’impiego di un segno d’interpunzione (qualunque esso sia, purché vi sia) da quando invece esso non lo è.

Si nota, infine, l’uso delle parentesi tonde, relativo all’inserimento della sopracitata espressione ‚nsanitate, in 8.2-XIV: “mi richordo quando / (zanitate) ē venuta a manchare / la Tua Nonna Nunnzia“. Sebbene il colore del testo sia uniforme e ciò potrebbe portare ad escludere degli interventi sulla produzione – mentre altrove, come specificato nel capitolo  5, è possibile riscontrare delle correzioni proprio in virtù del fatto che sono state effettuate con una penna o un colore diverso rispetto a quello utilizzato da Pappino, e, dunque, facilmente individuabili, oltre alla differenza nella calligrafia – pare qui poco probabile che Peppino abbia consapevolmente e di proprio pugno inserito questi segni d’interpunzione. L’uso di parentesi tonde è difatti totalmente estraneo alle produzioni dell’uomo, e un uso così preciso di isolamento dell’informazione o di commento aggiuntivo alla frase principale parrebbe non appartenergli. E‘, invece, più plausibile che esse siano state inserite successivamente da terzi, al fine, come detto, di rendere meno ostica la lettura del testo; tesi avvalorata dal fatto che questa lettera mostri già evidenti segni di “manomissione“ in altri punti: “spero che la presente lettera[inserito da figlia] venga atrovare / a Te“, in cui la parola lettera risulta scritta con una calligrafia differente da quella di Peppino e con un colore diverso rispetto alla pena utilizzata dall’uomo.

6.1.2. Gli accenti grafici

Connesso alla punteggiatura è l’uso dell’accento grafico, diacritico rientrante tra i segni paragrafematici ed indicante  la ‚maggiore densità fonica e, talvolta, il grado di apertura“ delle vocali (De Martini 2010), unici foni sui quali esso può ricadere. Il sistema vocalico dell’italiano standard sul quale si riflette l’impiego dell’accento grafico è composto da sette vocali toniche (esso si riduce a cinque se consideriamo le vocali atone), tre delle quali si accentano di norma con l’accento grave (‵ ), <à>, <ì>, <ù>, e due delle quali possono presentare sia un accento grave che acuto ( ′ ), a seconda del grado di apertura vocalica che costituisce la variante presa in considerazione: la vocale medio-alta chiusa /e/ sarà accentata come ‹é›; la medio-bassa /ε/ aperta come ‹è›; la medio-alta chiusa /o/ come ‹ó›, e la medio-bassa aperta /ɔ/ come ‹ò›, le cui realizzazioni non vengono però solitamente rese nella normale ortografia, se non dove fonologicamente necessario (D'Achille 2003, 78).

Come visto nel § 5.3.1, le produzioni di Peppino presentano un’evidente tendenza anarchica nella direzione grafica data con la penna al tratto, il quale può presentarsi su ogni vocale sotto forma di accento grave (  ` ), accento acuto ( ´ ), accento lungo ( ¯ ), o accento breve ( ˘ ), pur non attribuendovi alcun valore fonologico90. Questo atteggiamento caotico ed altalenante è inoltre riscontrabile nell’attribuzione di accenti a parole che non ne richiederebbero l’impiego, ma rivela altrettanto spesso la riuscita messa in pratica, forse casuale, delle regole che Peppino pare ancora lontanamente ricordare.

Il primo tratto erroneo a colpire l’attenzione del lettore, in quanto anche d’ostacolo nella comprensione sintattica del testo, è lo scambio del valore fonologico tra <e> congiunzione ed <è> III persona singolare del verbo essere al presente indicativo: Peppino mette spesso, sebbene ciò non sistematicamente, l’accento, di qualsivoglia tipo, sulla congiunzione <e> (“tanti Salute atutte due ē / ai geniri e anche a / N Nipoti“ <<tanti saluti a tutte e due e ai generi e anche ai nipoti>>, in 9.3.1-IV); viceversa, non sempre lo mette sul verbo: “Lei ē / una brava Signora“, in 8.2-XVI; ma “Lei e picipituso aposta piange lui“ <<Lei è precipitoso, apposta lei piange>> in 9.3.5-II (rivolgendosi in un discorso diretto all’esaminatore di guida che aveva fatto piangere una ragazza, con i suoi modi bruschi). Ciò denota come lo scrivente, posto di fronte alle regole dell’accentazione degli ossitoni sui banchi di scuola, abbia affrontato un iniziale processo di acquisizione delle stesse, e come, tuttavia, non praticando la scrittura per oltre sessant’anni91, il ricordo di queste regole sia andato scemando nel tempo, risultando adesso in un’applicazione talvolta casuale degli accenti su diversi monosillabi presenti nella sua produzione. Allo stesso modo, come detto, l’attribuzione dell’accento si registra su monosillabi quali la preposizione “a“:  “talefana  ā / Paolo Tuo figlio“, 8.2-IV; ma anche su verbi coniugati alla III persona singolare dell’indicativo presente, quali fa dal verbo fare (“cosi si / fă“, 8.2-IV), va dal verbo andare (“e mia detto dove u“, 8.2-XXIII) e soprattutto ha, dal verbo avere, almeno nelle sue varianti peppiniane: “ciá una buona fama“, c’ha una buona fama, in 8.2.-XVI; “ogni ligno ă il suo fumo“, ogni legno [sic. lignu] ha il suo fumo 9.3.5-I; e ancora sull’avverbio di quantità “po‘ “, “sifevano un pō  / di erba perlle chavarcature“ <<si faceva un po‘ di erba per le cavalcature [sic. cavalcature, bestie che si cavalcano, cfr. Dizionario siciliano, etimologico, italiano e latino, p. 328]>>, 8.2-XXI; l’avverbio negativo “no“: “nō / cio detto“, in 8.2-XXII  (sebbene in questo caso vi siano anche le varianti corrette: “no ciodetto“, 9.3.1-VI); sui verbi sapere e avere coniugati alla III persona singolare del presente indicativo: “ĕ sō che quando / nascieva un bin binbo“, 9.3.1-VI; “inprimo non cio / rispasto“ <<prima non gli ho risposto>>, 9.3.4-III; e spesso correttamente su potere coniugato alla terza pers. sing. del presente indicativo: “si puō / andare avanti“, 9.2-VII. Non si segnala l’impiego di accenti sulla <i>, se non nell’esempio riportato in 8.2-II: “Tío sognoto“ <<ti ho sognato>>, in cui è possibile che Peppino abbia posto inavvertitamente l’accento sulla <i> anziché sulla <o>, di cui è possibile avvertisse una prominenza uditiva. La distinzione grafica tra la particella pronominale con valore impersonale si e l’avverbio d’affermazione è neutralizzata: si cio detto“ <<“sì“, gli ho detto>>, 9.3.1-VI; così si registra una non percezione dell’intensità uditiva dell’avverbio “così“ che viene immancabilmente reso con “cosi“‘: “e cosi passa il Tenpo“, 9.3.3-II. Neanche una parola dialettale come “pirchì“ <<perché>>, infine, riesce a strappare un accento grafico a Peppino: “pirchi é cosi bastă“, perché è così e basta. Per quanto riguarda la <u>, l’accento si presenta in modo altalenante sull’avverbio e aggettivo “più“, come dimostrano due frammenti tratti dalla stessa lettera: “mi fa il piū grande piacere“ e “al piu presto“, 8.2-XII; esso si registra anche sul pronome personale soggetto “tu“: “anche Tū“, 8.2-IX; “tirila tù“ <<tirala tu>> in 8.3.1-V. 

Più regolare pare invece l’attribuzione dell’accento sui verbi coniugati al futuro, sia alla prima che alla terza persona sing., come dimostra l’esempio in 8.2-XX: “ritornerō ti Bacerō / Ti porterō un Bel fiore“; “ē cosi entrerà una bella bna buna / bonavelenza“, e così entrerà una buona benevolenza (8.2-VII); “senò / sará una persona inutele“ (8.2-IX), oltre che in nomi astratti quali “amore ĕfedeltà“ 8.3.1-V, “rrisponzalità“, responsabilità in 8.3.4-I , “volontà“ in 8.2-IX.

La disposizione degli accenti, dunque, è talvolta giustificata dalla corretta percezione, nel continuum fonico parlato e poi messo per iscritto, di una forte prominenza uditiva nelle sillabe che graficamente sono rese come accentate, le quali vengono prodotte, appunto, con una maggiore intensità uditiva (Simone 1990, 124); altre volte pare che Peppino percepisca la prominenza uditiva delle parole e vi ponga l’accento, là dove però questo non viene graficamente posto per convenzione; altre volte ancora, invece, la disposizione appare immotivata e potrebbe essere più dovuta alla seconda rilettura che Peppino opera, spesso ad alta voce e, come detto nel capitolo 4, anticipando o sorvolando su alcune parole, il che, crediamo, possa facilmente confondere la percezione visiva e scrittoria di Peppino, portandolo ad ipercorrezioni immotivate: non cerà / tanto lavorò“, non c’era tanto lavoro, in 9.3.1-VII.

Sulla presenza del segno paragrafematico dell’apostrofo, invece, si segnala un solo caso in tutto il corpus in cui esso è presente, ossia il biglietto per gli auguri della laurea alla nipote maggiore: “non vedimo / l’ore di vederti.“, 8.2-I. Proprio perché posizionato in questo primissimo esempio di scrittura di Peppino e totalmente assente nelle sue successive produzioni, però, crediamo che questa possa ritenersi un’ulteriore conferma delle benevole manomissioni su questo testo ad opera delle figlie.

6.1.3. Maiuscole e minuscole

Ancora correlato al personale uso grafematico di Peppino è il fatto che anche le sue produzioni, come molti altri scritti semicolti, presentino una certa discontinuità normativa nella resa delle lettere maiuscole e minuscole. Nel caso di parole successive al punto fermo, laddove esso sia presente, notiamo, ad esempio, un atteggiamento altalenante che, però, sembra lievemente mutare man mano che Peppino esercita la scrittura, se non altro per la maggiore frequenza di segni d’interpunzione rispetto alle prime lettere nelle quali è pressoché assente. Prendiamo ad esempio una delle prime produzioni92 risalenti al 2016, la 8.2-IV, in cui si legge “bene cosi si / fă grazie vera mente. e basta“ e “basta cosi., ciao“, ed è evidente come l’uomo non rispetti né la regola per la quale al punto fermo segue una maiuscola né quella che vieta l’uso di segni d’interpunzione consecutivi. In 8.2-VII, lettera scritta nel 2017, il fenomeno si ripete: “Cara Figliolă. / questo ē perte“; pare qui, tuttavia, possibile supporre che Peppino abbia scritto di getto la lettera senza mettere il punto fermo, rendendo così legittimo il fatto che la parola questo sia stata scritta in minuscolo, per poi inserirlo durante la rilettura, attribuendo erroneamente, però, a questo segno d’interpunzione il valore di pausa convenzionalmente espresso dalla virgola, nella possibile convinzione che essi siano interscambiabili. In 8.2-IX si segnala, invece, la resa di una maiuscola dopo il punto fermo, sebbene questo fenomeno non sia qui dovuto alla regola di punteggiatura ma, presumibilmente, al fatto che la parola successiva al punto sia un nome proprio, regola riconosciuta ed applicata da Peppino più o meno sistematicamente, come vederemo più avanti, e non dovuto alla regola di punteggiatura: “si pundare senpre avante°. Mussoline° cidiva ai suoi collaburatore° / se vado avanti seqguitemi“ <<si può andare avanti. Mussolini diceva ai suoi collaboratori: “se vado avanti, seguitemi“>>93). La situazione inizia a cambiare, invece, in alcune lettere scritte nel 2018, sebbene  il fenomeno non sia sempre applicato ad ogni caso in cui il punto fermo è presente: in 8.2-XIII si legge ad esempio “ti Saluto. Ciao apre_sto.“; in 8.2-XIV si legge “spero che la presente lettera venga atrovare / a Te. Io ti voglio tanto bene“; “schusa se / ci sono errore. Nonno Peppino Rocco“: in quest’ultimo esempio è ipotizzabile che Peppino abbia dato interiormente un forte valore affettivo alla parola “nonno“ e che l’abbia resa in maiuscolo a prescindere dal punto fermo che la precede; in 8.2-XV, inviata ad uno dei due generi, leggiamo “spero anche tu. Timando tante / salute“ e “a Giugno ci / vediamo. Io sono tuo Sogero“ (a giugno ci vediamo. Io sono tuo suocero). In questo caso, dunque, l’impiego corretto della regola appare casuale, forse reminiscenza di lontani insegnamenti scolastici ai quali, in ogni caso, Peppino non sembra dare una rilevanza coerente. L’utilizzo, inoltre, dell’iniziale maiuscola in “Sogero“, come nel caso di “Nonno“ dell’esempio precedente, confermerebbe l’importanza data al vincolo di parentela ed alla propria persona piuttosto che alle regole grammaticali sull’uso della maiuscola.

Vediamo, inoltre, come Peppino sembri avere ben acquisito la regola secondo la quale i nomi propri vanno trascritti in maiuscolo. Così come egli scrive correttamente i nomi propri di persona (“Alessia“, “Marica“, “Paolo“, Peppino Rocco‘‚, presenti in in tutto il corpus) salvo rarissime eccezioni (“ce lo venduto à Carcione vincenzo“, in 8.3.2-VI, dove pare giustificata la mancanza della maiuscola per il nome in quanto vi è la presenza di un’altra maiuscola per il cognome che lo precede), altrettanto fa con i cognomi: “Brancatelli“ (8.3.1-VII); “Fazio‘‚ (8.2-XII); “Smiriglia‘‚ (8.3.1-VIII) ecc. Talvolta anche le cosiddette ’ngiùrie94, ossia i soprannomi di personaggi che spesso Peppino menziona durante i suoi racconti, vengono espressi in maiuscolo, come nel caso di “donturi Prizutu‘‚ <<Don Ture Prizzitu>>, sebbene si noti una certa consapevole tendenza ad evitarlo, specie se questi sono uniti al reale nome della persona a cui si riferiscono: “sono anda al Signo Geche murtisario“ <<sono andato dal signor Jack murtisario>> in 8.3.1-VI; “chognato Antonino pinitto“ in 8.2-XXII. Anche nelle denominazioni dei topònimi, ossia nomi di località nominati nelle sue lettere, Peppino pare rispettare la norma scolastica: siano essi nomi di piccoli paesi siciliani, come ad esempio “Galati Mamertino“, Santacita di Militello“ <<Sant’Agata di Militello>>, “Sanmasile“ <<San Basilio>>; siano essi nomi di cittadine e grandi città italiane, come “Napale“ <<Napoli>>, Casale Monferrato“, “Alessandria“; o nazioni: “e stati ina_Merica“ <<è stata in America>>, “Vicasgravia95 (Jugoslavia); fa eccezione la denominazione della località denominata “Milè“, zona di campagna situata poco fuori dal paese, che Peppino riporta solo una volta in maiuscolo: “per / andare a Mile“ (8.3.3-I); e ben quattro volte in minuscolo: “cene siamo / andati a mile“ (8.2-XXI); “ĕ partemma per / milé“ <<e partimmo per Milè>>, in 8.2-XXII; nella nostra chanpagna a mele / noi la chiamamo milé“ (8.2-X), forse perché denominazione ritenuta inconsciamente di minore importanza, dato che, come spiegato più avanti nell’ultima lettera, questa località viene comunemente chiamata “Milè“, ma, al contrario, “nella / mappa esce Liazo“ <<il nome esatto riportato sulla carta geografica è “Liazzo“>>.

Ancora a proposito della questione dell’impiego delle maiuscole nelle scritture semicolte, pare qui interessante approfondire un fenomeno di certo non sfuggito agli occhi attenti dei linguisti e già trattato nell’analisi di Spitzer, il quale spiegava come l’ortografia rispecchiasse “spesso il modo in cui le singole parole [erano] collegate nella coscienza popolare“ (Spitzer 1976, 38): non di rado, alcune parole il cui valore è ritenuto dallo scrivente semicolto come idealmente importante o degno di rispetto vengono trascritte con la lettera maiuscola, anziché con la normale minuscola (Sobrero 1975, 111); è questo il “valore reverenziale“ di cui parla D’Achille (D'Achille 1994D'Achille 2010b) trattando l’italiano dei semicolti, ed il nostro Peppino, nelle sue produzioni, non è da meno. Il frammento riportato nel titolo dato alla presente tesi, contenuto in 8.3.3-II, è infatti rappresentativo di questo atteggiamento linguistico: scrivendo in maiuscolo l’aggettivo bella in correlazione al sostantivo scrittura, e contraddistinguendo fisicamente queste due parole dalle altre rese in minuscolo, Peppino rivela la sua fierezza rispetto alle proprie capacità scrittorie. Questa tesi è avvalorata dal fatto che egli esprima altresì la volontà di far leggere alle figlie la sua Bella Scrittura affinché anche loro possano goderne e gioirne, come discusso nel capitolo 4. Secondo questa chiave di lettura, è dunque possibile tracciare su quali importanti valori si basi la vita di Peppino o quali elementi siano per lui di fondamentale importanza nelle sue narrazioni96. Dando una scorsa al corpus, è facile vedere come un primissimo profondo valore per l’uomo sia attribuito alla famiglia, ai suoi membri e ai sentimenti ad essa relativi, come notiamo nella pressoché sistematica attribuzione della maiuscola a parole quali “Nonno‘‚, “Nonna“, “Papà“ o “Patre“, “Mamma“, “Figlia‘‚, “Figliolă“, “Zia“, “Nipote‘‚, “Marito‘‚, “Moglie“, “Sposo“, “Famiglia‘‚ ecc., così come anche alla parola “Bene“, anch’essa spesso riportata in maiuscolo: “Ti voglio / Tanto Bene chome Tu voi Bene / A Mé“ (8.2-II). Altro elemento fondamentale nella scala di valori di Peppino è la “Salute“, sua e di chi gli sta intorno (“sto Bene di Salute / ē chosi spero che stai Bene Anche Tu“, in 8.2-X; “Vi chcoro di avere Bella / Salute“ <<vi auguro di avere bella salute>> in 8.3.3-III), così come anche la possibilità di godere di buona memoria (“Mamoria“, 8.2-IV) e la possibilità di “Manciare e Lavorare“ <<mangiare e lavorare>>, 8.3.3-I. Vediamo, inoltre, come Peppino esprima l’importanza di un avvicinamento spirituale e religioso nel rispetto di Dio, quando dice: ora per razia di Dio / certamente ti senti Meglio“ <<ora, per grazia [sic. razia] di Dio, stai meglio>>, in 8.2-XII; o ancora: “sidice chi / vole Bene a Dio deve Rispettare I Santi / i Persone inteligente Capiscono bene / quello che misprimo a dire“ <<si dice “chi vuole bene a Dio, deve rispettare i Santi“. Le persone intelligenti capiscono bene quello che mi sforzo di dire>>, in 8.3.2-IV. In quest’ultimo esempio, notiamo inoltre come l’importanza attribuita a determinati concetti si rifletta sulla trascrizione in maiuscolo non solo di sostantivi, ma anche di verbi, sia all’infinito che coniugati (“Rispettare“; “Tío sognoto / che mia Braciavi“ <<ho sognato che mi abbracciavi>> 8.2-II), così come anche di aggettivi i quali, se ritenuti fondamentali per la riuscita personale dell’uomo e caratterizzanti una persona buona, vengono trascritti come segue: “Io sono un uomo Forte“, 8.2-IX; “Tuo / Affezionatissimo chome Tu sei“, 8.2-XVIII; “misento essere / in Tenigente“ <<mi sento essere intelligente>>, 8.3.1-II; “cia pure un / Bel Fratello chee Bravissimo“, 8.2-XIX. Fa eccezione, in tal senso, l’aggettivo “buono“, che viene più di frequente trascritto in minuscolo, a meno che non sia in combinazione con il termine “anima“ nella parola bonanima (Treccani) la quale occorre nel corpus otto volte, tre delle quali in minuscolo e cinque in lettera maiuscola. Un altro concetto al quale Peppino attribuisce un valore forte è quello del salutare, dunque ad una regola di buone maniere e buoncostume corrispondente ad una delle formule di cortesia previste nella scrittura delle lettere. L’uomo scrive in maiuscolo sia il sostantivo “saluto“ che le forme coniugate del verbo “salutare“: “Tanti Salute il Suo amico Peppino“, 8.2-XVI; “tanti Salute atutte due“, 8.3.1-IV; “dicendo chosi Io ora ti Saluto“, 8.2-XX. 

Stessa importanza – sebbene meno costante – è ancora attribuita alla parola “Casa“ (8.2-XX), a “Terra‘‚ (8.3.2-V), a “Canpagna“ (8.2.III), e a “Laria della Canpagna“ (8.3.2-IV), ma anche alle parole “Mondo‘‚ (8.3.1-V) e “Paese‘‚ (8.3.2-V), alla “Gente“ che vi abita (8.2-IV) e a chi vi riveste un certo ruolo sociale: “Signora‘‚, “Signore‘‚, “Sindo / Sindico / Sindaco“, “la Vocato“ <<l’avvocato>> in 8.2-XVIII, “il Principale denicozio“ <<il principale del negozio>> in 8.3.5-III, e “Maestra“, “Vigile urbano‘‚ e “Professore‘‚ in 8.3.3-I, tutti ruoli avvertiti da Peppino come socialmente molto importanti e verso i quali si deve un grande rispetto; dunque, da trascrivere necessariamente con  lettera maiuscola, la quale esprime a livello psicologico la grandezza e l’importanza ad essi attribuita, così come si nota, ancora, nei confronti dell’autorità, ad esempio, militare: “Caporale“, “Tenente“, “Mitare“ <<militare>>, “Corone= / lo“ <<colonnello>>, “Caserma“, “Soldati‘‚ in 8.3.4, e nel momento in cui l’uomo riferisce le sue esperienze da militare, attribuendo un grande peso a tutto ciò che ad esse era relativo: “era Primo regimento se secondo / Batteglione Sesta Conpagnia f / Fanteria cremona é midicevono / tante e tante difare il Corso / di Caporale maio non ò consetito“ <<era Primo reggimento, secondo battaglione, sesta compagnia, fanteria “Cremona“ e mi dicevano tanti e tanti di fare il corso per diventare caporale, ma io non ho acconsentito>>, 8.3.4-I. Da questo comportamento linguistico semplice e inconsciamente motivato dall’importanza che Peppino dà a determinate componenti della sua vita, pare trasparire l’immagine di un uomo dall’animo amabile e tenero, rispettoso degli altri, premuroso nei confronti della famiglia, gentile ed educato verso il prossimo, e profondamente rispettoso della sua terra, della sua campagna e di chi lo circonda.

È interessante vedere come lo stesso atteggiamento linguistico si presenti anche nei confronti di ulteriori elementi grammaticali presenti nel corpus; vediamo un frammento della lettera riportata in 8.2-XIV, inviata alla nipote maggiore:

spero che la presente lettera venga atrovare / a Te. Io ti voglio tanto bene / come Tu voi bene a Me e la / Nonna che ti vole bene / Tu sei inteligente […] mi richordo quando / (zanitate) ē venuta a manchare / la Tua Nonna Nunnzia / gli hai chiesto alla Nonna / Nina se si era dispiaciuta / e Lei ti rrispota certo / gioia. adesso ti Salotu Io / e N e la Nonna che an_che / Luei ti vole tanto bene e ci di_co / presto ci venga atrovare tu / ti abbracciomo baciandoti97

Qui è possibile notare come lo stesso grande valore psicologico venga attribuito dall’uomo agli elementi grammaticali relativi all’interlocutore destinatario della lettera, come il pronome personale soggetto alla II persona singolare “Tu“ ed il pronome personale complemento tonico, anch’esso alla II persona singolare, “Te“; questo comportamento si estende altresì all’aggettivo possessivo alla II persona singolare “Tuo“, ed interessa ancora, specie in una delle primissime lettere, anche il pronome personale complemento atono “Ti“ (“Tisaluto ē Tidico che / mentre che dormivo Tío sognoto“, 8.2-II), sebbene Peppino sembri piano piano dimenticare questa pratica nelle produzioni successive (cfr. 8.2-XIV: “adesso ti Salotu Io“; “ti vole tanto bene“; “ti abbracciomo“). Come visto nell’esempio riportato sopra, l’attribuzione di un grande valore psicologico si riflette, tuttavia, anche nella trascrizione del pronome personale soggetto alla I persona singolare, “Io“, così come nel relativo pronome personale complemento tonico, “Me“, comportamento frequentemente osservato nel corpus e possibile indice della grande autostima dell’uomo e dell’importanza che egli attribuisce anche alla propria persona. Lo stesso non avviene, però, stranamente con il pronome personale complemento atono “mi“, il quale non viene mai riportato in maiuscolo nelle produzioni di Peppino, ma sistematicamente in minuscolo, quasi come non venisse percepito dall’uomo come un elemento inerente a se stesso e al quale attribuire un certo valore. Ancora nell’esempio analizzato sopra si nota come la maiuscola sia anche spesso riservata al pronome personale soggetto alla III persona singolare al femminile “Lei“, così come al corrispettivo maschile “Lui“ i quali vengono riportati, rispettivamente, ben dieci volte su tredici, e venticinque volte su trentasei con lettera maiuscola.

I caratteri maiuscoli sono inoltre riservati ai pronomi personali soggetto alla I persona plurale “Noi“, sebbene ciò non sia sempre applicato a tutto il corpus; alla II persona plurale “Voi“, anche nella forma “Voialtre“, in 8.3.3-I, ricalcata sul sic. vuatri; talvolta alla III persona plurale “Loro“ (“fortunatame non mi / sotro sono trovato chon Lorō“, in 8.3.4-II). Stesso procedimento con diversi aggettivi possessivi, anche qui in modo variabile: “MioPadre midiceva“, 8.2.XVI; “la Tua Nonna Nunnzia“, 8.2-XIV; “se Dio vole diventerà quello che / spera il Suo core“, 8.2-IV; “quando il Nostro limitante“, 8.2-XVIII; non compaiono in maiuscolo né l’aggettivo possessivo alla II persona plurale “vostro“, né, più comprensibilmente, l’aggettivo possessivo alla III persona plurale “loro“, che non è usato nel corpus neanche sotto forma di “suo“, come spesso accade nei testi semicolti (D'Achille 2010b)98.

 

6.1.4. Difficoltà nella resa di lettere e nessi consonantici

Le incertezze e gli sforzi dei parlanti nella resa di specifici grafemi o di nessi consonantici costituiscono un ulteriore rilevante elemento nella scrittura dei semicolti. Uno dei fenomeni riscontrabili su questo piano è, ad esempio, quello dell’omissione della <h> nelle forme dell’ausiliare avere, “ho“, “hai“, “ha“ e “hanno“. Anche in questo caso, Peppino dimostra di rientrare appieno sotto la categoria sopracitata: si noti, ad esempio, il pensiero 8.3.3-I, in cui figura “a detto scriviti / una parola“ <<ha detto: “scrivete una parola“>>; o il più frequente “ciodetto“ <<c’ho detto>> o <<miadetto>> <<mi ha detto>> presente in tutto il corpus, forma univerbata dovuta, come vedremo meglio nel § 6.1.5, alla mancata percezione dei confini tra le parole oltre che al raddoppiamento fonosintattico tipico dell’italia centro-meridionale, provocato, in questo caso, dal monosillabo forte ha. Si riscontra un unico esempio in cui l’uomo riporta una <h> in modo corretto, pur univerbando il verbo con il pronome personale complemento in forma atona “ti“: “tiho detto che porgesse / cittune“ <<ti ho detto di porgermi l’accetta [sic. ccittuni]>>, 8.2-XI. Risalente al 2016 è lo scambio grafico tra <q> e <g> nella parola “quando“ nell’esempio “maguando / vieni“ <<ma quando vieni>> (8.2-III), scambio il quale, è bene sottolineare, si presenta una sola altra volta nella produzione dell’uomo (“Macho=/ mungue“ <<ma comunque>>, in 8.2-III) denotando così la sua capacità scrittoria nei confronti della lettera <q> che pur potrebbe risultare ostica, in quanto indicante, insieme alla <c>, il medesimo suono /k/. Si nota ancora la tendenza, comune ai semicolti, a sostituire la nasale bilabiale /m/ alla nasale dentale /n/ davanti alle occlusive bilabiali sorda e sonora /p/ e /b/, come testimoniato dalle parole “senpre“ e “Canpagna“, e “senbrava“ e “Dicenbre“, parole frequentemente attestate in tutto il corpus. Ancora a proposito della nasale dentale /n/, si registra ugualmente la sua caduta in posizione preconsonantica, come nel già menzionato “Novebre“ (8.3.2-V), sebbene il fenomeno non sia esteso all’intero corpus.

Nella resa delle cosiddette lettere straniere, notiamo invece il simpatico sforzo compiuto da Peppino nello scrivere il nome della nipote Marika, denominazione contenente la lettera straniera <k>, detta cappa, la quale ha lo stesso valore fonologico dell’occlusiva velare sorda /k/. Questa lettera risulta, infatti, di complessa articolazione per l’uomo, tanto da farlo arrivare alle seguenti possibili soluzioni: renderla graficamente con una <c>, la quale, in combinazione con la vocale <a> ottiene logicamente lo stesso valore dell’occlusiva velare sorda /k/, per cui avremo “an che Marica è brava“, 8.2-III; renderla con il nesso consonantico <ch> il quale, solitamente posto di fronte a vocali palatali e alla semivocale /j/, rende il fonema /k/, per cui si otterrà: “Carisima Nipotina Maricha“ in 8.2-XIX, o ancora “Marichi“, 8.3.2-V, dove pare che lo sforzo compiuto dall’uomo nell’inserimento del nesso consonantico l’abbia poi distratto dal corretto uso della vocale finale del nome, inducendolo ad inserire una <i> al posto della <a>; persino nel momento in cui, invece, Peppino ha successo nell’utilizzo dell’insidiosa lettera straniera, pare dover pagare pegno, dimenticando d’inserire la <i>: “Carima Nipoti Marka“, 8.2-XII. Anche il rapporto dell’uomo con la lettera <j> non sembra sereno, come si nota nel nome proprio di persona inglese Jack [ˈdʒæk], nome “forestiero“ e riportato da Peppino come “Geche“ in 8.3.1-VI, tramite, cioè, la più conosciuta <g> con la quale in italiano si rende graficamente l’affricata palatale sonora //99

Per quanto riguarda la difficoltà nella resa dei nessi consonantici, notiamo la tendenza ad impiegare il digramma <ch> per rendere l’occlusiva velare /k/ anche di fronte a vocali le quali non richiederebbero il suo uso, ossia la <a>, come si nota in “chanpagna“ (8.2-III), la <o>, già vista in “chome“ (8.2-II), e la <u>, in “schusa“  (8.2-XIV)100, tratto che lo accomuna agli altri semicolti siciliani di cui gli studiosi hanno analizzato le produzioni (cfr. Mocciaro 1991, 22)È necessario, tuttavia, rendere conto di un avvenimento che difficilmente sarebbe potuto passare inosservato, lavorando su un corpus: nelle ultime tre lettere scritte nel 2019, si nota come la resa del nesso consonantico <ch> si sia trasformata in <chc>, fenomeno evidente specie nella parola “che“, ma anche nella parola “chcome“, “chcosi“ ecc. (cfr. pensiero 8.3.3-I, II, III). Vista la sua capacità , nelle prime lettere, di rendere in modo tendenzialmente corretto il nesso <ch> seguito dalle vocali <e> ed <i> ( dunque /ke/ e /ki/), ad esempio nelle parole “che“, “anche“, “qualche“ (8.2-IX) e nelle parole “chi“, “chiamamo“ chiamiamo, “chiesto“ (8.2-X e XIV), così come la <c> seguita da <a>, <o> e <u>, si fa strada l’ipotesi che questo fenomeno possa essere indice di una possibile fisiologica degenerazione della memoria dell’uomo, dovuta alla sua età.

Nel nesso <sc> seguito normalmente da <e> si riflettono alcune problematicità, come vediamo in “nascie“ e “sciesa“ (8.2-XX) o in “piaciere“ (8.2-VII). Si segnala, al contrario, una buona resa grafica del digramma <gn>, che rivela l’interiorizzazione della regola per la quale se è seguito dalle vocali <a> <e> <o> <u>, esso rifiuta l’inserimento della <i>: difficilmente, ad esempio, Peppino scriverà una parola come “canpagnia“ nella sua produzione. 

Per quanto riguarda la presenza di scempie e doppie – “problema cruciale“, secondo D’Achille, nelle scritture semicolte e spesso dovuto al fatto che difficilmente viene interiorizzato dagli scriventi “il valore convenzionale della ripetizione di uno stesso grafema [per] rappresentare un tratto prosodico“ (D'Achille 1994, 67), vediamo come Peppino riesca tendenzialmente a fare bene prendendo pian piano confidenza con la scrittura. Mentre, infatti, in una delle prime lettere (8.2-III) si riscontrano diverse scempie in luogo delle doppie, come nell’esempio “ti arzi / amattina_ta“ (ti alzi a mattinata) e “lavori abbastanza“, in cui le lettere evidenziate in blu sono state inserite successivamente dalle figlie proprio per correggere l’errore, o ancora nell’esempio una / Racaza“, una ragazza (8.2-II) – dove tra l’altro si segnala, a livello fonetico, l’assordimento dell’occlusiva velare sonora /g/ che viene resa come sorda /k/ sotto l’influsso siciliano – questo fenomeno si evidenzia sempre meno di frequente nelle lettere e nei pensieri successivi. 

6.1.5. Segmentazione del continuum

Altro elemento visibilmente caratterizzante le scritture semicolte è quello dell’incertezza nella separazione delle parole. Secondo il principio della segmentazione, è possibile spezzare la catena lineare dell’enunciato in unità minime corrispondenti, su diversi livelli astratti, ai vari grafemi, morfemi, lessemi ecc. Gli elementi presenti nel continuum linguistico della catena parlata (che, come detto, si riflette “in presa diretta“ nello scritto dei parlanti semicolti) vengono dunque scomposti quando trasposti su carta. Nel momento in cui, però, la percezione dei confini delle parole che si susseguono nel continuum fonico è compromessa o scarsa, si dà luogo a fenomeni quali le cosiddette agglutinazioni e deagglutinazioni. Le prime si configurano come fusione di parole che normalmente dovrebbero essere scritte in modo separato, come riscontrato nel seguente esempio tratto da un lettera di Peppino: “Tiscrivo queste due paro= / fle perdirte che stobene disalute“ (8.2-II), in cui si riflette l’agglutinazione del pronome personale atono “ti“ con il verbo “scrivo“; quella delle preposizioni “per“ e “di“ rispettivamente con il verbo “dirti“ ed il sostantivo “salute“; e l’agglutinazione del verbo “sto“ all’avverbio “bene“, in quella che si rivela essere una riproduzione grafica del raddoppiamento fonosintattico a livello del continuum fonico, dovuta al monosillabo “sto“ (in trascrizione fonetica, infatti, l’enunciato risulterebbe come [stɔ b’bεne]). Il fenomeno della deagglutinazione, al contrario, prevede che delle parole normalmente trascritte in un’unica forma vengano erroneamente scomposte e trascritte in forma separata, secondo un’errata segmentazione del continuum. Questo fenomeno prevede che specie le parti iniziali di una determinata parola, ma non solo, vengano percepite come a se stanti e trattate come tali, nonostante non lo siano, come vediamo nei seguenti esempi tratti dalla lettera 8.2-III: “an che Marica è brava“, anche Marika è brava; “ti saluto bella / vi_gna“, ti saluto, bella vigna!; “mara viglia“, meraviglia. Un ulteriore simpatico esempio di deagglutinazione è dato dall’errata trascrizione del nome della nipote maggiore di Peppino, Alessia, la cui denominazione viene riportata come “a Lessia“ (8.2-X), ma anche come “la Lessia“ (8.2.XIV), in quello che si rivela essere anzitutto come un uso atipico dell’articolo determinativo a precedere il nome proprio di persona, fenomeno estraneo nel Sud Italia (possibilmente dovuto alla costante visione di programmi TV quali i talk show, che spesso danno spazio a tipi di italiano regionale diversi, tra i quali le varietà settentrionali) e, in secondo luogo, come fenomeno che riflette la difficoltà di separazione tra il suddetto articolo e la lettera iniziale, la quale, di norma, dovrebbe prevedere l’inserimento di un apostrofo, che Peppino disconosce. È comunque interessante notare come le parole che l’uomo separa erroneamente durante la prima stesura delle produzioni vengano spesso corrette dallo stesso Peppino durante la rilettura, “unendole“ tramite una stanghetta un po‘ tremolante, come già considerato nel § 5.3.2, e come dimostrato dalla correzione di “vi_gna“; al contrario, le parole scritte in forma univerbata non vengono corrette, se non poche volte, e in ogni caso, crediamo, per mano o sotto suggerimento delle figlie dell’uomo (8.2-XVI).

L’errata segmentazione del continuum si riflette anche nell’andare “a capo“ e, secondo Mocciaro, essa è spesso mera conseguenza del fatto che lo scrivente semicolto sia giunto al margine destro del foglio e, non avendo più spazio per scrivere, sia costretto a scomporre erroneamente le parole (Mocciaro 1991, 20). Se è vero che la larga calligrafia di Peppino gli consente di formulare delle frasi relativamente brevi per rigo (composte in media da 6-7 parole) e di avere poco spazio a disposizione per l’organizzazione fisica della frase sul foglio, essendo, così, costretto ad andare frequentemente a capo, vale, però, la pena ricordare come egli sembri avere interiorizzato e volere dimostrare di essere a conoscenza della regola grafica riguardante l’andare a capo, in quanto diverse sono le testimonianze dell’impiego del segno ( = ) da parte dell’uomo nella separazione delle sillabe delle parole101, nonostante questa non rispetti sempre la norma, come in 8.3.4-III: “il Tene= / nte“; o non sia necessaria (“cideve= / dire“, in 8.3.4-III“ e “mia detto achasa= / tu chosa facevi“, in 8.3.4-IV), rivelando più l’idea che sia importante, nell’immaginario dell’uomo, segnalare quando un pensiero non ancora finito viene separato graficamente andando a capo102.

Sotto i fenomeni grafici generali rispetto alla trascrizione del continuum fonico su carta, invece, si segnala la tendenza di Peppino all‘apocope delle parole, ossia all’omissione dell’ultima sillaba delle parole o parte di essa, forse dovuta alla fretta dello scrivere: “Tuo / affeziona Papa“ <<tuo affezionato papà>> (8.2-IV); e la sincope o caduta di vocali interne come in “piciri“ (8.2-VII), dal sic. piacìri <<piacere>>.

6.1.6. Interferenza fonetica dialettale

Per quanto riguarda infine i fenomeni propriamente fonetici in cui si riflette un’interferenza con il dialetto siciliano, si segnala ad esempio nella lettera 8.2-XVII, la formazione “onottima“ <<un’ottima>>, in cui si riflette il fenomeno dell’assimilazione vocalica della <u> dell’articolo alla <o> dell’aggettivo, la quale esercita un influsso tale da fare mutare la prima; si segnala ancora la difficoltà a rendere le parole che presentano al loro interno dei dittonghi, come nel caso della complessa parola “laureata“, nella quale confluiscono il dittongo “au“ seguito subito dopo dallo iato “ea“, difficoltà risolta da Peppino nella forma tiselaoriata che appare meno difficoltosa da pronunciare in quanto, rispetto alla /u/, la /ɔ/ è più vicina alla /a/ nel triangolo vocalico (cambia in definitiva il punto di articolazione delle vocali) e l’articolazione del nesso “ao“ appare meccanicamente meno problematico da pronunciare; e ancora, nelle parole “fuori“ e “nuovo“ (8.2-II) e “vuole“ (8.2-IV) rese, sotto la spinta dialettale, come “fori“ [sic. fora], “dinovo“ [sic. novu], “vole“ [sic. voli]. Un altro fenomeno ben distribuito in tutto il corpus e dovuto all’interferenza con il dialetto è costituito dalla tendenza di Peppino a trascrivere la forma “dirti“, composta dal verbo dire unito al pronome “ti“, come “dirte“, quindi con una <e> finale; lo stesso fenomeno si riscontra anche nella forma “poi arrive stancho“ <<poi arrivi stanco>> (8.2-III): pare che anche qui la vocalità siciliana interferisca nella mente dell’uomo, rendendo confusa la resa grafica della /i/ finale. Se è infatti vero che il sistema vocalico del siciliano standard consta di cinque vocali (/a/, /ε/, /i/, /ɔ/, /u/), è anche vero che la /i/ siciliana è caratterizzata da un’indeterminatezza tale da non potere essere posta sullo stesso piano rispetto alla /i/ dell’italiano standard, collocandosi, invece, in una posizione intermedia, tra la /i/ e la /ε/ siciliane103.

Ancora dovuto all’influsso del dialetto siciliano, ma da un punto di vista consonantico, è il fenomeno per il quale Peppino rende graficamente il termine bambino come “Bammino“ (8.3.1-VI), parola in cui il nesso consonantico “mb“ italiano viene reso come “mm“ in quanto la nasale bilabiale sonora esercita una forte influenza sulla bilabiale sonora, assimilandola a sé – fenomeno, secondo Ruffino, diffuso in tutta la Sicilia tranne che per la zona nord-orientale (Ruffino 2001 : 52), dalla quale però Peppino proviene. Interessante è inoltre il fatto che in una delle prime produzioni Peppino riuscisse ancora a tenere a bada l’influsso del siciliano, come dimostra la parola “binbo“, bimbo (8.3.1-VI) o, addirittura cercasse di resistere all’impeto dialettale come dimostrato dal seguente esempio di scontro italiano-siciliano e di transizione verso la grafia dialettale: “nabinma“, una bimba (8.3.1-VI). L’influsso dialettale condiziona però anche le singole lettere, come nel caso di Patre“ (8.2-VII), sic. patri, per cui si passa da un’occlusiva dentale sonora /d/ ad una dentale sorda /t/.

Si segnalano, infine, la resa della laterale sonora /l/ come vibrante /r/ nel verbo “alzarsi“, il quale viene reso come “ti arzi“ (8.2-III), “ci faceva arzare“ (8.3.3-I) e “si arza“ (8.3.4-IV), fenomeno non di rado presente nell’italiano popolare siciliano parlato; e la resa grafica della <moès> come <z>, ossia la resa di una fricativa alveolare sorda /s/ come un’affricata alveolare sorda /ts/ negli esempi “conziglia“ (8.2-VII), “inzomma“ (8.2-IV) e “penzo“ (8.2-IX), anch’esso fenomeno diffuso nel corpus e dovuto all’interferenza con il siciliano.

Sulla complessità del tema, dovuta sia alla relativa libertà da parte dei linguisti di area germanofona nell’attribuire a questa etichetta valori spesso differenti, sia ad una questione prettamente terminologica (accanto alla Varietätenlinguistik convive, infatti, in ambito germanofono la “Variationslinguistik“ o “linguistica della variazione“), oltre che per una più approfondita disamina sugli studi condotti sulla variazione linguistica, (cfr. Sinner 2014).
Per un approfondimento sul carattere sociale dell’uso del linguaggio, cfr. Lepschy 1996, 139-143.
L‚influenza sociale sulla realtà linguistica si riflette ad esempio sia nello status attribuito dai parlanti a determinate varianti che in quello attribuito dalla società stessa a determinate varietà di lingua o lingue (Krefeld 2016, 262); sul ruolo attivo dei parlanti in quanto agenti sociali nella standardizzazione dell’italiano, come esempio di influenza sociale sulla lingua, invece, cfr. Serianni 2006 e Berruto 2007.
Non presentando alcuna differenza strutturale rispetto alla ‚lingua italiana‘ (D'Agostino 2007, 69), i dialetti presenti sul territorio italiano non devono essere considerati come “varietà locali della lingua nazionale, né tantomeno [come] deformazioni o correzioni di questa [in quanto] proprio come l’italiano letterario – costituitosi anch’esso sulla base di un dialetto (il fiorentino trecentesco) – e come le altre lingue e i dialetti romanzi, [essi] derivano dal latino volgare e hanno dunque, dal punto di vista storico-linguistico, la stessa dignità della lingua“ (D'Achille 2003, 13). La distinzione operata tra dialetto e lingua sarà allora di tipo esclusivamente sociale e dipenderà dal prestigio linguistico di cui i due sistemi godono presso i parlanti (D'Agostino 2007, 69).
Per un ampio approfondimento sulla situazione italo-romanza pre-unitaria, si rimanda qui al fondamentale “Storia linguistica dell’Italia unita“ di Tullio De Mauro (1986), oltre che a Bruni (1984, 81-172); tuttavia, vale la pena ricordare qui brevemente che “prima dell’Unità, l’italiano al di fuori della Toscana (dove lingua e dialetto sono sempre stati in rapporto di contiguità), era una lingua nota a un numero di persone alquanto ridotto [in quanto] la stragrande maggioranza della popolazione parlava […] uno dei dialetti che si erano formati nella nostra penisola dopo il crollo dell’Impero romano“ (D'Achille 2003, 23).
Uno dei principali fenomeni che portarono gli italiani ad avvicinarsi ad una lingua nazionale è certamente costituito dal processo di alfabetizzazione legato all’obbligo scolastico introdotto dalla legge Casati già nel 1859 (sebbene il tasso d’evasione all’obbligo sia rimasto molto alto almeno sino agli anni Trenta); ma a giocare un altrettanto rilevante ruolo nella diffusione della lingua nazionale furono altresì la crescente industrializzazione e l’urbanizzazione ad essa relativa, fenomeni per i quali le grandi masse contadine si spostarono dalle zone rurali alle città, provocando tra i nuovi e i vecchi cittadini l’esigenza di intendersi in una lingua comune; la successiva promozione della lingua unitaria avvenne parimenti grazie ai mezzi di comunicazione di massa quali i giornali, la radio e, a partire dagli anni Cinquanta, la televisione, “scuola di lingua e di cultura“ grazie alla quale “i ceti diseredati relegati in posizione subalterna dalla scarsa cultura […] imparano a parlare l’italiano e, con l’italiano, imparano com’è fatta la cultura dei cittadini, delle classi dominanti“ (De Mauro 1994, 128). Per un esaustivo e dettagliato approfondimento sul tema, si rimanda al sopracitato De Mauro (1986).
Non per negligenza, ma poiché il focus verte qui sul rapporto tra i due diasistemi maggiori, non affronteremo in questa sede la questione delle minoranze linguistiche presenti sul territorio italiano e delle relative altre lingue ivi parlate. Per una  descrizione sociolinguistica del complesso repertorio italiano plurilingue relativo ad antiche e nuove minoranze, si rimanda a Francescato (1993), D’Agostino (2007) e Krefeld (2016), il quale distingue in tal senso due tipologie di sociolinguistica: quella degli idiomi, la quale comprenderebbe lo studio delle lingue minoritarie e i dialetti; e quella della variazione, inerente, come vedremo, allo studio di specifiche varianti avvertite come marcate dai parlanti, e propria della varietistica (Krefeld 2016, 263).
Con la nozione di ‚repertorio‘ si intende “l’insieme delle lingue, o le varietà di una stessa lingua, e delle loro norme d’uso, impiegate in una comunità“ (D'Agostino 2007, 109); a tal proposito, Berruto definiva il repertorio linguistico italiano medio come un diasistema (lingua nazionale-dialetto) il cui rapporto (sino ad allora definito ‚diglossico, in cui alla varietà alta era rigidamente riservato l’uso scritto e formale; mentre a quella bassa, anche impiegata per la socializzazione primaria e dunque una L1, l’uso parlato informale) rifletteva una situazione di “bilinguismo endogeno a bassa distanza strutturale con dilalìa“, indicando così la compresenza di due lingue e delle loro relative varietà, non strutturalmente troppo diverse tra loro, e non più rigidamente separate rispetto all’ambito d’uso informale, ma “impiegabili nella conversazione quotidiana e con uno spazio relativamente ampio di sovrapposizione“ (Berruto 1993, 5-6).
Al glottologo Giovan Battista  Pellegrini è infatti dovuta la prima basilare quadripartizione delle varietà presenti nel repertorio italiano; essa comprendeva l‘ ‚italiano standard o comune‘, l‘ ‚italiano regionale‘, la ‚koinè dialettale o dialetto regionale‘, ed il ‚dialetto locale‘; da questa quadripartizione presero successivamente il via altri fondamentali approfondimenti ed ampliamenti sociolinguistici alla struttura del repertorio linguistico italiano, caratterizzato dalla dialettica tra italiano e dialetti delle diverse regioni italiane da un lato e la coesistenza tra le “diverse norme di realizzazione di un medesimo idioma“ dall’altro (De Mauro 1977, 124). Per un ampio commento sulle varietà italiane e sulle relative denominazioni offerte dagli studiosi dal 1960 sino al 1987, si veda Berruto (1987); per una tavola sinottica delle diverse classificazioni delle stesse, invece, si rimanda a Berruto (1993, 18;26).
Sebbene essa non goda di uno “statuto teorico autonomo, [e si configuri anzi] come ambito di lavoro orientato in senso empirico, con scopi prevalentemente descrittivi“ (Berretta 1988, 762), Holtus-Radtke sottolineano però in ogni caso la specificità della linguistica delle varietà rispetto alla sociolinguistica: a differenza della sua matrice, infatti, la linguistica delle varietà si occuperebbe di indagare e descrivere anche dei tipi di “Varietäten [,] die nicht [nur] von der Sozialen Determination der Sprache und ihrer Sprecher abhängen“ (Holtus/Radtke 1983, 16).
Come notato da Holtus-Radtke (1983), il termine ‚varietà‘ non era tra l’altro di recente coniazione: Benvenuto Terracini se ne era infatti già avanguardisticamente occupato nei suoi lavori pre-sociolinguistici sulla dialettologia nei primi anni del Novecento, sebbene questi non si concentrassero ancora sul problema della “Systematizität“ del fenomeno, né vi fosse una “fundierte Grundlegung des Varietätenbegriffs“ (Holtus/Radtke 1983, 13-14).
Relativo, dunque, sia ad un intero sistema di lingua che solo ad alcuni tratti specifici presenti all’interno dei sistemi linguistici.
I due sistemi di base sui quali, come sostiene Dardano (1994, 344), si costruisce tutto il repertorio linguistico italiano.
Sui sempre più evidenti limiti della terminologia adottata dalla tradizione germanofona risalente alla quadripartizione delle dimensioni di variazione offerta da Koch/Oesterreicher (1985; 1990), basata sui parametri di ‚immediatezza‘ (o ‚vicinanza‘) e ‚distanza‘ – oltre che sulle conseguenti implicazioni metodologiche rispetto alla linguistica percezionale ad essa connessa – si veda il contributo “Varietà ibride? Che cosa ne pensa la linguistica variazionale“ disponibile sulla piattaforma Lehre in den Digital Humanities (Krefeld 2018).
E in tal senso, reale attuazione della linguistica della parole preannunciata da Ferdinand de Saussure (sul tema, cfr. Raimondi 2009, 15-18; Krefeld 2015).
Iannàccaro spiega, infatti, che “è proprio attraverso la constatazione della variazione linguistica (di qualunque tipo) che il parlante viene a contatto con varietà diverse rispetto al proprio idioletto […] ed è indotto a rifletterci sopra“ (Iannàccaro 2015, 23).
O, nel caso specifico dei test percettivi, nel sapere linguistico dei cosiddetti ‚informanti‘, soggetti sottoposti, ad esempio, all’ascolto di stimoli uditivi registrati dai ricercatori sul campo.
Un elemento “marcato“ è dunque un elemento “provvisto di una marca che lo contraddistingue rispetto alla sua manifestazione considerata, per motivi qualitativi e/o quantitativi, come basica, o normale, o canonica“ (Ferrari 2012, 17); la proprietà di marcatezza/non marcatezza può essere applicata a tutti i livelli dell’analisi linguistica (Ferrari 2012, 17) ed è inoltre spesso messa in relazione con i principi di naturalezza elaborati dalle teorie di morfologia naturale e sintassi naturale, secondo le quali si riterranno non marcati i tratti “cognitivamente più accessibili – ossia più naturali -, che favoriscono la processabilità dell’informazione e la corrispondenza tra la percezione della realtà e la sua rappresentazione linguistica“ (Cerruti 2009, 254).
Per un approfondimento sul tema, si rimanda al volume “Perzeptive Variatätenlinguistik“, a cura di Krefeld-Pustka (2010); oltre che a Krefeld(2015).
Simone (1990) spiega che “le lingue verbali vivono in diacronia, nel senso che si modificano nel tempo […] le manifestazioni di questo mutamento [riguardano ad esempio] la dotazione di suoni di una lingua [,] i significati e le forme delle parole [,] l’organizzazione grammaticale, e così via“ (Simone 1990, 77-78).
Sulla denominazione possibilmente fuorviante di questa varietà – la nozione di “regionale“ non va infatti pensata come corrispondente all’effettiva estensione amministrativa delle regioni d’Italia – cfr. Sobrero (2012, 129-130).
Per un più chiaro approfondimento sul ruolo delle componenti della situazione comunicativa, quali i partecipanti, gli atti comunicativi, i risultati, la cosiddetta localizzazione ecc., si veda Grassi-Sobrero-Telmon (2012, 204-211).
In senso sociolinguistico, il concetto di ‚continuum‘ indica usualmente un insieme composto da un ventaglio di varietà (tra cui si distinguono una varietà alta ed una bassa, ai due poli), i cui confini, nebulosi ed indefiniti, possono sovrapporsi e dissolversi l’uno nell’altro, impedendo una precisa identificazione delle stesse, specie se contigue, da parte della sociolinguistica (Berruto 1987, 27-28); per un approfondimento sul tema, anche rispetto alle obiezioni sollevate sulle implicazioni di questa definizione, si veda Berruto (1987, 27-42).
È ragionevole credere allora che le possibili varianti di una specifica variabile siano riscontrabili ed ascrivibili a diverse dimensioni, e che vadano a costituire – insieme alle altre – quelle che Krefeld (2018) definisce come “varietà ibride“, smentendo, nello specifico, il ragionamento di Koch/Oesterreicher (1990) il cui schema prevedeva che ad ogni dimensione della variazione corrispondesse un numero definito di varietà, a loro volta composte da un preciso numero di varianti.
Entrambi caratterizzati da fenomeni epilettici dai quali la donna era afflitta sin da giovane e a causa dei quali veniva rapportata, secondo la cultura popolare salentina, ad una realtà magica. Nonostante la loro medesima natura, inoltre, la donna ne distingueva superstiziosamente e religiosamente le manifestazioni: ella raccontava infatti di avere voglia di ballare prima di una crisi di tarantismo, e di avere la tendenza a dimenarsi per terra durante le crisi epilettiche di San Donato (Rossi 1994, 80-85).
“La scrittura parla di sé insieme a qualunque altra cosa di cui parla: essa si costituisce su proprie peculiarità di codificazione dell’esperienza, di forma di rappresentazione, di lingua, di temporalità e spazialità, di costruzione dell’interlocutore“ (Apolito 1994, 13).
“La donna ha frequentato solo la prima elementare, ma è in grado di esprimere per iscritto quanto vuole comunicare; le sue lettere presentano grossolani errori di grammatica, e sono quasi totalmente sprovviste di punteggiatura“ (Rossi 1994, 79).
Circa questo termine, D’Achille precisa che l’aggettivo semicolto (successivamente adottato, come vedremo, per indicare i soggetti interessati dal fenomeno linguistico scritto dell’italiano dei semicolti) rifletteva sia una chiara differenziazione rispetto ai termini colto ed incolto, sia una maggiore specificità rispetto alla serie terminologica assieme alla quale esso sarebbe potuto essere semplicisticamente associato: semianalfabeta, semialfabeta, semincolto; secondo D’Achille, infatti, questi ultimi sarebbero stati da collocare in un gradino più in basso rispetto al semicolto propriamente detto, in quanto “[in]capaci di servirsi dello scritto [né] per usi funzionali e pratici […], [né] per fini latamente espressivi“ e, al limite, in grado di “apporre la propria firma o poco più“ (D'Achille 1994, 42-43). Accanto alla designazione di semicolto, il linguista propone invece di apporre i termini poco colto, mediocolto, o semiletterato, in ogni caso da collocare su gradini intermediamente diversi, data la differente e non rigida caratterizzazione culturale dei soggetti semicolti (D'Achille 1994, 42-43).
Per un’approfondita, diversa argomentazione, ovvero sulle debolezze dell’originaria visione unitaria dell’italiano popolare, almeno per quanto riguarda gli elementi linguistici e non contenutistici espressi in questo tipo di lingua, si rinvia almeno a Berruto (1987, 108-110).
Basti pensare che a distanza di ottant’anni, ancora tra il 1951 ed il 1955, solo il 18% della popolazione italiana impiegava l’italiano, sebbene in forma ancora artificiosa e pomposa, poco spontanea; il 20% era invece dialettofono, mentre la restante percentuale si muoveva in un limbo linguistico diglossico, impiegando la lingua italiana in situazioni estremamente formali ed il dialetto nella quotidianità, data la sua “efficacia espressiva“ (De Mauro 1994, 117).
La necessità delle masse di “mettere da parte i rispettivi dialetti, cominciando ad usare, per intendersi, gli elementi di lingua italiana a loro noti“ si manifesta inoltre con le prime associazioni di lavoratori postunitarie e con lo svilupparsi dei primi canti sindacali e di protesta, come ad esempio il Canto degli scariolanti: questi erano infatti caratterizzati da un vocabolario semplice, in cui affioravano anche degli elementi dialettali, unito ad una certa “oscurità sintattica“, e, a livello grafico, ad un abuso delle maiuscole; altro elemento evidenziato dal linguista è la “brusca rottura stilistica“ o l’alternanza tra forme popolari e forme auliche, allora ancora persistenti a causa della forte influenza dell’opera lirica ancora sentita, il cui influsso viene paragonato da De Mauro con quello esercitato dalla televisione negli anni Cinquanta e Sessanta (De Mauro 1994, 118-121).
Il primo conflitto mondiale costrinse i soldati a misurarsi con una dimensione del tutto nuova: come spiega Glauco Sanga, infatti, i contadini non avevano mai avuto sino ad allora la necessità di avvicinarsi allo strumento culturale della scrittura, in quanto “la diffusione dell’italiano avveniva per via orale o, al più, attraverso la lettura [e] tradizionalmente in paese c’era sempre qualcuno delegato a scrivere: il parroco o il segretario comunale o un paesano colto(Sanga 1984, 173) tutt’altra situazione si presentava invece in trincea, in cui i contadini ormai soldati dovevano necessariamente confrontarsi a tu per tu con penna e carta. Tra le motivazioni che spinsero alla scrittura, ricordiamo infatti la necessità di rassicurare le famiglie sulle proprie condizioni di salute, oltre che la possibilità, nel caso dei prigionieri di guerra, di “allontanare l’incubo del rientro al fronte e della possibile morte in trincea; [di] esprimere un’autentica sofferenza psichica; [di] sottrarsi allo stigma della follia e all’istituzione, fortemente autoritaria, del manicomio; [di] tentare di rimediare a una situazione angosciante con la richiesta (nelle lettere al direttore) di ottenere la documentazione necessaria per un sicuro rientro a casa“ (Testa 2014, 101).
Come spiega Cortellazzo, una rivalutazione delle testimonianze “dal basso“ poté avvenire solamente nel secondo dopoguerra, con una rinnovata volontà politica d’opposizione alla “cultura egemonica fra le due guerre [la quale] non tollerava che, accanto alla cronaca ufficiale, linda nella forma, spesso retorica e falsa, trovasse posto la cronaca degli altri, dei protagonisti sottoposti e, infine, sopportanti il maggior peso di ogni avventura sociale“ (Cortellazzo 1972, 19).
Come spiega Lorenzo Renzi nell’introduzione alla raccolta epistolare di Leo Spitzer, questo lavoro era sino ad allora sconosciuto ai più ed i “i filologi e gli studiosi di italiano popolare ne parlavano, ma più per sentito dire che per conoscenza diretta“ (Renzi 1976, VII)).
Diversi sono i capitoli dedicati nell’opera ai dissimulati tentativi di richiesta di provviste e viveri da parte dei prigionieri a parenti e familiari. Se le lamentele sulle misere condizioni dei prigionieri avessero raggiunto l’Italia, questo avrebbe potuto costituire un ulteriore possibile movente per la continuazione dell’offensiva nel conflitto mondiale, e i prigionieri ne erano consapevoli. Sugli originali espedienti linguistici da questi ultimi adoperati per descrivere il concetto di “fame“ al fine di sfuggire all’occhio pressante della censura austriaca, si veda inoltre l’importante lavoro linguistico del filologo Spitzer sulla lingua popolare, Die Umschreibungen des Hungers im Italienischen[Le circonlocuzioni impiegate per esprimere la fame in italiano] (supplemento alla “Zeitschrift fuer romanische Philologie“, Niemeyer, Halle 1920), pubblicato un anno prima delle Lettere, lavoro in cui lo studioso mette in luce le diverse colorite strategie linguistiche impiegate per aggirare l’ostacolo della censura, il cui sguardo si era “acuito per le lamentele causate dalla fame“ e aveva comportato un “raffinamento dei metodi d’indagine impiegati“ dai censori (Spitzer 1976, 10).
Facciamo qui riferimento a tre atteggiamenti linguistici riguardanti l’alternanza del codice tra italiano e dialetto, possibili in un contesto bilingue qual era e qual è tuttora quello italiano: il code-switching o commutazione di codice, il code-mixing o enunciato mistilingue, e il tag-switching anche conosciuto come commutazione extrafrasale (D'Agostino 2007, 144; D'Achille 2003, 179). Il code-switching, ossia il passaggio funzionale da un idioma ad un altro nello stesso enunciato, viene operato consapevolmente dal parlante in base alla situazione comunicativa in cui egli si trova ed è altresì condizionato da motivazioni sociali e “identitarie“: esso dipende, infatti, sia dal prestigio sociale che lo standard riveste nella situazione comunicativa rispetto al dialetto, percepito come varietà diastraticamente “bassa“ (D'Agostino 2007, 118), sia dalla forza identitaria delle diverse varietà, in questo caso di quella dialettale, come fattore attivo di riconoscimento dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale e linguistico (D'Agostino 2007, 118); nel caso delle lettere analizzate da Spitzer, però, l’impiego del dialetto assume spesso il valore di “codice dell’intimità“ dovuto alla necessità di sfuggire agli occhi attenti della pressante censura operata dai censori sulle missive (Spitzer 1976, 107). Il code-mixing, ovvero il mescolamento non funzionale di più idiomi all’interno di una stessa frase, è, al contrario, un fenomeno non intenzionale, dovuto alle incertezze del parlante dialettofono e in particolare alla sua approssimativa conoscenza della lingua italiana (D'Achille 2003, 179). Il tag-switching, invece, si caratterizza per l’inserimento di elementi isolati quali interiezioni, riempitivi ecc. all’interno dell’enunciato (si pensi, ad esempio, alla funzione ludica del dialetto espletata tramite l’inserimento di questi ultimi elementi nella comunicazione colloquiale, specie giovanile).
È bene, tuttavia, sottolineare che per questioni legate alla censura, lo stesso Spitzer non fornì informazioni sugli scriventi, di cui non si conoscono certo i nomi, ma neppure l’età, né l’effettivo grado d’istruzione (si noti, inoltre, che non tutte le lettere raccolte dal linguista presentano lo stesso grado di competenza linguistica: alcuni mittenti risultano essere nettamente più colti di altri, o per meglio dire, meno “incolti“ di altri, nonostante lo sforzo dello studioso di creare un corpus il più possibile omogeneo a livello socio-culturale); in base al contesto, nondimeno, è spesso possibile rintracciare alcuni indizi che aiutino, pur limitatamente, a ricomporre il puzzle diastratico dello scrivente.
Qui De Mauro faceva sarcasticamente riferimento all’azione soffocante del “greve rullo dell’italiano scolastico“ (De Mauro 1994, 134), che a poco servì – a suo avviso – nell’educazione al “pieno e libero possesso della lingua italiana“, e che invece, “per la debolezza delle sue strutture, anzitutto, poi per l’impreparazione linguistica del personale insegnante […] ha svolto un’azione di indebolimento dei dialetti [esercitando] un’azione di repressione del parlato piuttosto che di addestramento all’uso e scritto e parlato e colloquiale e formale della lingua“ (De Mauro 1994, 136).
Come spiega Berruto, anche Tatiana Alisova si era per esempio già occupata nel 1965 della struttura della frase relativa del cosiddetto “italiano popolare“ sovrapponendo, tuttavia, questa definizione alla dimensione parlata e colloquiale della lingua, e creando così una prima ambiguità tra la definizione di “italiano popolare“ e quella di “italiano parlato colloquiale“ (Berruto 1987, 105).
Oltre a Lettere di una tarantata (1970) di Annabella Rossi, infatti, si ricordano, ad esempio, il romanzo autobiografico Una donna di Ragusa (1957), di Maria Occhipinti, donna siciliana di umili origini; Quaderno (1958), diario di Alfonso Muscillo, usciere di una biblioteca romana; il Diario della grande guerra (1961) di Francesco Giuliani, pastore abruzzese. Per un ulteriore approfondimento sui testi semicolti pubblicati in questo periodo e su quelli presi in esame dagli studiosi, si rimanda a Sobrero (1975, 108, note 5 e 6); D’Achille (D'Achille 1994, 43-45, note 18-24; 28).
Le difficili circostanze storiche presenti nella storia linguistica italiana hanno influito, secondo Fresu (2016), sulla tipologia testuale in cui i testi semicolti si sono sviluppati nel tempo, tra cui si annoverano: “testimonianze provenienti dal o indirizzate al fronte“, sotto forma di lettere, ma anche nelle urgenti espressioni del sé riscontrabili in diari, memorie, taccuini di guerra; anche il fenomeno migratorio ha prodotto diverse produzioni epistolari, oltre che produzioni su cartolina o lettere indirizzate dai migranti ai giornali (Fresu 2016, 335-336). Per un approfondimento sugli ulteriori generi testuali interessati dalla scrittura dei semicolti, cfr. Fresu (2016, 335-339).
Radtke fa qui però notare come questa definizione non sia sufficientemente caratterizzante o esclusiva di questa varietà, in quanto parimenti applicabile all’italiano regionale (Radtke 1979, 44).
“In questa chiave possono quindi essere letti anche i pesanti tratti di interferenza del substrato dialettale che svolgono il ruolo della lingua materna nella varietà di apprendimento“ (D'Agostino 2007, 127).
Si parla di fossilizzazione quando la conoscenza della lingua di un individuo si blocca ad un determinato stadio senza possibilità di progressione (D'Agostino 2007, 83).
D’Agostino fa inoltre notare come questa varietà non sia allo stesso modo accostabile neanche all’italiano tipico delle produzioni dei bambini appartenenti alle prime classi delle elementari, nonostante esse presentino sovente caratteristiche simili a quelle dei testi semicolti. Parrebbe infatti poco ragionevole far rientrare queste ultime sotto l’etichetta dell’italiano popolare, in quanto gli specifici tratti di cui sopra vengono presto superati dai bambini nelle successive fasi di apprendimento scolastico, cosa che, come detto, non avviene nei parlanti di italiano popolare (D'Agostino 2007, 127).
Tra le fonti andate poi a creare il corpus analizzato da Cortellazzo vi erano: lettere di soldati e prigionieri di guerra durante il primo conflitto mondiale, caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale; lettere di altra provenienza quali quelle di emigrati friulani, o esempi come quello di Anna del Salento; memorie autobiografiche di diversa provenienza, quali ad esempio memorie di contadini lucani, di sottoproletari lombardi, o di banditi siciliani; testimonianze di diversa natura e di diversa provenienza, quali documenti di soldati processati durante la prima guerra mondiale,  o di emigrati a Milano; compiti scolastici di diversa provenienza (Cortellazzo 1972, 19-20)
Oltre a suggerire l’idea di “una varietà sovraindividuale“ (Krefeld 2016, 267).
Con la nozione di diglossia (Ferguson 1959) si intende la compresenza su un determinato territorio linguistico di due sistemi di lingua ai quali la comunità di parlanti attribuisce un diverso prestigio sociale, tale per cui uno dei due idiomi sarà considerato come varietà ‚alta‘ e di maggiore prestigio; mentre l’altro verrà connotato come varietà bassa, più informale e non adatta a contesti “alti“. È importante notare che i contesti d’uso dei due idiomi saranno rigidamente separati: alla varietà alta spetteranno i contesti formali, mentre quella bassa sarà impiegata per domini ordinari, propri della vita quotidiana (D'Agostino 2007, 77-78). Come visto in capitolo 3, però, la situazione italiana non è più ascrivibile a questo concetto: si parla oggi infatti di dilalìa ossia una condizione in cui i contesti d’uso delle due varietà A e B sono mutati: in un contesto dilalico quale quello odierno, infatti, entrambi gli idiomi, dunque sia quello “alto“ che quello “basso“, possono essere impiegati in contesti informali e colloquiali (D'Agostino 2007, 79).
Anche i due studiosi notavano, nella loro analisi, la forte influenza del dialetto su questa varietà, ed individuavano le maggiori interferenze tra parlato e scritto sul piano grafico, il cui uso non ha “riscontro sul piano del parlato, ma è insegnato a scuola“ (Sobrero 1975, 110): si segnalava dunque la presenza di doppie o scempie, là dove non sarebbero state previste, così come la poca padronanza delle regole relative all’interpunzione, agli accenti, agli apostrofi, all’uso di lettere maiuscole o minuscole, oltre che una difficoltà nella percezione dello spazio tra le parole, con i conseguenti fenomeni di agglutinazione o deglutinazione (in contro); dal punto di vista morfosintattico, frequente era l’errato accordo tra soggetto e verbo o tra sostantivo e aggettivo, dipeso dal fatto che lo scrivente si basasse su concordanze ad sensum (Sobrero 1975, 113), e ancora pleonasmi nell’uso dei pronomi (alla mamma le era piaciuta) così come l’uso di gli nelle forme oblique del femminile e del plurale, l’uso del ‚che polivalente‘, la coordinazione preferita alla subordinazione (Sobrero 1975, 113). Il  ‚modello‘ scolastico avrebbe operato meno, invece, a livello lessicale il quale, però, essendo connesso alla nuova realtà del mondo sociale, del lavoro, della televisione, portava ad una riduzione della presenza di termini dialettali; allorquando ve ne fossero stati, Sobrero parlava di una “consapevole scelta linguistica“ facendo riferimento a fenomeni rapportabili al bilinguismo, quali il commutamento di codice, oggi conosciuto come code-switching (Sobrero 1975, 115).
“Se si badasse solo alla morfosintassi, l’italiano popolare sarebbe fondamentalmente unitario“ (Berruto 1987, 109, nota 7), in quanto livello di analisi in generale meno soggetto alla differenziazione da area ad area (Berruto 1987, 109). Su questa tesi non concorda Mengaldo (1994) il quale, prendendo ad esempio l’accusativo preposizionale preceduto da a, spiega che tale fenomeno sarà sempre e solo fenomeno meridionale e mai settentrionale, se non eventualmente per motivi altri dall’affioramento dialettale. Per questa ed altre tesi contro l’unitarietà morfosintattica dell’italiano popolare, cfr. Mengaldo (1994, 109-110).
Bisogna altresì tenere presente, come ricorda Cerruti (2009), che ‚‚l’univocità di risultati a cui conduce in certi casi l’azione del sistema dialettale in regioni differenti è tale o perché, semplicemente, sono consimili le forme o le strutture di sostrato trasposte in italiano o perché l’effetto del contatto tra due codici è analogo in quanto rispondente allo stesso tipo di meccanismi“ (Cerruti 2009, 35); i tratti sovraregionali dell’italiano popolare, invece, possono essere riconducibili o a tratti tipici della testualità del parlato, o appunto a “tendenze e possibilità panromanze latenti in italiano“, tratti che facilmente si riflettono anche nell’italiano regionale (Cerruti 2009, 35), come ad esempio quello della ’semplificazione‘,  un meccanismo linguistico che avviene quando “a una certa forma (o struttura) di una lingua si contrappone una forma o una struttura più semplice, cioè più facile da realizzare, meno complessa, che può sostituire la prima senza che si perdano le informazioni essenziali contenute nel messaggio“ (Sobrero/Miglietta 2011, 175).
“Statisticamente, l’insieme di tratti che caratterizza in maniera più o meno netta e ‚densa‘ questa varietà tende a presentarsi presso parlanti diseredati culturalmente, presso le cosiddette classi subalterne scarsamente scolarizzate e poco/non colte [;] il carattere di ’sociale‘ è insomma netto se lo inquadriamo nei parametri di classificazione di varietà della lingua […], ma, come del resto è da supporre in generale per quanto riguarda le relazioni tra varietà di lingua e utenti, non è affatto deterministico“ (Berruto 1983, 87).
Non è del tutto facile distinguere con chiarezza “ciò che è popolare da ciò che è meramente informale e colloquiale“ (Lepschy 1989, 30); dal punto di vista morfologico e sintattico, ad esempio, sono diversi i tratti che le due varietà condividono: concordanze devianti, ridondanze pronominali, impiego del che polivalente, concordanze ad sensum; topicalizzazioni e riprese enfatiche (Berruto 1983, 93).
Parliamo qui dunque di eventuali tratti appartenenti a varietà diatopiche e diastratiche marcati anche diafasicamente, e non delle varietà in toto, le quali difficilmente possono “rappresentare esse stesse varietà marcate in diafasia“ (Cerruti 2009, 35).
Incertezza continuamente “soggetta a pressioni d’ogni tipo: dall’italiano aulico ai linguaggi settoriali al dialetto“ (Sanga 1984, 15). Sulla funzione dell’incertezza della norma, si noti, inoltre, come questa contribuisca “alla formazione di un uso instabile e fluttuante, al cui interno si vanno comunque delineando delle cristallizzazioni (sempre soggette a possibili regressioni) che, per ampiezza di diffusione, tendono ad imporsi agli italiani regionali ( e di qui allo standard)“; secondo Sanga, e successivamente Berruto, l’italiano popolare risulta come il “maggiore centro di innovazione linguistica della lingua italiana“.
Si rimanda qui al modello delle varietà di italiano proposto da Sabatini (1985), in cui si propone un italiano standard in opposizione all‘italiano comune, così come la coppia italiano regionale delle classi istruite e italiano regionale delle classi popolari (o semplicemente italiano popolare). Una simile suddivisione varrebbe inoltre anche per il sistema linguistico dialettale, nel quale si riconoscerebbero un dialetto regionale/provinciale ed un dialetto locale (Sabatini 1985).
Berruto propone inoltre di vedere all’interno dell’italiano popolare stesso una “piccola gamma di sottovarietà“, facendo distinzione tra un italiano popolare ‚basso‘ e un italiano popolare ‚medio‘, meno marcato e con minori interferenze dialettali (Berruto 1987, 114-115).
Usi in cui “vengono specialmente in primo piano tratti che in una corrispondente formulazione orale sarebbero del tutto inosservati, anzi invisibili“ (Berruto 2014, 280).
L’italiano popolare orale si caratterizza manifestamente nella pronuncia regionale “marcata verso il basso“ (Sobrero/Miglietta 2011, 101), ma anche per le false partenze, per le frequenti riformulazioni, per i generali cambi di progettazione nell’organizzazione testuale con le conseguenti correzioni e ripetizioni, e ancora, per i passaggi dal discorso diretto all’indiretto e per l’uso improprio delle forme al congiuntivo e al condizionale, oltre che per gli anacoluti e le topicalizzazioni; come ancora indicato da Sobrero-Miglietta, dal punto di vista morfologico, esso è caratterizzato dalle concordanze a senso e dalle ridondanze pronominali (tratti, come visto, spesso presenti nell’italiano colloquiale), ma anche da semplificazioni nominali e verbali, scambi di preposizione ecc; il lessico, invece, è ricco di termini generici (affare, cosa, coso, roba), ed è forte la tendenza ad inserire nel discorso espressioni e termini appartenenti alla sfera della burocrazia o termini aulici e tecnici, finendo però per storpiarli sul piano del significante, e risultando nei cosiddetti malapropismi, come vedremo nel capitolo 6 (Sobrero/Miglietta 2011, 100-101). Tutti questi fenomeni tipici dell’oralità si rivelano importanti per la nostra trattazione in quanto coerentemente trasposti nello scritto (Sobrero/Miglietta 2011, 100).
Sulla questione della possibile collocazione temporale dell“’Ur-italiano popolare“ e sulla nascita delle prime scritture semicolte propriamente dette rispetto alla normalizzazione grammaticale bembiana Cinquecentesca e pre-cinquecentesca, oltre che sulla separazione tra scritture proprie della varietà “alta“ e scritture riconducibili alla varietà “medio-bassa“, si vedano i critici lavori di Berruto (1987, 112-113) e Testa (2014, 21-24), oltre che il fondamentale lavoro di D’Achille (1994, 49-52; 57-65) ed i lavori di Valenti riguardanti questa varietà nel contesto cinquecentesco specificatamente siciliano (Valenti 2015, 533-542). A tal proposito, data la cospicua presenza di una parte dei tratti sub-standard nell’italiano popolare, concordemente con Bruni, Berruto sostiene che l’italiano popolare abbia offerto “una gamma di possibilità presente nell’italiano degli inizi, poi esclusa dalla codificazione bembiana della norma letteraria [e ricomparsa] con vigore quando una massa prima inesistente di parlanti non colti si è appropriata di una varietà di italiano“ (Berruto 1987, 113).
Dall‘Appendix Probi, una lista contenente 227 “errori di lingua“ evidentemente ben radicati nell’ambiente romano del primo secolo, che il grammatico Marco Valerio Probo tentò di correggere, al Satiricon di Petronio, testo contenente la nota Cena di Trimalchione, passaggio rappresentativo della compresenza di diversi stili impiegati dall’autore per distinguere socialmente i propri personaggi e volutamente rivelatore di una lingua “altra“, non rientrante nelle categorie normative imposte dal latino classico, fino ad arrivare all‘Itinerarium Egeriae, testo autobiografico ben lontano dal latino classico e improntato sul parlato dell’autrice, la pellegrina romana Egeria (Bruni 1984, 175-189).
Sulle drammatiche dinamiche che mossero gli scriventi semicolti alla scrittura durante la prima guerra mondiale, cfr. (Fresu 2015).
Cogliamo qui l’occasione per una dovuta precisazione sulle modalità di traduzione adottate nella nostra trattazione: le traduzioni da noi proposte vogliono anzitutto essere strumento per la globale comprensione semantica dei testi analizzati. Nonostante si sia tentato, infatti, in un primo momento, di mantenere almeno una certa aderenza morfologica e sintattica al testo originale, si è reso subito chiaro come ciò avrebbe inevitabilmente portato ad incomprensioni e malintesi, già presenti negli originali, anche all’interno delle traduzioni stesse. Di conseguenza, si è scelto di tradurre le intere lettere ed i frammenti presi in esame rendendoli il più possibile coesi e coerenti, laddove possibile, ai fini del nostro lavoro. Nostre sono anche le traduzioni in italiano dei singoli termini dialettali riportati nelle traduzioni, eccetto dove diversamente specificato; e a tal proposito, è doveroso ricordare che siamo consapevoli del fatto che altri studiosi, specie se di origine siciliana e provenienti da zone dell’isola diverse rispetto alla nostra, potrebbero riscontrare delle incongruenze (fonetiche, morfologiche, lessicali) tra la varietà qui riportata e la varietà da loro stessi parlata. È quindi fondamentale ribadire che i termini dialettali siciliani riportati nell’analisi sotto la voce “sic.“ non hanno la pretesa di essere riconosciuti come rappresentativi di un ipotetico siciliano standard: essi sono forme e termini facenti invece parte della varietà di siciliano parlata nel paese di Galati Mamertino, alla quale ci rifacciamo.
Sono aspetti questi che ben conosciamo, in quanto a noi raccontati in prima persona più e più volte nel corso degli anni.
Da diversi anni, la moglie di Peppino è a letto, a causa della demenza senile. Ella non parla, né pare recepire le parole dei familiari. Ciononostante, Peppino le porta ogni giorno un fiore raccolto nel giardino di casa, parlandole e rassicurandola sul bene che le vuole.
<<Siccome sono una persona che vuole sempre lavorare, scrivo ancora e mi piace tanto e per questo non mi non voglio smettere di scrivere, e così passa il tempo senza che ce ne si accorga, se no mi potrei mettere a dormire [il pomeriggio], però poi la notte non dormirei. Ed è per questo che non voglio dormire durante la bella giornata, e poi ve lo leggerò, questo bello scritto>>.
E ancora, durante i quotidiani colloqui con la famiglia, Peppino declama di essere, metaforicamente parlando, un professore, tanto è il suo sapere.
Sebbene le scuse per la propria scrittura siano presenti nella produzione di Peppino, abbiamo notato come queste vadano nel tempo via via scemando, rivelando la sicurezza dell’uomo, sviluppatasi con l’esercizio della stessa, nei confronti del testo scritto.
È qui inoltre interessante notare come, durante la lettura ad alta voce delle lettere e dei pensieri scritti, se da un lato Peppino legge effettivamente quanto trascritto, dall’altro va un po‘ a memoria, iniziando a pronunciare le prime sillabe, saltando alcuni caratteri o direttamente alcune parole, ma completando ugualmente la frase ed il pensiero ricordando quanto scritto, in quanto gli episodi narrati da Peppino nel nostro corpus costituiscono in gran parte una sorta di repertorio di eventi e narrazioni che l’uomo ha sempre condiviso oralmente con le figlie e la famiglia nel corso della sua vita. Avendo usufruito „in anteprima“ delle eventuali spiegazioni fornite da Peppino sulle proprie produzioni, le figlie dell’uomo hanno potuto aiutarci a sciogliere alcuni punti per noi di difficile comprensione o generalmente oscuri.
Data la distanza fisica che intercorre tra chi scrive e Peppino, non è stato possibile inoltrare il questionario di persona a Peppino; esso è stato bensì inviato alle figlie dell’uomo, le quali si sono occupate di raccogliere ed inviarci la risposta. Anche a motivo di ciò, non è stato possibile seguire passaggio per passaggio il processo di risposta al questionario, che non potremo perciò descrivere nel dettaglio.
<<Io Sono Nato a Galati Mamertino nel 1931 e sono nato il 24 e mi hanno dichiarato [all’anagrafe] il 25. Io ho fatto solo la terza elementare e avevo circa 9 o 10 anni, e poi a 14 o 15 mi sono fatto la scuola serale e [il maestro] ci faceva fare anche le lettere per la fidanzata. Io a 16 anni sono andato a zappare [sic. zappuliare] il grano e poi io, per evitare di venire a Galati sono rimasto ad aiutare le mie zie a Troina. E Io ho fatto sempre il contadino, come i miei cari genitori, tranne quando ho fatto il militare a Casale Monferrato e poi sono andato ad Alessandria. C’è stato un soldato che mi ha chiesto: «Fazio, ma tu come hai imparato a parlare italiano?» e Io gli ho detto: «Così come mi parlano, io rispondo. Se no, se io parlassi loro come [parlo] nel mio paese nessuno mi potrebbe capire». E poi quando sono tornato a  casa, dopo dieci mesi, mi rallegravo di parlare in italiano e adesso posso parlare con tutti come mi piace. E quando scrivevo a casa, scrivevo in italiano e io quando nella busta mettevo cinquecento lire, la mia cara mamma era analfabeta e correva per aprire la busta e mio padre, che sapeva scrivere e leggere, le diceva: «perché corri se non sai leggere?». Il mio caro papà ha trovato tre soldi e si è comprato il quaderno e con un solo soldo una matita [sic. lapis] e se n’è andato a scuola e il suo caro papà ha detto [parlando con il maestro]: «a mio figlio non c’è bisogno che gli insegni [le varie cose che si insegnano a] scuola. Gli deve solo insegnare [sic. imparari] l’educazione». E allora il mio caro padre ha pensato: «ma allora io che cosa sono? Un animale?» e allora, da allora [sic. di tannu] in avanti è diventato un bravo bambino e poi anche una bravissima persona e diceva che le persone brave possono stare in tutte le società civili. Io parlo come mi piace però, quanto allo scrivere non si può scrivere in dialetto: si deve scrivere per forza in italiano>>.
Utilizzando le domande del questionario come una griglia da cui partire per costruire una produzione, eludendo, però, diverse delle stesse.
Pur non preoccupandosi però di spedirle: esse sono infatti serenamente conservate nei quaderni e solo qualora si presenti l’occasione, vengono mostrate agli interessati. In ogni caso, però, bisogna notare come Peppino non ponga mai all’interlocutore delle domande che prevedano delle risposte dal destinatario, come a segnalare, a livello inconscio, di sapere già che questi non riceverà la lettera.
A proposito del genere epistolare, Fresu (2008) ritiene, inoltre, che la “dialogicità a distanza“, tratto proprio del genere della lettera vada a giustificare “i cedimenti verso una pianificazione arcorata all’oralità e sfumata in toni familiari e informali“, nelle scritture semicolte.
A tal proposito si segnala la presenza di cosiddetti “doppioni“ nei nuclei tematici, come accade nelle produzioni di Tommaso Bordonaro, siciliano semicolto classe 1909, emigrato in America; come spiega Amenta (2012, 737), con il passare del tempo, Bordonaro pare avere dimenticato di avere scritto ed inviato le proprie produzioni al professore che ne curava le edizioni, creando, così, nuove produzioni sugli stessi temi già trattati. Anche le produzioni di Peppino presentano, come detto, più volte gli stessi argomenti; tuttavia, pare che questo sia non tanto da ricondurre alla memoria dell’uomo, che pure certamente potrebbe giocare dei brutti scherzi; quanto all’importanza che per lui queste tematiche rivestono. Per quanto riguarda, al contrario, l’inserimento di veri e propri doppioni di racconti, canzoni e poesie, simili nella forma oltre che nel contenuto, è lì possibile che ciò sia da attribuire al fatto che l’uomo non ricordi di averle già “immortalate“ per iscritto. In ogni caso, la presenza dei doppioni ha talvolta reso più leggero il processo di ricostruzione e traduzione dei testi, spesso a tratti criptici.
Non deve qui stupire la convergenza tra tali discipline, apparentemente lontane tra loro: come fa notare Spina, infatti, uno dei tanti elementi di contatto tra le due sarebbe costituito dal fatto che entrambe si occupano dello “studio di diverse modalità di comunicazione che, in entrambi i casi, avvengono mediante l’uso di codici“ (codifica e decodifica del codice nel passaggio tra parlante-mittente e parlante-ricevente, nel caso delle lingue naturali; codifica in “linguaggio macchina“ delle istruzioni ricevute dall’utente, e codifica della risposta della macchina in un linguaggio comprensibile per l’utente, nel caso degli elaboratori elettronici) per la trasmissione dell’informazione (Spina 2001, 9). Strumenti e metodi visceralmente propri dell’informatica vengono inoltre serenamente utilizzati dalla linguistica: uno su tutti, il parametro della composizione/scomposizione tramite il quale essa opera la segmentazione del continuum linguistico, parametro caro all’informatica che è “per sua natura, basata su tecnologie che permettono di atomizzare oggetti diversi (testi scritti e parlati, immagini fisse e in movimento, suoni), [ e ] di scomporli nella catena di zero e di uno su cui si fonda il codice binario che essa utilizza“ (Ivi: 10). Per un approfondimento sugli ulteriori punti di convergenza e punti di scambio tra linguistica ed informatica, si veda Spina (2001, 9-12).
Come spiega Spina (2001, 7)l’esponenziale evoluzione delle tecnologie informatiche ha permesso di passare dai primi rudimentali “calcolatori elettronici“ diffusisi negli anni Quaranta-Cinquanta ai personal computer sviluppati trent’anni dopo, passando da un iniziale dominio contestualmente ristretto quale quello prettamente scientifico (si pesi a discipline basate sul calcolo quali matematica e fisica) ad una funzionalità eclettica (general purpose) che potesse aprire a diverse operazioni, tra cui spiccano, tra le altre, la conservazione ed il trattamento di informazioni attraverso lo strumento dell‘elaboratore elettronico. Spina individua inoltre le origini teoriche della disciplina nelle menti di filosofi e matematici quali Leibniz, Boole, Pascal e Russell, in quanto lo sviluppo delle nuove tecnologie sarebbe derivato proprio dall’intersezione tra studi di logica e studi matematici (Spina 2001, 8).
Per un approfondimento diacronico sullo sviluppo delle iniziative più rilevanti nel campo degli studi linguistici assistiti da computer, cfr. Spina (2001, 17-29).
È interessante vedere come l’ambito linguistico in cui la linguistica dei corpora trova maggiore applicazione sia quello lessicografico, ambito in cui è possibile operare un celere confronto digitale dei dati; nel caso della sintassi, al contrario, l’analisi linguistica del dato testuale fornito dal corpus non è sufficiente, in quanto è necessario contestualizzare le connessioni sintattiche tramite l’aggiunta di ulteriori informazioni ad opera dell’uomo stesso (Spina 2001).
A tal proposito è bene sottolineare la presenza di alcune annotazioni trascritte dalle curatrici del materiale sulle copie originali delle produzioni dell’uomo, circa la data di stesura delle stesse (prevedendo di spedirle o tentando, talvolta, di ordinarle cronologicamente), o sotto forma di delucidazioni rispetto al pensiero – o alla scrittura stessa – a tratti poco cristallino del padre, nella previsione, nel caso delle lettere, di farle leggere con più scorrevolezza agli interessati. Si potrebbe pensare che queste vadano a confondersi con le note apposte dallo stesso scrivente e a compromettere il lavoro di ricerca, ma in realtà gli interventi da parte di terzi sull’originale si distinguono sensibilmente dalle annotazioni dello stesso Peppino: le due tipologie di correzione o intervento sono infatti visibilmente diverse e ben riconoscibili per calligrafia, colore dell’inchiostro e carattere impiegato, in quanto Peppino non sembra conoscere altro carattere che il corsivo minuscolo, mentre le figlie impiegano di norma lo stampatello maiuscolo o, al limite, un corsivo minuscolo con una calligrafia comunque inequivocabilmente non attribuibile a Peppino.
In tal senso si è fatto riferimento alla metodologia di raggruppamento per tema seguita da Leo Spitzer nell’edizione delle Lettere di prigionieri di guerra italiani (1915-1918), nella quale il linguista analizzò le specificità delle lettere raccolte in 23 diversi capitoli a cui aveva dedicato una specifica tematica ricorrente nelle produzioni: la lontananza, l’attesa della pace, le richieste di denaro e vestiario sono solo alcuni dei diversi temi che più si riproponevano nello scambio epistolare contenuto in questa edizione.
Si è qui reso necessario impiegare una tripla barra obliqua al fine di distinguerla sia dalla singola barra obliqua da noi regolarmente inserita nei testi riportati per segnalare il tornare a capo di Peppino, sia e dall’effettivo inserimento operato dall’uomo di una sbarra obliqua nel riportare una data, in 8.3.1-VIII: “11//12//2182018“.
La lettera che presenta questo fenomeno è difatti quella che aveva più possibilità di essere realmente recapitata al destinatario o, se non propriamente recapitata, quantomeno mostrata alla diretta interessata: stiamo parlando della lettera 8.2-XVI, indirizzata alla parrucchiera del paese. La produzione potrebbe avere subito delle lievi correzioni non solo per volontà di Peppino durante la sua personale rilettura, ma da parte delle figlie. Di conseguenza pare qui corretto sottolineare la possibile non piena attendibilità della specifica correzione effettuata tramite < / >.
Tramite il lavoro di lettura, trascrizione e analisi eseguito in questi mesi sulle produzioni di Peppino, si è avuto modo di sviluppare una comprensione del modus operandi dell’uomo rispetto alla scrittura e alla sistematicità delle soluzioni da lui adottate. Questo ragionamento non vuole dunque avere la deterministica pretesa di conoscere come egli si sarebbe potuto approcciare alla risoluzione del problema dell’inserimento, tra due parole precedentemente univerbate quali sono avoluto <<hai voluto>>, del grafema i dimenticato durante la stesura. È tuttavia opportuno ritenere, data la frequente occorrenza del fenomeno, che in casi come questo Peppino avrebbe inserito il grafema tra le due parole, non curandosi di separarle, come da noi riportato durante la trascrizione su DH.
<<Gli uomini si dividono in quattro categorie: uomini, mezzi uomini, ominicchi e quaquaraquà. Mi diceva la buonanima di mio papà, ’nzanitàte: “un uomo vale per quello che sa. Se non sa niente, che cos’è? Un ceppo [sic. zuccu] di castagno [sic. castagnera]“; e mio padrino mi diceva: “chi è buono, è buono per tutti. Chi è cattivo [sic. tintu], è cattivo per se stesso“; era fratello di mia mamma: questa è la mia intelligenza!>>.
Anche in tal senso, in questo specifico esempio, sembra poco probabile che questi siano stati inseriti dalle figlie, le quali godono di un’istruzione tale da consentire loro di poter distinguere i corretti usi della punteggiatura; siccome, inoltre, questo passaggio non interessa terzi se non Peppino stesso, escludiamo che sia stato “maneggiato“ e corretto dalle figlie dell’uomo, come invece avviene nel biglietto d’auguri per la laurea della nipote Alessia o in altre lettere, le quali, essendo rivolte ad altri, sono spesso state riviste dalle due donne, al fine di rendere, come più volte detto, la lettura più scorrevole.
A proposito dell’impiego della virgola, si segnalano la lettera 8.2-XXII in cui essa separa, in un’elencazione di nomi, un elemento dall’altro, per poi assumere infine il valore del punto fermo a chiusura della frase e ad apertura della successiva: “la strata che saliva della turre labiamo / ziaia quattro Io, Calogero Conte, la / Signora Gina mmanna e famoso / chognato Antonino pinitto, u bonanima / di nostro fratello Antonino mia detto / stai atento“ <<la strada che saliva dalla torre l’abbiamo percorsa per la prima volta [sic. nsaiata, da nsaiari, lett. provarsi un abito nuovo, cfr.  Giarrizzo (1989, 232)] in quattro: io, Calogero Conte, la Signora Gina mmanna e il famoso cognato Antonino pinitto. La buonanima di nostro fratello Antonino mi ha detto “stai attento!“>>; ed il pensiero 8.3.1-VIII, in cui le virgole compaiono – sebbene non sistematicamente – con la stessa funzione nell’elenco dei fratelli e delle sorelle di Peppino: “eravamo quatro / fratelli e tresorelle. Langhiu / si grande si chiamava Concettina / laseconda Giuseppina poi cera / un fratello che si chiamava / Salvatore, Io, poi Antonino, / Lina é Paolino.“.
Segnalando la citazione di parole pronunciate da terzi tramite l’inserimento dei due punti, Peppino si porrebbe su un diverso livello del discorso narrativo, rivelando la propria competenza metacomunicativa. Tuttavia, vista l’assenza di questo atteggiamento nella restante produzione dell’uomo, dove, al contrario, come vedremo, egli passa con nonchalance da un piano all’altro, dobbiamo concludere che questo segno d’interpunzione sia stato inserito dalle figlie.
Sul perché del doppio inserimento della barra obliqua nella nostra trascrizione delle lettere, cfr. il capitolo 5.3.2 della nostra trattazione.
Non è men che meno pensabile che Peppino sia a conoscenza dell’opposizione tra le varianti standard /e/ ed /ε/, così come quella tra /o/ ed /ɔ/, e che tenti di riprodurla, a motivo della difficoltà regionale di distinzione tra l’opposizione di queste ultime due varianti aperte e chiuse, le quali nel sistema vocalico siciliano vengono neutralizzate, lasciando spazio alle varianti aperte /ε/ ed /ɔ/ (D'Achille 2003, 184) .
Ricordiamo, infatti, che durante il periodo militare trascorso a Casale Monferrato, all’età di vent’anni circa, Peppino soleva inviare delle lettere ai genitori rimasti in Sicilia.
Non prenderemo qui in esame il primissimo testo scritto di Peppino risalente al 2016, il biglietto d’auguri per la laurea della nipote Alessia, in quanto, presentando una notevole quantità di punti fermi estranei alle successive produzioni, è grande la possibilità che il testo ottenuto sia stato il risultato finale di suggerimenti, correzioni e manipolazioni apportate, per l’occasione, dalle figlie di Peppino allo scheletro del testo da lui elaborato.
Sulla particolare resa grafica della parola, cfr. § 5.3.4.
Cfr., a tal proposito, Ruffino (2001, 77-78).
A tal proposito è interessante notare, come spiega Spitzer, che i termini geografici estranei alla coscienza popolare vengono storpiati sul piano del significante, venendo paretimologicamente “assimilati alla meglio a parole italiane note, anche se prive di senso“ (Spitzer 1976, 38), costituendo una sorta di malapropismo, come vedremo in 5.5; la parola “Jugoslavia“ doveva certamente rientrare tra la serie di termini “esotici“ di difficile assimilazione e riproduzione per una persona dalla bassa istruzione quale Peppino, come dimostra altresì un secondo inserimento della stessa, “avicusgrauria“ (8.3.4-III), nel quale la storpiatura è ancora più evidente.
Parlando della nascita della seconda figlia in 8.2-XXIV, ad esempio, di fondamentale importanza per l’uomo paiono le parole: “Dottora“ <<dottori>>; allo Spetale“ <<all’ospedale>>; Lasignora Lucia Lavitrice“ <<la signora Lucia, la levatrice>> ossia la donna che assisteva la moglie durante la gravidanza; l’aggettivo Poveretta“, espresso compassionevolmente nei riguardi della moglie sofferente per i dolori del parto e alla quale è indirizzata la lettera.
<<Spero che la presente lettera venga a trovare a te. Io ti voglio tanto bene come tu vuoi bene a me e alla nonna, che ti vuole bene. Tu sei intelligente […] mi ricordo quando, ’nsanitate, è venuta a mancare la tua nonna Nunzia, gli hai chiesto alla nonna Nina se si era dispiaciuta e lei ti ha risposto “certo, gioia“. Adesso ti salutiamo, io e la nonna che anche lei ti vuole tanto bene e ci dico presto ci vieni a trovare tu. Ti abbracciamo baciandoti>>.
Le maiuscole sono, infine, impiegate pressoché regolarmente per i nomi dei mesi dell’anno, che di norma dovrebbero essere scritti in minuscolo: “gennaio Febraio Marzo A Prili Magio Giugno Luglio A_gosto Settenbre Ottobre Novebre ĕ Dicenbre: “, 8.3.2-V; e con le lingue (parola anch’essa riportata in maiuscolo), come si nota nel frammento precedentemente analizzato (8.3.1-VII): “Inglse Tedec Te Tedesco è Fra / è Francese Italiano / Inglese Tedesco é Francese? / Mia Nipote Parla queste / l Lio Lingue“.
Allo stesso modo, si potrebbe ipotizzare una certa difficoltà nella resa grafica della lettera <j> riscontrata nella scrittura della parola “Jugoslavia“; in questo caso, però, sembra più plausibile credere che Peppino non fosse a conoscenza di come si scrivesse questa parola e che la conoscesse avendola sentita nominare a qualcuno, possibilmente durante il suo soggiorno militare in Piemonte; non avendo dunque idea dell’implicazione della <j> nella denominazione di questa nazione, Peppino la riporta graficamente realizzando quello che si caratterizza come un malapropismo, come precedentemente accennato e come vedremo più approfonditamente nel capitolo 6.3
Per quanto riguarda il nesso <gh> – presente in “ora voghio finire“, ora voglio finire (8.2-IV) – si nota come esso rifletta l’interferenza dialettale del verbo sic. vogghiu, il quale viene trasposto all’italiano voglio, e come la forma risultante rifletta una commistione di elementi da entrambe le lingue. Il nesso viene altresì trascritto in “Langhiu / si grande“, la più grande (8.3.1-VIII): è evidente l’interferenza con il siciliano a cchiù ranni, forma che qui appare, però, ipercorretta o risultante da un’assimilazione della <g> ad una possibile nasale velare sonora /ŋ/ che la precede.
È bene qui precisare, però, che non si tratta di un fenomeno sistematico nel corpus: più volte Peppino va a capo dimenticando di segnalare il procedimento apponendo il segno ( = ), come, ad esempio, in in 8.2-XX: “cimancha / va un ferro“ <<gli mancava un ferro [allo zoccolo]>>.
Si notano, inoltre, dei casi in cui l’uomo va a capo, magari rispettando anche la corretta divisione in sillabe e segnalando l’evento tramite il segno ( = ), dimenticando, però, di scrivere nel rigo successivo la sillaba da riportare, come in 8.3.3-II: “e mipia= / tanto“ <<e mi piace tanto>>; o in 8.2-XX: “u banani= / di donturigu“ <<la buonanima di Don Turiddu>>; fenomeno di distrazione dovuto forse alla fretta e alla foga di Peppino nello scrivere.
Per rendere maggiormente l’idea, essa potrebbe ricordare il suono che in inglese viene reso con la vocale breve /ɪ/, di will, rabbit, Latin ecc.

6.2. Livello morfosintattico

Vista la complessità della morfosintassi italiana, specie per quanto riguarda il sistema pronominale e quello verbale, ma non solo, nell’italiano dei semicolti questo piano risulta particolarmente marcato rispetto allo standard, in quanto interessato sia da meccanismi di semplificazione e analogia, che dall’interferenza dialettale, che porta all’adattamento di alcune forme italiane a quelle dialettali. Per questo livello di analisi linguistica prenderemo in esame tre lettere di Peppino, nelle quali è possibile riscontrare fenomeni interessanti per la nostra trattazione.

La prima risale al 2016, ed è indirizzata alla nipote maggiore:

Cara Alessia Tiscrivo queste due paro= / fle perdirte che stobene disalute / ĕ chosi spero chestai Bene an che / Tu e i Tuo Tue amice ĕ Ti voglio / Tanto Bene chome Tu voi Bene / A Mé Tisaluto ē Tidico che / mentre che dormivo Tío sognoto / che mia Braciavi non posso / scordta Mai di Te Tusei una / Racaza tanta inteligente / e pequesto chemivoi tanto bene / perce perce vedi che Io ti voglio / assai bene non miprollugo piu / Ciao apresto intanto allungo ancora / la Mamma e uscita fori conla / Zia lesalute te mando Io dinovo Ciao eTi saluta ance Papa104

Il primo elemento a risultare marcato durante la lettura di questo passo è costituito dal sintagma “i Tuo Tue amice“, in cui notiamo la difficoltà di Peppino nella resa della concordanza tra l’articolo e l’aggettivo possessivo al sostantivo a cui essi si riferiscono. Visto l’ipotizzabile tentativo di accordo tra il possessivo Tue e la forma al plurale femminile amiche (in cui la /h/ verrebbe, come da copione, omessa da Peppino), si potrebbe pensare che l’uomo auguri qui di stare bene alla nipote e alle sue amiche, specificandone il genere femminile, forse nella convinzione che la ragazza non frequenti compagnie maschili, e violando le regole dell’accordo tra questi due elementi e l’articolo determinativo iniziale. E‘, tuttavia, ancora più plausibile supporre che, ricalcando la forma sic. amici valida sia per un plurale maschile che un plurale femminile, l’uomo volesse, invece, impiegare il sostantivo italiano “amici“ nel sintagma “i tuoi amici“, come dimostrato dall’iniziale inserimento dell’articolo determinativo plurale “i“, seguito dalla consonante del possessivo “Tuo“; e che, però, abbia riscontrato delle criticità nella resa italiana dell’aggettivo possessivo “tuoi“, forse troppo complesso ed articolato rispetto al più semplice ““ siciliano, indicante sia il plurale maschile che femminile (a tìa e i tò amici). Per uscire dall’inghippo egli avrebbe successivamente fatto ricorso alla soluzione Tue, forma qui ridotta e semplificata105. La resa in -e del sostantivo amici si spiega, infine, facendo riferimento all’interferenza con il dialetto e, più nello specifico, alla vocale finale indistinta -i, la quale, come visto in precedenza, viene spesso resa da Peppino tramite -e.

Ancora, nel sintagma nominale “una racaza tanta inteligente“ <<una ragazza tanto intelligente>>, notiamo l’uso improprio dell’avverbio “tanto“ concordato, come fosse un aggettivo, con il femminile in relazione al sostantivo “ragazza“, a causa dell’influenza dialettale: nel siciliano di Peppino, infatti, questo sintagma verrebbe reso, aggettivando l’avverbio, come “na carusa tanta ntelligenti“; allo stesso modo, segnaliamo l’impiego enfatico dell’avverbio assài in sostituzione di “tanto“, anch’esso fenomeno tipico del parlato, in posizione antecedente al sostantivo bene nella locuzione volere bene.

Cattura ancora la nostra attenzione la costruzione “mentre che dormivo“, locuzione congiuntiva di origine letteraria sostituita dal più diffuso “mentre + verbo“, e avvertita oggi dai parlanti come forma popolare o regionale (Paoli 2014), riscontrabile nel parlato scarsamente sorvegliato come anche, talvolta, nel parlato dei bambini in età scolastica; secondo D’Achille, inoltre, esso potrebbe inoltre costituire una forma cumulativa tra la congiunzione ed il cosiddetto che “polivalente“ (D'Achille 1994, 72).

Per quanto riguarda, infine, l’ordine dei complementi disposti nelle frasi delle produzioni, notiamo un altro fenomeno linguistico tipico del parlato e confluito nello scritto di Peppino, ovvero la cosiddetta frase marcata, fenomeno sintattico per il quale una frase non marcata assume un ordine diverso da quello che avrebbe normalmente (Soggetto-Verbo-Oggetto), per fini enfatici; prendiamo, ad esempio, la frase “le salute te mandoio di nuovo“ <<i saluti ti mando io, di nuovo>>. In questo caso parliamo di una dislocazione dell’oggetto diretto (i saluti), anteposto al verbo e non ripreso da alcun clitico (diversamente, come vedremo, dai fenomeni di dislocazione a sinistra e a destra). Questa anticipazione sintattica è, come detto, caratteristica dell’oralità, dimensione nella quale essa è necessariamente accompagnata da una particolare intonazione che pone, o focalizzal’attenzione sull’elemento dislocato (si parla, infatti, di meccanismi di focalizzazione). Peppino aveva già, di fatto, salutato la nipote, aveva tentato di concludere la sua lettera tramite i relativi saluti di circostanza voluti dalla situazione comunicativa (una prima volta con “Tisaluto“; una seconda con “non miprollugo piu / Ciao apresto“), “prolungandosi“ <<dilungandosi>> poi, però, nel raccontare di nuovi elementi balenatigli in mente nella trascrizione del suo flusso di coscienza; il fatto di porre il complemento oggetto le salute in prima posizione, sostenendo di volere chiudere la lettera, sembra allora ricalcare una modalità parlata volta a focalizzare l’attenzione sul fatto che questa è l’ultima, definitiva volta in cui Peppino si congeda dalla nipote, in opposizione alle altre due volte precedenti, enfatizzato altresì dal fatto che egli ripeta “di nuovo“ alla fine della frase.

Anche la seconda lettera presa qui in esame è indirizzata alla nipote maggiore. In questo scritto un po‘ più lungo rispetto al precedente è, inoltre, contenuto un simpatico racconto dal quale la ragazza potrà trarre insegnamento o puro divertimento (8.2-X):

Carissima Nipote Alessia tiscrivo questa / lettera perdirti che sto Bene di Salute / ē chosi spero che stai Bene Anche Tu / ĕ Tidi_cho chela Nonna sta Anche bene / ĕ Io di_cho che certamente ti vole vedere / Luei cipiacesse che stavi Tu senpre / vicino a Lui. e tidoco che questogi / Tuo Papá e Tua Mamma cié fatto una / sopresa Io non le aspettava per= / ché sapeva che venivano per il / Santo Natale ĕ invece anno venuti / questo gi la badtante miadetto che / cera Carolina é ivece cera Tuo / Papà é Tua Mamma nontanto miprollo= / go e Ti di_cho Ciaŏ apresto / Tantismi Salute é Baci Ciavo / é desso charima Nipote a Lessia / ti scrivo un ra choto anticho / peresenpio tanto pe farti chapire / cerano Tre Fatelle chome pesenpio / nella nostra chanpagna a mele / noi la chiamamo milé perō nella / mappa esce Liazo ē lavoravono / questi Trefratelli apasato un / Signore e a Salutato esene prolugato / perla vio ĕ si cho erana inditro / diseno si stavono ipasticcionno / dicen quel Signore mie Salutata tutti diceno chosi uno detre adetto / ci andamo addomandare a chi a salu= / tato aloro quesignore ci risposto o / Salutato quella fesso che ce e cidomanda= / va quello che piŭ ciera suceso di stupitagine106

La prima frase a catturare l’attenzione del lettore durante la lettura della produzione è la seguente: “Luei cipiacesse che stavi Tu senpre / vicino a Lui.“, in cui notiamo la difficoltà di Peppino a riportare correttamente il pronome personale soggetto di III persona femminile “lei“ riferito alla moglie: lo dimostrano sia la cancellatura della u nella forma “lui“, che l’uomo stava per trascrivere istintivamente in un primo momento per poi raddrizzare il tiro, sia la distratta resa a fine frase dello stesso pronome al maschile, “Lui“. Questo fenomeno, con tanto di cancellature e correzioni effettuate probabilmente durante la seconda lettura degli scritti, si riscontra frequentemente nel nostro corpus e rivela la riflessione morfologica di Peppino sulle differenziazioni dei pronomi personali e la “lotta“ interiore intrapresa contro la propria tendenza a regolarizzare la forma femminile “lei“ rendendola al maschile “lui“.

Altro elemento correlato alla resa pronominale e riscontrato uniformemente nel corpus è l’impiego del “ci“ per rendere i pronomi dativi di terza persona “gli“, “le“, “loro“, così come l’allocutivo di cortesia “Le“ (“a Lei“)107, come vediamo negli esempi riportati nella lettera di Peppino: “Luei cipiacesse“, in cui ci assume il valore di le (a lei); “ci andamo addomandare“ in cui esso esprime il valore di gli (a lui); e ancora, “quesignore ci risposto“ e “cidomanda= / va“ in cui, in entrambi i casi, esso assume il valore del pronome complemento loro (a loro) <<quel signore ha risposto loro>> e <<domandava loro>>. Si segnala, tuttavia, anche la sovraestensione del pronome dativale maschile gli, impiegato con valore di “a lei“ – tratto oramai tipico dell’italiano parlato – negli esempi: “à Mia Figlia Natalina […] glidico“ o “gli date tanto piciri alla / Cara Figliolă“ <<le date tanto piacere alla cara figliola>> (8.2-VII).

Anche l’incertezza nell’uso, da parte di Peppino, dei verbi ausiliari essere e avere nelle forme verbali composte quali, ad esempio, il passato prossimo, cattura la nostra attenzione, così come è interessante lo sforzo di impiegare questo tempo verbale a dispetto della tendenza siciliana ad estendere, al contrario, il passato remoto anche per le narrazioni di eventi accaduti da poco. Nella prima parte della lettera, Peppino scrive “questogi Tuo Papá e Tua Mamma cié fatto una / sopresa“, impiegando il passato prossimo italiano conformemente all’uso standard, in quanto esso esprime un’azione trascorsa da poco ed è correlato all’indicatore temporale quest’oggi; questo passo offre allo stesso tempo un esempio di concordanza a senso tra il soggetto della frase, in questo caso un plurale composto da “Tuo Papá e Tua Mamma“, dunque, loro, ed il verbo ad esso riferito “cié“, coniugato alla III persona singolare e non alla III plurale, a motivo della vicinanza fisica con il sostantivo singolare Mamma che lo precede e che prende semanticamente il sopravvento nell’accordo. Resta ancora però da spiegare cosa abbia spinto Peppino all’uso della forma “cié“, fenomeno reso ancora più complesso dal fatto che il dialetto siciliano moderno – là dove si faccia impiego di forme composte – conosca primariamente l’ausiliare avìri sia per i verbi intransitivi che per quelli pronominali, e non la forma essiri. Si aprono qui le porte a due possibili ipotesi:  basandoci sulla resa grafica di questa forma, si potrebbe da un lato seguire il ragionamento per il quale Peppino abbia in effetti voluto scrivere “ci è fatto“ in uno scambio tra gli ausiliari è ed ha, reso in forma univerbata al pronome personale atono di I persona plurale ci e dovuto ad un meccanismo di ipercorrettismo, per il quale l’ausiliare avi di un teorico “c’avi fattu“ lascia spazio al “c’è fattu“ (<<ci è fatto>>), avvertito come più corretto; nella varietà galatese questa espressione verrebbe resa nella varietà galatese come ci fici, quindi al passato remoto, escludendo il passato prossimo. Una seconda ipotesi è quella che vede, invece, in cié una variante della forma cia “c’ha“ (forma spesso riscontrata nel nostro corpus, come per esempio in 8.2-XII: “cia rrisposto“ <<gli ha risposto>>, “ciadetto“ <<gli ha detto>>, con ci, come visto, in forma di pronome dativo di III persona), in cui la /a/ viene resa foneticamente come una /ε/; questa forma sarebbe, inoltre, estesa sia a composti che prevedrebbero l’ausiliare avere (“il chonpere cie dato“ <<il campiere gli ha dato>>, in 8.2-XXI) che a composti che prevedrebbero l’ausiliare essere (“cie chostato Lire 15 mila“ <<gli è costata 15 mila lire>> , in 8.3.2-VI). 

Proseguendo con la lettura della lettera, si noterà un’altra particolare forma composta in cui Peppino opera ancora una volta uno scambio tra ausiliari, questa volta più lampante: “invece anno venuti questo gi“ <<invece sono venuti quest’oggi>>, la cui causa potrebbe logicamente sembrare da imputare all’interferenza con il dialetto ànu vinutu, se non fosse però che il dialetto galatese non prevede questa forma, bensì il passato remoto vìnniru; di conseguenza, bisogna anche qui concludere di essere di fronte ad un caso di ipercorrettismo in cui l’ausiliare essere, necessario nella forma composta con il verbo intransitivo venire, viene sostituito da avere.

Da un punto di vista prettamente morfologico, è spesso stato riscontrato nei testi semicolti il fenomeno della regolarizzazione nella flessione nei gruppi nominali (D'Achille 1994, 70), fatto che si riflette di conseguenza anche nella flessione di articoli e aggettivi. La regolarizzazione è un processo riscontrato talvolta anche nella produzione di Peppino, sebbene non in forma estesa e totalizzante: un esempio eclatante è costituito al singolare da “Mia Moglia“ <<mia moglie>> in 8.3.1-VI, dove si nota la regolarizzazione del femminile con l’uscita in -a, in un’ottica di ipercorrezione; o al plurale da “levete le Mane di / tasca“ <<levati le mani dalle tasche>>, in 8.3.4-IV, in cui si registra una regolarizzazione del femminile plurale in -e per la parola mani, sulla base dell’accordo con l’articolo le. Il sintagma nominale “Tre fratellepresente nella lettera da noi presa in esame potrebbe a prima vista indurre a pensare ad un processo similare (sebbene lo stesso sintagma venga poi trascritto correttamente poco più giù, “Trefratelli“, e non presenti, dunque, un carattere sistematico. In realtà, pare, invece che l’attribuzione della desinenza -e del femminile plurale ad un sostantivo maschile plurale quale “fratelli“ sia dovuta o ad un processo di ipercorrettismo, in quanto sappiamo che il plurale siciliano presenta un solo morfema sia per il maschile che per il femminile /i/, tratto forse avvertito come troppo locale e dunque ipercorretto tramite la desinenza -e (Mocciaro 1991, 35); allo stesso tempo, però, è ancora plausibile pensare ad un’interferenza con il sostrato dialettale, in quanto una parola italiana come “fratelli“ (in siciliano resa, però, come fràti) potrebbe essere pronunciata popolarmente come [fra’tεɖ:ɪ], ossia con la vocale finale siciliana indistinta (cfr. 5.1.6) artefice di una possibile confusione nella resa della -i, in quanto percepita, come più volte segnalato, a metà tra la /i/ e la /ε/, sfociante in una “sostituzione ipercorretta del genere“ (Mocciaro 1991, 36)108.

Durante la lettura del racconto riportato da Peppino, notiamo, inoltre, come alcune frasi ricalchino la sintassi siciliana: nella frase “quel Signore mie Salutata“ riscontriamo infatti non tanto il calco morfosintattico di una forma italiana come “quel signore mi ha salutato“ (e se lo fosse, esso presenterebbe in ogni caso un errato scambio di ausiliare – essere al posto di avere – e sarebbe sprovvisto di accordi verbali, in quanto la frase, pronunciata da un uomo, dovrebbe prevedere un participio passato in -o e non in -a), bensì una trasposizione dal siciliano all’italiano della forma dialettale quel signore a mìa salutava lett. <<quel signore a me salutava (e non a te)>> resa all’imperfetto che giustificherebbe la -a finale in Salutata (la desinenza della I persona singolare dell’imperfetto siciliano è, infatti, -va, e non -vo come in italiano)109. Questa ricostruzione pare giustificata dal contesto in cui la frase è inserita: nel momento in cui i tre fratelli litigano per stabilire a quale dei tre il signore abbia rivolto il saluto, pare poco probabile che ognuno di essi pronunci una frase non marcata quale: “quel signore mi ha salutato“, la quale appare semanticamente neutrale e poco adeguata a rimarcare quanto ognuno di essi sia convinto che quel signore abbia salutato proprio lui e non gli altri due fratelli; al contrario, una frase quale quel signore a mìa salutava pone l’enfasi sul fatto che egli abbia salutato l’uno e non l’altro fratello, data la presenza rafforzativa di a mìa <<a me>>. Resta quindi da spiegare come questa espressione risulti semanticamente marcata pur rispettando l’usuale sintassi siciliana, la quale, per sua natura, tende a porre il verbo alla fine della frase (Ruffino 2001, 63)110: basterà leggere il testo ad alta voce ed immedesimarsi nella scena descritta da Peppino, rendendo, dal punto di vista dell’intonazione, le parole pronunciate dai protagonisti del racconto nei loro dialoghi. Si potrà facilmente notare che una frase sintatticamente non marcata, come quel signore a mìa salutava, segnala, invece, un focus di tipo contrastivo (a me e non a  te) proprio tramite l’intonazione ad esso attribuita.

Si noti, infine, come le proposizioni riportate da Peppino tendano, nella prima parte della produzione, ad essere caratterizzate più dalla coordinazione o paratassi che dalla subordinazione o ipotassi111; vediamo infatti come esse vengano poste sullo stesso piano e rese frasi autonome ed indipendenti le une dalle altre tramite l’impiego della congiunzione “e“ (tiscrivo questa / lettera perdirti che sto Bene di Salute / ē chosi spero che stai Bene Anche Tu / ĕ Tidi_cho chela Nonna sta Anche bene / ĕ Io di_cho che certamente ti vole vedere). Questo atteggiamento è tipico del parlato spontaneo e poco programmato, in cui si tende all’immediatezza comunicativa e ad evitare, quindi, possibili complicazioni a causa dell‘ipotassi. Nella parte in cui è presente il racconto, però, la tendenza cambia, in quanto si nota la presenza di alcune frasi tra loro subordinate, introdotte dalla congiunzione “siccome“ o rese tramite il gerundio: “ĕ si cho erana inditro / diseno si stavono ipasticcionno / dicen quel Signore mie Salutata“ <<e siccome [i tre fratelli] erano indietro di senno (stupidi), si stavano impasticciando (azzuffando), dicendo: “Quel signore ha salutato me!“>>112: ciò rivela, allora, una minima progettazione scrittoria da parte dell’uomo, seppur compromessa dalla mancata introduzione delle virgole, e non estesa a tutto il racconto.

Consideriamo ora la terza ed ultima divertente produzione di Peppino metaforicamente indirizzata alla campagna (sul cui significato pragmatico ci soffermeremo meglio nel paragrafo 6.4.5):

Cas Carissima Canpagna Io Fazzio / Peppino Rocco volesse stare senpre / conte perŏ non lo posso fare e mi / dispiace ma deva fare pacenzia / perche i Figli non mianno fatto / prendere la patente ĕ devao stare / ingrammio di Loro sei Io parto / solo appedi lagente miprendo per / stupito a Me e i Miei Figli perŏ / Io una bona volta sono partito / prima che stavo arrivando alla / chonpagna e cera un Signore / chon Sua Moglie mie arrivato didietro / e mia detto dove u vā ado chogliere / unpo di fico e i suoi Figli lu Lui quando vede / che non ci sono i scarpuna lo / penzono che sono andato incapa / gna infatti mia Figlia Antonietta / sela penzato e mie venuto aprende / rmi Io sono Fazzio Peppino Rocco / Galati Martino 29 Dicenbre 2018113

Il primo elemento a catturare la nostra attenzione durante la lettura del testo è costituito dalla forma verbale “volesse“, congiuntivo imperfetto del verbo volere coniugato alla III persona singolare, e trascritto da Peppino in luogo del condizionale presente italiano “vorrei“: “io […] volesse stare senpre con te114. Questa forma è particolarmente interessante in quanto ci fornisce lo spunto per alcune riflessioni di natura sia morfo-sintattica, che, ancora una volta, fonetica. Anzitutto notiamo che il modo verbale inserito è, come detto, il congiuntivo e non il condizionale, fenomeno dovuto ad un’interferenza con il dialetto siciliano parlato da Peppino: nella varietà parlata a Galati Mamertino, infatti, il condizionale viene reso sia da forme al congiuntivo imperfetto, come indicato nell’esempio analizzato, e sia, nel caso del periodo ipotetico, o tramite il doppio congiuntivo imperfetto (s’avissi i sordi, mi ni issi da America <<se avessi i soldi, me ne andrei in America>>) o tramite il doppio imperfetto indicativo (si sapeva, vineva <<se avessi saputo, sarei venuto>>)115. Notiamo, inoltre, come il verbo volesse si riferisca a Peppino stesso, ossia al soggetto scrivente che parla in prima persona, e come ciò risulti compromesso dall’ambiguo inserimento della -e finale nel verbo, desinenza italiana propria della III persona singolare ed estranea alla I persona singolare, la quale dovrebbe eventualmente prevedere un “(io) volessi“ e non un “(io) volesse“; pare qui possibile, allora, che questo inserimento sia dovuto all’interferenza con il siciliano, il quale, come visto nel paragrafo precedente, si caratterizza per un’indefinitezza della /i/ in fine di parola (spesso pronunciata come fosse a metà tra una /i/ effettiva ed una /ε/), portando, così, l’uomo ad affrontare la difficoltà nella resa di questa vocale indefinita e facendolo optare per una -e finale; allo stesso tempo, però, esso potrebbe costituire un esempio di ipercorrezione rispetto alla forma sic. vulissi.

Al secondo rigo notiamo invece la frase “ma deva fare pacenzia“, <<devo portare pazienza>> [sic. pacenzia], la quale, a prima vista, potrebbe sembrare un semplice pastiche linguistico tra il modo di dire portare pazienza italiano ed il modo di dire fari pacenzia siciliano, con l’aggiunta di un banale errore di distrazione nella trascrizione della -o finale del verbo dovere alla I persona singolare: in realtà, mascherata in quanto univerbata al servile “devo“, si cela la preposizione siciliana a (con valore corrispondente a quello finale implicito della preposizione italiana “da‘‚), inserita tra il servile dovere e l’infinito fare, ed indice del possibile calco della forma perifrastica siciliana aviri a + infinito116, ossia, lett. “avere da + infinito“, per rendere il costrutto italiano dovere + infinito: sulla base della forma siciliana “àju a fari pacenzia“ lett. <<ho a fare pazienza>>, Peppino costruisce allora logicamente il suo italiano “deva fare pacenzia“. Lo stesso processo si nota ancora al terzo rigo, in cui si legge “devao stare“, forma che riflette la struttura “devo a stare“ ricalcata sul sic. àju a stari, in cui si rende graficamente, per altro in modo errato, un’inversione vocalica o metatesi tra la “o“ di devo e la preposizione a.

Ancora riguardo all’accordo tra elementi grammaticali, un altro passaggio a risultare marcato durante la lettura di questo testo è il seguente: “lagente miprendo per / stupito a Me e i Miei Figli“ <<la gente mi prende per stupido, a me e alle mie figlie>>117. Sembra qui che Peppino abbia voluto trascrivere il verbo prendere alla III persona plurale, prendono, e non singolare, prende, effettuando, tuttavia, un’apocope, che ha portato alla caduta dell’ultima sillaba -no, fenomeno, come visto nel paragrafo precedente, regolarmente diffuso nel corpus. Se le nostre supposizioni sono corrette, è possibile riconoscere un altro esempio della concordanza a senso, ossia un fenomeno linguistico per il quale la concordanza rispettata non è quella grammaticale ma quella semantica, di significato: la versione standard di questa frase sarebbe “la gente mi prende per stupido“, in cui il verbo prendere è concordato con la persona e il numero grammaticale del sostantivo gente, ossia la III singolare; ma gente è anche un sostantivo collettivo, in quanto dal punto di vista del significato esso si riferisce a più persone, racchiudendo in sé una pluralità di elementi e non una singolarità. Come tanti altri individui semicolti, Peppino accorda allora semanticamente il verbo al sostantivo, ossia alla moltitudine di persone indicate con il sostantivo singolare gente.

Soffermandoci, però, ancora sulla restante parte della frase analizzata poc’anzi, ossia su “miprendo per / stupito a Me e i Miei Figli“, notiamo un altro fenomeno linguistico tipico del parlato e confluito nello scritto di Peppino, ovvero l’impiego della dislocazione, fenomeno sintattico per il quale una normale frase non marcata assume un ordine diverso da quello che avrebbe normalmente (Soggetto-Verbo-Oggetto) a fini enfatici. Questo processo è molto evidente nel caso della dislocazione a sinistra, in cui la messa in rilievo di un complemento tramite la sua anteposizione rispetto al verbo va a sconvolgere la sequenza degli elementi di una frase non marcata (fenomeno già visto nella lettera precedente e ancora presente, ad esempio, in “la lintigna melo mangiata“ <<la lenticchia me la sono mangiata>> in 8.2-IV, in cui il complemento oggetto anteposto al verbo assume valore tematico e rende necessaria la ripresa dello stesso tramite un pronome clitico, rispetto alla normale frase <<mi sono mangiato la lenticchia118>>); nella frase “la gente miprendo per / stupito a Me e i Miei Figli“, in realtà, ci troviamo di fronte ad una dislocazione a destra in cui l’ordine degli elementi apparentemente non risulta come alterato (“la gente prende per stupidi me e le mie figlie“), se non fosse per il fatto che il complemento (“a Me e i Miei Figli“) viene isolato e annunciato in senso ridondante e cataforico dal pronome mi che precede il verbo “prendo“, con valore tematico rispetto alla posizione normale.

Continuando a leggere il testo ci imbattiamo nella singolare costruzione: “prima che stavo arrivando alla campagna e cera un Signore“, costruzione talmente ingarbugliata da compromettere persino una traduzione lineare della stessa, la quale necessita di riaggiustamenti anche nella frase principale che segue: <<prima che arrivassi in campagna/prima di arrivare in campagna, ho incontrato un signore>>. Questo esempio apre ad una serie di considerazioni: si potrebbe pensare che, avviando il pensiero con la locuzione congiuntiva “prima che“, Peppino abbia voluto inizialmente esprimere il valore del congiuntivo imperfetto ad essa conseguente (ita. prima che arrivassi), reso in siciliano con l’imperfetto indicativo (sic. prima chi arrivava), e che, però, trovandosi di fronte ad un possibile dubbio sull’uso dello stesso, egli abbia optato (seguendo un flusso di coscienza parlato e rimuovendo inconsciamente la congiunzione prima che) per una diversa costruzione ex novo: “stavo arrivando“; insieme al prima che, infatti, questa costruzione risulterebbe diastraticamente marcata anche in siciliano, in cui non sarebbe possibile dire *prima chi stava rrivannu, ed è dunque da escludere che Peppino abbia trasposto la frase siciliana all’italiano. La tesi per la quale questo passaggio costituisca un esempio di influenza dal parlato, o per meglio dire, di flusso di coscienza riportato da Peppino nella scrittura, è avvalorata dal fatto che l’uomo abbia poi paratatticamente unito tramite la congiunzione “e“ la frase “stavo arrivando alla campagna“ con la frase successiva “cera un Signore“ trovando, così, una soluzione al possibile dilemma scattato in un primo momento nella sua mente.

Ancora interessante risulta la frase “Lui quando vede / che non ci sono i scarpuna lo / penzono“, in cui si nota la sovraestensione del pronome personale soggetto alla III persona singolare lui anche al plurale loro (esso si riferisce, infatti, alle figlie dell’uomo), con il quale, per altro, è semanticamente accordato il verbo penzono nella frase principale; la comprensione dell’intera proposizione è, tuttavia, compromessa dal fatto che Peppino accordi al pronome singolare (errato) anche il verbo vede nella subordinata temporale. Rilevanti paiono infine la ridondanza pronominale riscontrata nella frase “mie venuto aprende / rmi“, così come l’uso improprio delle preposizioni, elemento tipico delle scritture dei semicolti (Mocciaro 1991, 43), che si riscontra, ad esempio, nel frammento citato poc’anzi: “stavo arrivando alla campagna“, in cui si nota l’impiego della preposizione articolata “alla“ al posto della preposizione “in“; o ancora, in “mie arrivato didietro“ in cui la preposizione da è sostituita dalla preposizione di.

Abbiamo dunque visto come anche le produzioni di Peppino presentino alcuni tratti morfosintattici ritenuti tipici dell’italiano dei semicolti, facendo sì che essi rientrino sotto questa etichetta. È bene, tuttavia, sottolineare che molte altre caratteristiche riscontrate negli anni dagli studiosi di italiano popolare, per cui si rimanda soprattutto all’approfondito lavoro di Mocciaro (1991), non sono, stati, al contrario, ritrovati nel nostro corpus. Ciò dimostra una certa capacità (seppur con i dovuti limiti) di Peppino nell’affrontare le difficoltà date dalla resa scrittoria nella lingua italiana.

Sulla complessità del tema, dovuta sia alla relativa libertà da parte dei linguisti di area germanofona nell’attribuire a questa etichetta valori spesso differenti, sia ad una questione prettamente terminologica (accanto alla Varietätenlinguistik convive, infatti, in ambito germanofono la “Variationslinguistik“ o “linguistica della variazione“), oltre che per una più approfondita disamina sugli studi condotti sulla variazione linguistica, (cfr. Sinner 2014).
Per un approfondimento sul carattere sociale dell’uso del linguaggio, cfr. Lepschy 1996, 139-143.
L‚influenza sociale sulla realtà linguistica si riflette ad esempio sia nello status attribuito dai parlanti a determinate varianti che in quello attribuito dalla società stessa a determinate varietà di lingua o lingue (Krefeld 2016, 262); sul ruolo attivo dei parlanti in quanto agenti sociali nella standardizzazione dell’italiano, come esempio di influenza sociale sulla lingua, invece, cfr. Serianni 2006 e Berruto 2007.
Non presentando alcuna differenza strutturale rispetto alla ‚lingua italiana‘ (D'Agostino 2007, 69), i dialetti presenti sul territorio italiano non devono essere considerati come “varietà locali della lingua nazionale, né tantomeno [come] deformazioni o correzioni di questa [in quanto] proprio come l’italiano letterario – costituitosi anch’esso sulla base di un dialetto (il fiorentino trecentesco) – e come le altre lingue e i dialetti romanzi, [essi] derivano dal latino volgare e hanno dunque, dal punto di vista storico-linguistico, la stessa dignità della lingua“ (D'Achille 2003, 13). La distinzione operata tra dialetto e lingua sarà allora di tipo esclusivamente sociale e dipenderà dal prestigio linguistico di cui i due sistemi godono presso i parlanti (D'Agostino 2007, 69).
Per un ampio approfondimento sulla situazione italo-romanza pre-unitaria, si rimanda qui al fondamentale “Storia linguistica dell’Italia unita“ di Tullio De Mauro (1986), oltre che a Bruni (1984, 81-172); tuttavia, vale la pena ricordare qui brevemente che “prima dell’Unità, l’italiano al di fuori della Toscana (dove lingua e dialetto sono sempre stati in rapporto di contiguità), era una lingua nota a un numero di persone alquanto ridotto [in quanto] la stragrande maggioranza della popolazione parlava […] uno dei dialetti che si erano formati nella nostra penisola dopo il crollo dell’Impero romano“ (D'Achille 2003, 23).
Uno dei principali fenomeni che portarono gli italiani ad avvicinarsi ad una lingua nazionale è certamente costituito dal processo di alfabetizzazione legato all’obbligo scolastico introdotto dalla legge Casati già nel 1859 (sebbene il tasso d’evasione all’obbligo sia rimasto molto alto almeno sino agli anni Trenta); ma a giocare un altrettanto rilevante ruolo nella diffusione della lingua nazionale furono altresì la crescente industrializzazione e l’urbanizzazione ad essa relativa, fenomeni per i quali le grandi masse contadine si spostarono dalle zone rurali alle città, provocando tra i nuovi e i vecchi cittadini l’esigenza di intendersi in una lingua comune; la successiva promozione della lingua unitaria avvenne parimenti grazie ai mezzi di comunicazione di massa quali i giornali, la radio e, a partire dagli anni Cinquanta, la televisione, “scuola di lingua e di cultura“ grazie alla quale “i ceti diseredati relegati in posizione subalterna dalla scarsa cultura […] imparano a parlare l’italiano e, con l’italiano, imparano com’è fatta la cultura dei cittadini, delle classi dominanti“ (De Mauro 1994, 128). Per un esaustivo e dettagliato approfondimento sul tema, si rimanda al sopracitato De Mauro (1986).
Non per negligenza, ma poiché il focus verte qui sul rapporto tra i due diasistemi maggiori, non affronteremo in questa sede la questione delle minoranze linguistiche presenti sul territorio italiano e delle relative altre lingue ivi parlate. Per una  descrizione sociolinguistica del complesso repertorio italiano plurilingue relativo ad antiche e nuove minoranze, si rimanda a Francescato (1993), D’Agostino (2007) e Krefeld (2016), il quale distingue in tal senso due tipologie di sociolinguistica: quella degli idiomi, la quale comprenderebbe lo studio delle lingue minoritarie e i dialetti; e quella della variazione, inerente, come vedremo, allo studio di specifiche varianti avvertite come marcate dai parlanti, e propria della varietistica (Krefeld 2016, 263).
Con la nozione di ‚repertorio‘ si intende “l’insieme delle lingue, o le varietà di una stessa lingua, e delle loro norme d’uso, impiegate in una comunità“ (D'Agostino 2007, 109); a tal proposito, Berruto definiva il repertorio linguistico italiano medio come un diasistema (lingua nazionale-dialetto) il cui rapporto (sino ad allora definito ‚diglossico, in cui alla varietà alta era rigidamente riservato l’uso scritto e formale; mentre a quella bassa, anche impiegata per la socializzazione primaria e dunque una L1, l’uso parlato informale) rifletteva una situazione di “bilinguismo endogeno a bassa distanza strutturale con dilalìa“, indicando così la compresenza di due lingue e delle loro relative varietà, non strutturalmente troppo diverse tra loro, e non più rigidamente separate rispetto all’ambito d’uso informale, ma “impiegabili nella conversazione quotidiana e con uno spazio relativamente ampio di sovrapposizione“ (Berruto 1993, 5-6).
Al glottologo Giovan Battista  Pellegrini è infatti dovuta la prima basilare quadripartizione delle varietà presenti nel repertorio italiano; essa comprendeva l‘ ‚italiano standard o comune‘, l‘ ‚italiano regionale‘, la ‚koinè dialettale o dialetto regionale‘, ed il ‚dialetto locale‘; da questa quadripartizione presero successivamente il via altri fondamentali approfondimenti ed ampliamenti sociolinguistici alla struttura del repertorio linguistico italiano, caratterizzato dalla dialettica tra italiano e dialetti delle diverse regioni italiane da un lato e la coesistenza tra le “diverse norme di realizzazione di un medesimo idioma“ dall’altro (De Mauro 1977, 124). Per un ampio commento sulle varietà italiane e sulle relative denominazioni offerte dagli studiosi dal 1960 sino al 1987, si veda Berruto (1987); per una tavola sinottica delle diverse classificazioni delle stesse, invece, si rimanda a Berruto (1993, 18;26).
Sebbene essa non goda di uno “statuto teorico autonomo, [e si configuri anzi] come ambito di lavoro orientato in senso empirico, con scopi prevalentemente descrittivi“ (Berretta 1988, 762), Holtus-Radtke sottolineano però in ogni caso la specificità della linguistica delle varietà rispetto alla sociolinguistica: a differenza della sua matrice, infatti, la linguistica delle varietà si occuperebbe di indagare e descrivere anche dei tipi di “Varietäten [,] die nicht [nur] von der Sozialen Determination der Sprache und ihrer Sprecher abhängen“ (Holtus/Radtke 1983, 16).
Come notato da Holtus-Radtke (1983), il termine ‚varietà‘ non era tra l’altro di recente coniazione: Benvenuto Terracini se ne era infatti già avanguardisticamente occupato nei suoi lavori pre-sociolinguistici sulla dialettologia nei primi anni del Novecento, sebbene questi non si concentrassero ancora sul problema della “Systematizität“ del fenomeno, né vi fosse una “fundierte Grundlegung des Varietätenbegriffs“ (Holtus/Radtke 1983, 13-14).
Relativo, dunque, sia ad un intero sistema di lingua che solo ad alcuni tratti specifici presenti all’interno dei sistemi linguistici.
I due sistemi di base sui quali, come sostiene Dardano (1994, 344), si costruisce tutto il repertorio linguistico italiano.
Sui sempre più evidenti limiti della terminologia adottata dalla tradizione germanofona risalente alla quadripartizione delle dimensioni di variazione offerta da Koch/Oesterreicher (1985; 1990), basata sui parametri di ‚immediatezza‘ (o ‚vicinanza‘) e ‚distanza‘ – oltre che sulle conseguenti implicazioni metodologiche rispetto alla linguistica percezionale ad essa connessa – si veda il contributo “Varietà ibride? Che cosa ne pensa la linguistica variazionale“ disponibile sulla piattaforma Lehre in den Digital Humanities (Krefeld 2018).
E in tal senso, reale attuazione della linguistica della parole preannunciata da Ferdinand de Saussure (sul tema, cfr. Raimondi 2009, 15-18; Krefeld 2015).
Iannàccaro spiega, infatti, che “è proprio attraverso la constatazione della variazione linguistica (di qualunque tipo) che il parlante viene a contatto con varietà diverse rispetto al proprio idioletto […] ed è indotto a rifletterci sopra“ (Iannàccaro 2015, 23).
O, nel caso specifico dei test percettivi, nel sapere linguistico dei cosiddetti ‚informanti‘, soggetti sottoposti, ad esempio, all’ascolto di stimoli uditivi registrati dai ricercatori sul campo.
Un elemento “marcato“ è dunque un elemento “provvisto di una marca che lo contraddistingue rispetto alla sua manifestazione considerata, per motivi qualitativi e/o quantitativi, come basica, o normale, o canonica“ (Ferrari 2012, 17); la proprietà di marcatezza/non marcatezza può essere applicata a tutti i livelli dell’analisi linguistica (Ferrari 2012, 17) ed è inoltre spesso messa in relazione con i principi di naturalezza elaborati dalle teorie di morfologia naturale e sintassi naturale, secondo le quali si riterranno non marcati i tratti “cognitivamente più accessibili – ossia più naturali -, che favoriscono la processabilità dell’informazione e la corrispondenza tra la percezione della realtà e la sua rappresentazione linguistica“ (Cerruti 2009, 254).
Per un approfondimento sul tema, si rimanda al volume “Perzeptive Variatätenlinguistik“, a cura di Krefeld-Pustka (2010); oltre che a Krefeld(2015).
Simone (1990) spiega che “le lingue verbali vivono in diacronia, nel senso che si modificano nel tempo […] le manifestazioni di questo mutamento [riguardano ad esempio] la dotazione di suoni di una lingua [,] i significati e le forme delle parole [,] l’organizzazione grammaticale, e così via“ (Simone 1990, 77-78).
Sulla denominazione possibilmente fuorviante di questa varietà – la nozione di “regionale“ non va infatti pensata come corrispondente all’effettiva estensione amministrativa delle regioni d’Italia – cfr. Sobrero (2012, 129-130).
Per un più chiaro approfondimento sul ruolo delle componenti della situazione comunicativa, quali i partecipanti, gli atti comunicativi, i risultati, la cosiddetta localizzazione ecc., si veda Grassi-Sobrero-Telmon (2012, 204-211).
In senso sociolinguistico, il concetto di ‚continuum‘ indica usualmente un insieme composto da un ventaglio di varietà (tra cui si distinguono una varietà alta ed una bassa, ai due poli), i cui confini, nebulosi ed indefiniti, possono sovrapporsi e dissolversi l’uno nell’altro, impedendo una precisa identificazione delle stesse, specie se contigue, da parte della sociolinguistica (Berruto 1987, 27-28); per un approfondimento sul tema, anche rispetto alle obiezioni sollevate sulle implicazioni di questa definizione, si veda Berruto (1987, 27-42).
È ragionevole credere allora che le possibili varianti di una specifica variabile siano riscontrabili ed ascrivibili a diverse dimensioni, e che vadano a costituire – insieme alle altre – quelle che Krefeld (2018) definisce come “varietà ibride“, smentendo, nello specifico, il ragionamento di Koch/Oesterreicher (1990) il cui schema prevedeva che ad ogni dimensione della variazione corrispondesse un numero definito di varietà, a loro volta composte da un preciso numero di varianti.
Entrambi caratterizzati da fenomeni epilettici dai quali la donna era afflitta sin da giovane e a causa dei quali veniva rapportata, secondo la cultura popolare salentina, ad una realtà magica. Nonostante la loro medesima natura, inoltre, la donna ne distingueva superstiziosamente e religiosamente le manifestazioni: ella raccontava infatti di avere voglia di ballare prima di una crisi di tarantismo, e di avere la tendenza a dimenarsi per terra durante le crisi epilettiche di San Donato (Rossi 1994, 80-85).
“La scrittura parla di sé insieme a qualunque altra cosa di cui parla: essa si costituisce su proprie peculiarità di codificazione dell’esperienza, di forma di rappresentazione, di lingua, di temporalità e spazialità, di costruzione dell’interlocutore“ (Apolito 1994, 13).
“La donna ha frequentato solo la prima elementare, ma è in grado di esprimere per iscritto quanto vuole comunicare; le sue lettere presentano grossolani errori di grammatica, e sono quasi totalmente sprovviste di punteggiatura“ (Rossi 1994, 79).
Circa questo termine, D’Achille precisa che l’aggettivo semicolto (successivamente adottato, come vedremo, per indicare i soggetti interessati dal fenomeno linguistico scritto dell’italiano dei semicolti) rifletteva sia una chiara differenziazione rispetto ai termini colto ed incolto, sia una maggiore specificità rispetto alla serie terminologica assieme alla quale esso sarebbe potuto essere semplicisticamente associato: semianalfabeta, semialfabeta, semincolto; secondo D’Achille, infatti, questi ultimi sarebbero stati da collocare in un gradino più in basso rispetto al semicolto propriamente detto, in quanto “[in]capaci di servirsi dello scritto [né] per usi funzionali e pratici […], [né] per fini latamente espressivi“ e, al limite, in grado di “apporre la propria firma o poco più“ (D'Achille 1994, 42-43). Accanto alla designazione di semicolto, il linguista propone invece di apporre i termini poco colto, mediocolto, o semiletterato, in ogni caso da collocare su gradini intermediamente diversi, data la differente e non rigida caratterizzazione culturale dei soggetti semicolti (D'Achille 1994, 42-43).
Per un’approfondita, diversa argomentazione, ovvero sulle debolezze dell’originaria visione unitaria dell’italiano popolare, almeno per quanto riguarda gli elementi linguistici e non contenutistici espressi in questo tipo di lingua, si rinvia almeno a Berruto (1987, 108-110).
Basti pensare che a distanza di ottant’anni, ancora tra il 1951 ed il 1955, solo il 18% della popolazione italiana impiegava l’italiano, sebbene in forma ancora artificiosa e pomposa, poco spontanea; il 20% era invece dialettofono, mentre la restante percentuale si muoveva in un limbo linguistico diglossico, impiegando la lingua italiana in situazioni estremamente formali ed il dialetto nella quotidianità, data la sua “efficacia espressiva“ (De Mauro 1994, 117).
La necessità delle masse di “mettere da parte i rispettivi dialetti, cominciando ad usare, per intendersi, gli elementi di lingua italiana a loro noti“ si manifesta inoltre con le prime associazioni di lavoratori postunitarie e con lo svilupparsi dei primi canti sindacali e di protesta, come ad esempio il Canto degli scariolanti: questi erano infatti caratterizzati da un vocabolario semplice, in cui affioravano anche degli elementi dialettali, unito ad una certa “oscurità sintattica“, e, a livello grafico, ad un abuso delle maiuscole; altro elemento evidenziato dal linguista è la “brusca rottura stilistica“ o l’alternanza tra forme popolari e forme auliche, allora ancora persistenti a causa della forte influenza dell’opera lirica ancora sentita, il cui influsso viene paragonato da De Mauro con quello esercitato dalla televisione negli anni Cinquanta e Sessanta (De Mauro 1994, 118-121).
Il primo conflitto mondiale costrinse i soldati a misurarsi con una dimensione del tutto nuova: come spiega Glauco Sanga, infatti, i contadini non avevano mai avuto sino ad allora la necessità di avvicinarsi allo strumento culturale della scrittura, in quanto “la diffusione dell’italiano avveniva per via orale o, al più, attraverso la lettura [e] tradizionalmente in paese c’era sempre qualcuno delegato a scrivere: il parroco o il segretario comunale o un paesano colto(Sanga 1984, 173) tutt’altra situazione si presentava invece in trincea, in cui i contadini ormai soldati dovevano necessariamente confrontarsi a tu per tu con penna e carta. Tra le motivazioni che spinsero alla scrittura, ricordiamo infatti la necessità di rassicurare le famiglie sulle proprie condizioni di salute, oltre che la possibilità, nel caso dei prigionieri di guerra, di “allontanare l’incubo del rientro al fronte e della possibile morte in trincea; [di] esprimere un’autentica sofferenza psichica; [di] sottrarsi allo stigma della follia e all’istituzione, fortemente autoritaria, del manicomio; [di] tentare di rimediare a una situazione angosciante con la richiesta (nelle lettere al direttore) di ottenere la documentazione necessaria per un sicuro rientro a casa“ (Testa 2014, 101).
Come spiega Cortellazzo, una rivalutazione delle testimonianze “dal basso“ poté avvenire solamente nel secondo dopoguerra, con una rinnovata volontà politica d’opposizione alla “cultura egemonica fra le due guerre [la quale] non tollerava che, accanto alla cronaca ufficiale, linda nella forma, spesso retorica e falsa, trovasse posto la cronaca degli altri, dei protagonisti sottoposti e, infine, sopportanti il maggior peso di ogni avventura sociale“ (Cortellazzo 1972, 19).
Come spiega Lorenzo Renzi nell’introduzione alla raccolta epistolare di Leo Spitzer, questo lavoro era sino ad allora sconosciuto ai più ed i “i filologi e gli studiosi di italiano popolare ne parlavano, ma più per sentito dire che per conoscenza diretta“ (Renzi 1976, VII)).
Diversi sono i capitoli dedicati nell’opera ai dissimulati tentativi di richiesta di provviste e viveri da parte dei prigionieri a parenti e familiari. Se le lamentele sulle misere condizioni dei prigionieri avessero raggiunto l’Italia, questo avrebbe potuto costituire un ulteriore possibile movente per la continuazione dell’offensiva nel conflitto mondiale, e i prigionieri ne erano consapevoli. Sugli originali espedienti linguistici da questi ultimi adoperati per descrivere il concetto di “fame“ al fine di sfuggire all’occhio pressante della censura austriaca, si veda inoltre l’importante lavoro linguistico del filologo Spitzer sulla lingua popolare, Die Umschreibungen des Hungers im Italienischen[Le circonlocuzioni impiegate per esprimere la fame in italiano] (supplemento alla “Zeitschrift fuer romanische Philologie“, Niemeyer, Halle 1920), pubblicato un anno prima delle Lettere, lavoro in cui lo studioso mette in luce le diverse colorite strategie linguistiche impiegate per aggirare l’ostacolo della censura, il cui sguardo si era “acuito per le lamentele causate dalla fame“ e aveva comportato un “raffinamento dei metodi d’indagine impiegati“ dai censori (Spitzer 1976, 10).
Facciamo qui riferimento a tre atteggiamenti linguistici riguardanti l’alternanza del codice tra italiano e dialetto, possibili in un contesto bilingue qual era e qual è tuttora quello italiano: il code-switching o commutazione di codice, il code-mixing o enunciato mistilingue, e il tag-switching anche conosciuto come commutazione extrafrasale (D'Agostino 2007, 144; D'Achille 2003, 179). Il code-switching, ossia il passaggio funzionale da un idioma ad un altro nello stesso enunciato, viene operato consapevolmente dal parlante in base alla situazione comunicativa in cui egli si trova ed è altresì condizionato da motivazioni sociali e “identitarie“: esso dipende, infatti, sia dal prestigio sociale che lo standard riveste nella situazione comunicativa rispetto al dialetto, percepito come varietà diastraticamente “bassa“ (D'Agostino 2007, 118), sia dalla forza identitaria delle diverse varietà, in questo caso di quella dialettale, come fattore attivo di riconoscimento dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale e linguistico (D'Agostino 2007, 118); nel caso delle lettere analizzate da Spitzer, però, l’impiego del dialetto assume spesso il valore di “codice dell’intimità“ dovuto alla necessità di sfuggire agli occhi attenti della pressante censura operata dai censori sulle missive (Spitzer 1976, 107). Il code-mixing, ovvero il mescolamento non funzionale di più idiomi all’interno di una stessa frase, è, al contrario, un fenomeno non intenzionale, dovuto alle incertezze del parlante dialettofono e in particolare alla sua approssimativa conoscenza della lingua italiana (D'Achille 2003, 179). Il tag-switching, invece, si caratterizza per l’inserimento di elementi isolati quali interiezioni, riempitivi ecc. all’interno dell’enunciato (si pensi, ad esempio, alla funzione ludica del dialetto espletata tramite l’inserimento di questi ultimi elementi nella comunicazione colloquiale, specie giovanile).
È bene, tuttavia, sottolineare che per questioni legate alla censura, lo stesso Spitzer non fornì informazioni sugli scriventi, di cui non si conoscono certo i nomi, ma neppure l’età, né l’effettivo grado d’istruzione (si noti, inoltre, che non tutte le lettere raccolte dal linguista presentano lo stesso grado di competenza linguistica: alcuni mittenti risultano essere nettamente più colti di altri, o per meglio dire, meno “incolti“ di altri, nonostante lo sforzo dello studioso di creare un corpus il più possibile omogeneo a livello socio-culturale); in base al contesto, nondimeno, è spesso possibile rintracciare alcuni indizi che aiutino, pur limitatamente, a ricomporre il puzzle diastratico dello scrivente.
Qui De Mauro faceva sarcasticamente riferimento all’azione soffocante del “greve rullo dell’italiano scolastico“ (De Mauro 1994, 134), che a poco servì – a suo avviso – nell’educazione al “pieno e libero possesso della lingua italiana“, e che invece, “per la debolezza delle sue strutture, anzitutto, poi per l’impreparazione linguistica del personale insegnante […] ha svolto un’azione di indebolimento dei dialetti [esercitando] un’azione di repressione del parlato piuttosto che di addestramento all’uso e scritto e parlato e colloquiale e formale della lingua“ (De Mauro 1994, 136).
Come spiega Berruto, anche Tatiana Alisova si era per esempio già occupata nel 1965 della struttura della frase relativa del cosiddetto “italiano popolare“ sovrapponendo, tuttavia, questa definizione alla dimensione parlata e colloquiale della lingua, e creando così una prima ambiguità tra la definizione di “italiano popolare“ e quella di “italiano parlato colloquiale“ (Berruto 1987, 105).
Oltre a Lettere di una tarantata (1970) di Annabella Rossi, infatti, si ricordano, ad esempio, il romanzo autobiografico Una donna di Ragusa (1957), di Maria Occhipinti, donna siciliana di umili origini; Quaderno (1958), diario di Alfonso Muscillo, usciere di una biblioteca romana; il Diario della grande guerra (1961) di Francesco Giuliani, pastore abruzzese. Per un ulteriore approfondimento sui testi semicolti pubblicati in questo periodo e su quelli presi in esame dagli studiosi, si rimanda a Sobrero (1975, 108, note 5 e 6); D’Achille (D'Achille 1994, 43-45, note 18-24; 28).
Le difficili circostanze storiche presenti nella storia linguistica italiana hanno influito, secondo Fresu (2016), sulla tipologia testuale in cui i testi semicolti si sono sviluppati nel tempo, tra cui si annoverano: “testimonianze provenienti dal o indirizzate al fronte“, sotto forma di lettere, ma anche nelle urgenti espressioni del sé riscontrabili in diari, memorie, taccuini di guerra; anche il fenomeno migratorio ha prodotto diverse produzioni epistolari, oltre che produzioni su cartolina o lettere indirizzate dai migranti ai giornali (Fresu 2016, 335-336). Per un approfondimento sugli ulteriori generi testuali interessati dalla scrittura dei semicolti, cfr. Fresu (2016, 335-339).
Radtke fa qui però notare come questa definizione non sia sufficientemente caratterizzante o esclusiva di questa varietà, in quanto parimenti applicabile all’italiano regionale (Radtke 1979, 44).
“In questa chiave possono quindi essere letti anche i pesanti tratti di interferenza del substrato dialettale che svolgono il ruolo della lingua materna nella varietà di apprendimento“ (D'Agostino 2007, 127).
Si parla di fossilizzazione quando la conoscenza della lingua di un individuo si blocca ad un determinato stadio senza possibilità di progressione (D'Agostino 2007, 83).
D’Agostino fa inoltre notare come questa varietà non sia allo stesso modo accostabile neanche all’italiano tipico delle produzioni dei bambini appartenenti alle prime classi delle elementari, nonostante esse presentino sovente caratteristiche simili a quelle dei testi semicolti. Parrebbe infatti poco ragionevole far rientrare queste ultime sotto l’etichetta dell’italiano popolare, in quanto gli specifici tratti di cui sopra vengono presto superati dai bambini nelle successive fasi di apprendimento scolastico, cosa che, come detto, non avviene nei parlanti di italiano popolare (D'Agostino 2007, 127).
Tra le fonti andate poi a creare il corpus analizzato da Cortellazzo vi erano: lettere di soldati e prigionieri di guerra durante il primo conflitto mondiale, caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale; lettere di altra provenienza quali quelle di emigrati friulani, o esempi come quello di Anna del Salento; memorie autobiografiche di diversa provenienza, quali ad esempio memorie di contadini lucani, di sottoproletari lombardi, o di banditi siciliani; testimonianze di diversa natura e di diversa provenienza, quali documenti di soldati processati durante la prima guerra mondiale,  o di emigrati a Milano; compiti scolastici di diversa provenienza (Cortellazzo 1972, 19-20)
Oltre a suggerire l’idea di “una varietà sovraindividuale“ (Krefeld 2016, 267).
Con la nozione di diglossia (Ferguson 1959) si intende la compresenza su un determinato territorio linguistico di due sistemi di lingua ai quali la comunità di parlanti attribuisce un diverso prestigio sociale, tale per cui uno dei due idiomi sarà considerato come varietà ‚alta‘ e di maggiore prestigio; mentre l’altro verrà connotato come varietà bassa, più informale e non adatta a contesti “alti“. È importante notare che i contesti d’uso dei due idiomi saranno rigidamente separati: alla varietà alta spetteranno i contesti formali, mentre quella bassa sarà impiegata per domini ordinari, propri della vita quotidiana (D'Agostino 2007, 77-78). Come visto in capitolo 3, però, la situazione italiana non è più ascrivibile a questo concetto: si parla oggi infatti di dilalìa ossia una condizione in cui i contesti d’uso delle due varietà A e B sono mutati: in un contesto dilalico quale quello odierno, infatti, entrambi gli idiomi, dunque sia quello “alto“ che quello “basso“, possono essere impiegati in contesti informali e colloquiali (D'Agostino 2007, 79).
Anche i due studiosi notavano, nella loro analisi, la forte influenza del dialetto su questa varietà, ed individuavano le maggiori interferenze tra parlato e scritto sul piano grafico, il cui uso non ha “riscontro sul piano del parlato, ma è insegnato a scuola“ (Sobrero 1975, 110): si segnalava dunque la presenza di doppie o scempie, là dove non sarebbero state previste, così come la poca padronanza delle regole relative all’interpunzione, agli accenti, agli apostrofi, all’uso di lettere maiuscole o minuscole, oltre che una difficoltà nella percezione dello spazio tra le parole, con i conseguenti fenomeni di agglutinazione o deglutinazione (in contro); dal punto di vista morfosintattico, frequente era l’errato accordo tra soggetto e verbo o tra sostantivo e aggettivo, dipeso dal fatto che lo scrivente si basasse su concordanze ad sensum (Sobrero 1975, 113), e ancora pleonasmi nell’uso dei pronomi (alla mamma le era piaciuta) così come l’uso di gli nelle forme oblique del femminile e del plurale, l’uso del ‚che polivalente‘, la coordinazione preferita alla subordinazione (Sobrero 1975, 113). Il  ‚modello‘ scolastico avrebbe operato meno, invece, a livello lessicale il quale, però, essendo connesso alla nuova realtà del mondo sociale, del lavoro, della televisione, portava ad una riduzione della presenza di termini dialettali; allorquando ve ne fossero stati, Sobrero parlava di una “consapevole scelta linguistica“ facendo riferimento a fenomeni rapportabili al bilinguismo, quali il commutamento di codice, oggi conosciuto come code-switching (Sobrero 1975, 115).
“Se si badasse solo alla morfosintassi, l’italiano popolare sarebbe fondamentalmente unitario“ (Berruto 1987, 109, nota 7), in quanto livello di analisi in generale meno soggetto alla differenziazione da area ad area (Berruto 1987, 109). Su questa tesi non concorda Mengaldo (1994) il quale, prendendo ad esempio l’accusativo preposizionale preceduto da a, spiega che tale fenomeno sarà sempre e solo fenomeno meridionale e mai settentrionale, se non eventualmente per motivi altri dall’affioramento dialettale. Per questa ed altre tesi contro l’unitarietà morfosintattica dell’italiano popolare, cfr. Mengaldo (1994, 109-110).
Bisogna altresì tenere presente, come ricorda Cerruti (2009), che ‚‚l’univocità di risultati a cui conduce in certi casi l’azione del sistema dialettale in regioni differenti è tale o perché, semplicemente, sono consimili le forme o le strutture di sostrato trasposte in italiano o perché l’effetto del contatto tra due codici è analogo in quanto rispondente allo stesso tipo di meccanismi“ (Cerruti 2009, 35); i tratti sovraregionali dell’italiano popolare, invece, possono essere riconducibili o a tratti tipici della testualità del parlato, o appunto a “tendenze e possibilità panromanze latenti in italiano“, tratti che facilmente si riflettono anche nell’italiano regionale (Cerruti 2009, 35), come ad esempio quello della ’semplificazione‘,  un meccanismo linguistico che avviene quando “a una certa forma (o struttura) di una lingua si contrappone una forma o una struttura più semplice, cioè più facile da realizzare, meno complessa, che può sostituire la prima senza che si perdano le informazioni essenziali contenute nel messaggio“ (Sobrero/Miglietta 2011, 175).
“Statisticamente, l’insieme di tratti che caratterizza in maniera più o meno netta e ‚densa‘ questa varietà tende a presentarsi presso parlanti diseredati culturalmente, presso le cosiddette classi subalterne scarsamente scolarizzate e poco/non colte [;] il carattere di ’sociale‘ è insomma netto se lo inquadriamo nei parametri di classificazione di varietà della lingua […], ma, come del resto è da supporre in generale per quanto riguarda le relazioni tra varietà di lingua e utenti, non è affatto deterministico“ (Berruto 1983, 87).
Non è del tutto facile distinguere con chiarezza “ciò che è popolare da ciò che è meramente informale e colloquiale“ (Lepschy 1989, 30); dal punto di vista morfologico e sintattico, ad esempio, sono diversi i tratti che le due varietà condividono: concordanze devianti, ridondanze pronominali, impiego del che polivalente, concordanze ad sensum; topicalizzazioni e riprese enfatiche (Berruto 1983, 93).
Parliamo qui dunque di eventuali tratti appartenenti a varietà diatopiche e diastratiche marcati anche diafasicamente, e non delle varietà in toto, le quali difficilmente possono “rappresentare esse stesse varietà marcate in diafasia“ (Cerruti 2009, 35).
Incertezza continuamente “soggetta a pressioni d’ogni tipo: dall’italiano aulico ai linguaggi settoriali al dialetto“ (Sanga 1984, 15). Sulla funzione dell’incertezza della norma, si noti, inoltre, come questa contribuisca “alla formazione di un uso instabile e fluttuante, al cui interno si vanno comunque delineando delle cristallizzazioni (sempre soggette a possibili regressioni) che, per ampiezza di diffusione, tendono ad imporsi agli italiani regionali ( e di qui allo standard)“; secondo Sanga, e successivamente Berruto, l’italiano popolare risulta come il “maggiore centro di innovazione linguistica della lingua italiana“.
Si rimanda qui al modello delle varietà di italiano proposto da Sabatini (1985), in cui si propone un italiano standard in opposizione all‘italiano comune, così come la coppia italiano regionale delle classi istruite e italiano regionale delle classi popolari (o semplicemente italiano popolare). Una simile suddivisione varrebbe inoltre anche per il sistema linguistico dialettale, nel quale si riconoscerebbero un dialetto regionale/provinciale ed un dialetto locale (Sabatini 1985).
Berruto propone inoltre di vedere all’interno dell’italiano popolare stesso una “piccola gamma di sottovarietà“, facendo distinzione tra un italiano popolare ‚basso‘ e un italiano popolare ‚medio‘, meno marcato e con minori interferenze dialettali (Berruto 1987, 114-115).
Usi in cui “vengono specialmente in primo piano tratti che in una corrispondente formulazione orale sarebbero del tutto inosservati, anzi invisibili“ (Berruto 2014, 280).
L’italiano popolare orale si caratterizza manifestamente nella pronuncia regionale “marcata verso il basso“ (Sobrero/Miglietta 2011, 101), ma anche per le false partenze, per le frequenti riformulazioni, per i generali cambi di progettazione nell’organizzazione testuale con le conseguenti correzioni e ripetizioni, e ancora, per i passaggi dal discorso diretto all’indiretto e per l’uso improprio delle forme al congiuntivo e al condizionale, oltre che per gli anacoluti e le topicalizzazioni; come ancora indicato da Sobrero-Miglietta, dal punto di vista morfologico, esso è caratterizzato dalle concordanze a senso e dalle ridondanze pronominali (tratti, come visto, spesso presenti nell’italiano colloquiale), ma anche da semplificazioni nominali e verbali, scambi di preposizione ecc; il lessico, invece, è ricco di termini generici (affare, cosa, coso, roba), ed è forte la tendenza ad inserire nel discorso espressioni e termini appartenenti alla sfera della burocrazia o termini aulici e tecnici, finendo però per storpiarli sul piano del significante, e risultando nei cosiddetti malapropismi, come vedremo nel capitolo 6 (Sobrero/Miglietta 2011, 100-101). Tutti questi fenomeni tipici dell’oralità si rivelano importanti per la nostra trattazione in quanto coerentemente trasposti nello scritto (Sobrero/Miglietta 2011, 100).
Sulla questione della possibile collocazione temporale dell“’Ur-italiano popolare“ e sulla nascita delle prime scritture semicolte propriamente dette rispetto alla normalizzazione grammaticale bembiana Cinquecentesca e pre-cinquecentesca, oltre che sulla separazione tra scritture proprie della varietà “alta“ e scritture riconducibili alla varietà “medio-bassa“, si vedano i critici lavori di Berruto (1987, 112-113) e Testa (2014, 21-24), oltre che il fondamentale lavoro di D’Achille (1994, 49-52; 57-65) ed i lavori di Valenti riguardanti questa varietà nel contesto cinquecentesco specificatamente siciliano (Valenti 2015, 533-542). A tal proposito, data la cospicua presenza di una parte dei tratti sub-standard nell’italiano popolare, concordemente con Bruni, Berruto sostiene che l’italiano popolare abbia offerto “una gamma di possibilità presente nell’italiano degli inizi, poi esclusa dalla codificazione bembiana della norma letteraria [e ricomparsa] con vigore quando una massa prima inesistente di parlanti non colti si è appropriata di una varietà di italiano“ (Berruto 1987, 113).
Dall‘Appendix Probi, una lista contenente 227 “errori di lingua“ evidentemente ben radicati nell’ambiente romano del primo secolo, che il grammatico Marco Valerio Probo tentò di correggere, al Satiricon di Petronio, testo contenente la nota Cena di Trimalchione, passaggio rappresentativo della compresenza di diversi stili impiegati dall’autore per distinguere socialmente i propri personaggi e volutamente rivelatore di una lingua “altra“, non rientrante nelle categorie normative imposte dal latino classico, fino ad arrivare all‘Itinerarium Egeriae, testo autobiografico ben lontano dal latino classico e improntato sul parlato dell’autrice, la pellegrina romana Egeria (Bruni 1984, 175-189).
Sulle drammatiche dinamiche che mossero gli scriventi semicolti alla scrittura durante la prima guerra mondiale, cfr. (Fresu 2015).
Cogliamo qui l’occasione per una dovuta precisazione sulle modalità di traduzione adottate nella nostra trattazione: le traduzioni da noi proposte vogliono anzitutto essere strumento per la globale comprensione semantica dei testi analizzati. Nonostante si sia tentato, infatti, in un primo momento, di mantenere almeno una certa aderenza morfologica e sintattica al testo originale, si è reso subito chiaro come ciò avrebbe inevitabilmente portato ad incomprensioni e malintesi, già presenti negli originali, anche all’interno delle traduzioni stesse. Di conseguenza, si è scelto di tradurre le intere lettere ed i frammenti presi in esame rendendoli il più possibile coesi e coerenti, laddove possibile, ai fini del nostro lavoro. Nostre sono anche le traduzioni in italiano dei singoli termini dialettali riportati nelle traduzioni, eccetto dove diversamente specificato; e a tal proposito, è doveroso ricordare che siamo consapevoli del fatto che altri studiosi, specie se di origine siciliana e provenienti da zone dell’isola diverse rispetto alla nostra, potrebbero riscontrare delle incongruenze (fonetiche, morfologiche, lessicali) tra la varietà qui riportata e la varietà da loro stessi parlata. È quindi fondamentale ribadire che i termini dialettali siciliani riportati nell’analisi sotto la voce “sic.“ non hanno la pretesa di essere riconosciuti come rappresentativi di un ipotetico siciliano standard: essi sono forme e termini facenti invece parte della varietà di siciliano parlata nel paese di Galati Mamertino, alla quale ci rifacciamo.
Sono aspetti questi che ben conosciamo, in quanto a noi raccontati in prima persona più e più volte nel corso degli anni.
Da diversi anni, la moglie di Peppino è a letto, a causa della demenza senile. Ella non parla, né pare recepire le parole dei familiari. Ciononostante, Peppino le porta ogni giorno un fiore raccolto nel giardino di casa, parlandole e rassicurandola sul bene che le vuole.
<<Siccome sono una persona che vuole sempre lavorare, scrivo ancora e mi piace tanto e per questo non mi non voglio smettere di scrivere, e così passa il tempo senza che ce ne si accorga, se no mi potrei mettere a dormire [il pomeriggio], però poi la notte non dormirei. Ed è per questo che non voglio dormire durante la bella giornata, e poi ve lo leggerò, questo bello scritto>>.
E ancora, durante i quotidiani colloqui con la famiglia, Peppino declama di essere, metaforicamente parlando, un professore, tanto è il suo sapere.
Sebbene le scuse per la propria scrittura siano presenti nella produzione di Peppino, abbiamo notato come queste vadano nel tempo via via scemando, rivelando la sicurezza dell’uomo, sviluppatasi con l’esercizio della stessa, nei confronti del testo scritto.
È qui inoltre interessante notare come, durante la lettura ad alta voce delle lettere e dei pensieri scritti, se da un lato Peppino legge effettivamente quanto trascritto, dall’altro va un po‘ a memoria, iniziando a pronunciare le prime sillabe, saltando alcuni caratteri o direttamente alcune parole, ma completando ugualmente la frase ed il pensiero ricordando quanto scritto, in quanto gli episodi narrati da Peppino nel nostro corpus costituiscono in gran parte una sorta di repertorio di eventi e narrazioni che l’uomo ha sempre condiviso oralmente con le figlie e la famiglia nel corso della sua vita. Avendo usufruito „in anteprima“ delle eventuali spiegazioni fornite da Peppino sulle proprie produzioni, le figlie dell’uomo hanno potuto aiutarci a sciogliere alcuni punti per noi di difficile comprensione o generalmente oscuri.
Data la distanza fisica che intercorre tra chi scrive e Peppino, non è stato possibile inoltrare il questionario di persona a Peppino; esso è stato bensì inviato alle figlie dell’uomo, le quali si sono occupate di raccogliere ed inviarci la risposta. Anche a motivo di ciò, non è stato possibile seguire passaggio per passaggio il processo di risposta al questionario, che non potremo perciò descrivere nel dettaglio.
<<Io Sono Nato a Galati Mamertino nel 1931 e sono nato il 24 e mi hanno dichiarato [all’anagrafe] il 25. Io ho fatto solo la terza elementare e avevo circa 9 o 10 anni, e poi a 14 o 15 mi sono fatto la scuola serale e [il maestro] ci faceva fare anche le lettere per la fidanzata. Io a 16 anni sono andato a zappare [sic. zappuliare] il grano e poi io, per evitare di venire a Galati sono rimasto ad aiutare le mie zie a Troina. E Io ho fatto sempre il contadino, come i miei cari genitori, tranne quando ho fatto il militare a Casale Monferrato e poi sono andato ad Alessandria. C’è stato un soldato che mi ha chiesto: «Fazio, ma tu come hai imparato a parlare italiano?» e Io gli ho detto: «Così come mi parlano, io rispondo. Se no, se io parlassi loro come [parlo] nel mio paese nessuno mi potrebbe capire». E poi quando sono tornato a  casa, dopo dieci mesi, mi rallegravo di parlare in italiano e adesso posso parlare con tutti come mi piace. E quando scrivevo a casa, scrivevo in italiano e io quando nella busta mettevo cinquecento lire, la mia cara mamma era analfabeta e correva per aprire la busta e mio padre, che sapeva scrivere e leggere, le diceva: «perché corri se non sai leggere?». Il mio caro papà ha trovato tre soldi e si è comprato il quaderno e con un solo soldo una matita [sic. lapis] e se n’è andato a scuola e il suo caro papà ha detto [parlando con il maestro]: «a mio figlio non c’è bisogno che gli insegni [le varie cose che si insegnano a] scuola. Gli deve solo insegnare [sic. imparari] l’educazione». E allora il mio caro padre ha pensato: «ma allora io che cosa sono? Un animale?» e allora, da allora [sic. di tannu] in avanti è diventato un bravo bambino e poi anche una bravissima persona e diceva che le persone brave possono stare in tutte le società civili. Io parlo come mi piace però, quanto allo scrivere non si può scrivere in dialetto: si deve scrivere per forza in italiano>>.
Utilizzando le domande del questionario come una griglia da cui partire per costruire una produzione, eludendo, però, diverse delle stesse.
Pur non preoccupandosi però di spedirle: esse sono infatti serenamente conservate nei quaderni e solo qualora si presenti l’occasione, vengono mostrate agli interessati. In ogni caso, però, bisogna notare come Peppino non ponga mai all’interlocutore delle domande che prevedano delle risposte dal destinatario, come a segnalare, a livello inconscio, di sapere già che questi non riceverà la lettera.
A proposito del genere epistolare, Fresu (2008) ritiene, inoltre, che la “dialogicità a distanza“, tratto proprio del genere della lettera vada a giustificare “i cedimenti verso una pianificazione arcorata all’oralità e sfumata in toni familiari e informali“, nelle scritture semicolte.
A tal proposito si segnala la presenza di cosiddetti “doppioni“ nei nuclei tematici, come accade nelle produzioni di Tommaso Bordonaro, siciliano semicolto classe 1909, emigrato in America; come spiega Amenta (2012, 737), con il passare del tempo, Bordonaro pare avere dimenticato di avere scritto ed inviato le proprie produzioni al professore che ne curava le edizioni, creando, così, nuove produzioni sugli stessi temi già trattati. Anche le produzioni di Peppino presentano, come detto, più volte gli stessi argomenti; tuttavia, pare che questo sia non tanto da ricondurre alla memoria dell’uomo, che pure certamente potrebbe giocare dei brutti scherzi; quanto all’importanza che per lui queste tematiche rivestono. Per quanto riguarda, al contrario, l’inserimento di veri e propri doppioni di racconti, canzoni e poesie, simili nella forma oltre che nel contenuto, è lì possibile che ciò sia da attribuire al fatto che l’uomo non ricordi di averle già “immortalate“ per iscritto. In ogni caso, la presenza dei doppioni ha talvolta reso più leggero il processo di ricostruzione e traduzione dei testi, spesso a tratti criptici.
Non deve qui stupire la convergenza tra tali discipline, apparentemente lontane tra loro: come fa notare Spina, infatti, uno dei tanti elementi di contatto tra le due sarebbe costituito dal fatto che entrambe si occupano dello “studio di diverse modalità di comunicazione che, in entrambi i casi, avvengono mediante l’uso di codici“ (codifica e decodifica del codice nel passaggio tra parlante-mittente e parlante-ricevente, nel caso delle lingue naturali; codifica in “linguaggio macchina“ delle istruzioni ricevute dall’utente, e codifica della risposta della macchina in un linguaggio comprensibile per l’utente, nel caso degli elaboratori elettronici) per la trasmissione dell’informazione (Spina 2001, 9). Strumenti e metodi visceralmente propri dell’informatica vengono inoltre serenamente utilizzati dalla linguistica: uno su tutti, il parametro della composizione/scomposizione tramite il quale essa opera la segmentazione del continuum linguistico, parametro caro all’informatica che è “per sua natura, basata su tecnologie che permettono di atomizzare oggetti diversi (testi scritti e parlati, immagini fisse e in movimento, suoni), [ e ] di scomporli nella catena di zero e di uno su cui si fonda il codice binario che essa utilizza“ (Ivi: 10). Per un approfondimento sugli ulteriori punti di convergenza e punti di scambio tra linguistica ed informatica, si veda Spina (2001, 9-12).
Come spiega Spina (2001, 7)l’esponenziale evoluzione delle tecnologie informatiche ha permesso di passare dai primi rudimentali “calcolatori elettronici“ diffusisi negli anni Quaranta-Cinquanta ai personal computer sviluppati trent’anni dopo, passando da un iniziale dominio contestualmente ristretto quale quello prettamente scientifico (si pesi a discipline basate sul calcolo quali matematica e fisica) ad una funzionalità eclettica (general purpose) che potesse aprire a diverse operazioni, tra cui spiccano, tra le altre, la conservazione ed il trattamento di informazioni attraverso lo strumento dell‘elaboratore elettronico. Spina individua inoltre le origini teoriche della disciplina nelle menti di filosofi e matematici quali Leibniz, Boole, Pascal e Russell, in quanto lo sviluppo delle nuove tecnologie sarebbe derivato proprio dall’intersezione tra studi di logica e studi matematici (Spina 2001, 8).
Per un approfondimento diacronico sullo sviluppo delle iniziative più rilevanti nel campo degli studi linguistici assistiti da computer, cfr. Spina (2001, 17-29).
È interessante vedere come l’ambito linguistico in cui la linguistica dei corpora trova maggiore applicazione sia quello lessicografico, ambito in cui è possibile operare un celere confronto digitale dei dati; nel caso della sintassi, al contrario, l’analisi linguistica del dato testuale fornito dal corpus non è sufficiente, in quanto è necessario contestualizzare le connessioni sintattiche tramite l’aggiunta di ulteriori informazioni ad opera dell’uomo stesso (Spina 2001).
A tal proposito è bene sottolineare la presenza di alcune annotazioni trascritte dalle curatrici del materiale sulle copie originali delle produzioni dell’uomo, circa la data di stesura delle stesse (prevedendo di spedirle o tentando, talvolta, di ordinarle cronologicamente), o sotto forma di delucidazioni rispetto al pensiero – o alla scrittura stessa – a tratti poco cristallino del padre, nella previsione, nel caso delle lettere, di farle leggere con più scorrevolezza agli interessati. Si potrebbe pensare che queste vadano a confondersi con le note apposte dallo stesso scrivente e a compromettere il lavoro di ricerca, ma in realtà gli interventi da parte di terzi sull’originale si distinguono sensibilmente dalle annotazioni dello stesso Peppino: le due tipologie di correzione o intervento sono infatti visibilmente diverse e ben riconoscibili per calligrafia, colore dell’inchiostro e carattere impiegato, in quanto Peppino non sembra conoscere altro carattere che il corsivo minuscolo, mentre le figlie impiegano di norma lo stampatello maiuscolo o, al limite, un corsivo minuscolo con una calligrafia comunque inequivocabilmente non attribuibile a Peppino.
In tal senso si è fatto riferimento alla metodologia di raggruppamento per tema seguita da Leo Spitzer nell’edizione delle Lettere di prigionieri di guerra italiani (1915-1918), nella quale il linguista analizzò le specificità delle lettere raccolte in 23 diversi capitoli a cui aveva dedicato una specifica tematica ricorrente nelle produzioni: la lontananza, l’attesa della pace, le richieste di denaro e vestiario sono solo alcuni dei diversi temi che più si riproponevano nello scambio epistolare contenuto in questa edizione.
Si è qui reso necessario impiegare una tripla barra obliqua al fine di distinguerla sia dalla singola barra obliqua da noi regolarmente inserita nei testi riportati per segnalare il tornare a capo di Peppino, sia e dall’effettivo inserimento operato dall’uomo di una sbarra obliqua nel riportare una data, in 8.3.1-VIII: “11//12//2182018“.
La lettera che presenta questo fenomeno è difatti quella che aveva più possibilità di essere realmente recapitata al destinatario o, se non propriamente recapitata, quantomeno mostrata alla diretta interessata: stiamo parlando della lettera 8.2-XVI, indirizzata alla parrucchiera del paese. La produzione potrebbe avere subito delle lievi correzioni non solo per volontà di Peppino durante la sua personale rilettura, ma da parte delle figlie. Di conseguenza pare qui corretto sottolineare la possibile non piena attendibilità della specifica correzione effettuata tramite < / >.
Tramite il lavoro di lettura, trascrizione e analisi eseguito in questi mesi sulle produzioni di Peppino, si è avuto modo di sviluppare una comprensione del modus operandi dell’uomo rispetto alla scrittura e alla sistematicità delle soluzioni da lui adottate. Questo ragionamento non vuole dunque avere la deterministica pretesa di conoscere come egli si sarebbe potuto approcciare alla risoluzione del problema dell’inserimento, tra due parole precedentemente univerbate quali sono avoluto <<hai voluto>>, del grafema i dimenticato durante la stesura. È tuttavia opportuno ritenere, data la frequente occorrenza del fenomeno, che in casi come questo Peppino avrebbe inserito il grafema tra le due parole, non curandosi di separarle, come da noi riportato durante la trascrizione su DH.
<<Gli uomini si dividono in quattro categorie: uomini, mezzi uomini, ominicchi e quaquaraquà. Mi diceva la buonanima di mio papà, ’nzanitàte: “un uomo vale per quello che sa. Se non sa niente, che cos’è? Un ceppo [sic. zuccu] di castagno [sic. castagnera]“; e mio padrino mi diceva: “chi è buono, è buono per tutti. Chi è cattivo [sic. tintu], è cattivo per se stesso“; era fratello di mia mamma: questa è la mia intelligenza!>>.
Anche in tal senso, in questo specifico esempio, sembra poco probabile che questi siano stati inseriti dalle figlie, le quali godono di un’istruzione tale da consentire loro di poter distinguere i corretti usi della punteggiatura; siccome, inoltre, questo passaggio non interessa terzi se non Peppino stesso, escludiamo che sia stato “maneggiato“ e corretto dalle figlie dell’uomo, come invece avviene nel biglietto d’auguri per la laurea della nipote Alessia o in altre lettere, le quali, essendo rivolte ad altri, sono spesso state riviste dalle due donne, al fine di rendere, come più volte detto, la lettura più scorrevole.
A proposito dell’impiego della virgola, si segnalano la lettera 8.2-XXII in cui essa separa, in un’elencazione di nomi, un elemento dall’altro, per poi assumere infine il valore del punto fermo a chiusura della frase e ad apertura della successiva: “la strata che saliva della turre labiamo / ziaia quattro Io, Calogero Conte, la / Signora Gina mmanna e famoso / chognato Antonino pinitto, u bonanima / di nostro fratello Antonino mia detto / stai atento“ <<la strada che saliva dalla torre l’abbiamo percorsa per la prima volta [sic. nsaiata, da nsaiari, lett. provarsi un abito nuovo, cfr.  Giarrizzo (1989, 232)] in quattro: io, Calogero Conte, la Signora Gina mmanna e il famoso cognato Antonino pinitto. La buonanima di nostro fratello Antonino mi ha detto “stai attento!“>>; ed il pensiero 8.3.1-VIII, in cui le virgole compaiono – sebbene non sistematicamente – con la stessa funzione nell’elenco dei fratelli e delle sorelle di Peppino: “eravamo quatro / fratelli e tresorelle. Langhiu / si grande si chiamava Concettina / laseconda Giuseppina poi cera / un fratello che si chiamava / Salvatore, Io, poi Antonino, / Lina é Paolino.“.
Segnalando la citazione di parole pronunciate da terzi tramite l’inserimento dei due punti, Peppino si porrebbe su un diverso livello del discorso narrativo, rivelando la propria competenza metacomunicativa. Tuttavia, vista l’assenza di questo atteggiamento nella restante produzione dell’uomo, dove, al contrario, come vedremo, egli passa con nonchalance da un piano all’altro, dobbiamo concludere che questo segno d’interpunzione sia stato inserito dalle figlie.
Sul perché del doppio inserimento della barra obliqua nella nostra trascrizione delle lettere, cfr. il capitolo 5.3.2 della nostra trattazione.
Non è men che meno pensabile che Peppino sia a conoscenza dell’opposizione tra le varianti standard /e/ ed /ε/, così come quella tra /o/ ed /ɔ/, e che tenti di riprodurla, a motivo della difficoltà regionale di distinzione tra l’opposizione di queste ultime due varianti aperte e chiuse, le quali nel sistema vocalico siciliano vengono neutralizzate, lasciando spazio alle varianti aperte /ε/ ed /ɔ/ (D'Achille 2003, 184) .
Ricordiamo, infatti, che durante il periodo militare trascorso a Casale Monferrato, all’età di vent’anni circa, Peppino soleva inviare delle lettere ai genitori rimasti in Sicilia.
Non prenderemo qui in esame il primissimo testo scritto di Peppino risalente al 2016, il biglietto d’auguri per la laurea della nipote Alessia, in quanto, presentando una notevole quantità di punti fermi estranei alle successive produzioni, è grande la possibilità che il testo ottenuto sia stato il risultato finale di suggerimenti, correzioni e manipolazioni apportate, per l’occasione, dalle figlie di Peppino allo scheletro del testo da lui elaborato.
Sulla particolare resa grafica della parola, cfr. § 5.3.4.
Cfr., a tal proposito, Ruffino (2001, 77-78).
A tal proposito è interessante notare, come spiega Spitzer, che i termini geografici estranei alla coscienza popolare vengono storpiati sul piano del significante, venendo paretimologicamente “assimilati alla meglio a parole italiane note, anche se prive di senso“ (Spitzer 1976, 38), costituendo una sorta di malapropismo, come vedremo in 5.5; la parola “Jugoslavia“ doveva certamente rientrare tra la serie di termini “esotici“ di difficile assimilazione e riproduzione per una persona dalla bassa istruzione quale Peppino, come dimostra altresì un secondo inserimento della stessa, “avicusgrauria“ (8.3.4-III), nel quale la storpiatura è ancora più evidente.
Parlando della nascita della seconda figlia in 8.2-XXIV, ad esempio, di fondamentale importanza per l’uomo paiono le parole: “Dottora“ <<dottori>>; allo Spetale“ <<all’ospedale>>; Lasignora Lucia Lavitrice“ <<la signora Lucia, la levatrice>> ossia la donna che assisteva la moglie durante la gravidanza; l’aggettivo Poveretta“, espresso compassionevolmente nei riguardi della moglie sofferente per i dolori del parto e alla quale è indirizzata la lettera.
<<Spero che la presente lettera venga a trovare a te. Io ti voglio tanto bene come tu vuoi bene a me e alla nonna, che ti vuole bene. Tu sei intelligente […] mi ricordo quando, ’nsanitate, è venuta a mancare la tua nonna Nunzia, gli hai chiesto alla nonna Nina se si era dispiaciuta e lei ti ha risposto “certo, gioia“. Adesso ti salutiamo, io e la nonna che anche lei ti vuole tanto bene e ci dico presto ci vieni a trovare tu. Ti abbracciamo baciandoti>>.
Le maiuscole sono, infine, impiegate pressoché regolarmente per i nomi dei mesi dell’anno, che di norma dovrebbero essere scritti in minuscolo: “gennaio Febraio Marzo A Prili Magio Giugno Luglio A_gosto Settenbre Ottobre Novebre ĕ Dicenbre: “, 8.3.2-V; e con le lingue (parola anch’essa riportata in maiuscolo), come si nota nel frammento precedentemente analizzato (8.3.1-VII): “Inglse Tedec Te Tedesco è Fra / è Francese Italiano / Inglese Tedesco é Francese? / Mia Nipote Parla queste / l Lio Lingue“.
Allo stesso modo, si potrebbe ipotizzare una certa difficoltà nella resa grafica della lettera <j> riscontrata nella scrittura della parola “Jugoslavia“; in questo caso, però, sembra più plausibile credere che Peppino non fosse a conoscenza di come si scrivesse questa parola e che la conoscesse avendola sentita nominare a qualcuno, possibilmente durante il suo soggiorno militare in Piemonte; non avendo dunque idea dell’implicazione della <j> nella denominazione di questa nazione, Peppino la riporta graficamente realizzando quello che si caratterizza come un malapropismo, come precedentemente accennato e come vedremo più approfonditamente nel capitolo 6.3
Per quanto riguarda il nesso <gh> – presente in “ora voghio finire“, ora voglio finire (8.2-IV) – si nota come esso rifletta l’interferenza dialettale del verbo sic. vogghiu, il quale viene trasposto all’italiano voglio, e come la forma risultante rifletta una commistione di elementi da entrambe le lingue. Il nesso viene altresì trascritto in “Langhiu / si grande“, la più grande (8.3.1-VIII): è evidente l’interferenza con il siciliano a cchiù ranni, forma che qui appare, però, ipercorretta o risultante da un’assimilazione della <g> ad una possibile nasale velare sonora /ŋ/ che la precede.
È bene qui precisare, però, che non si tratta di un fenomeno sistematico nel corpus: più volte Peppino va a capo dimenticando di segnalare il procedimento apponendo il segno ( = ), come, ad esempio, in in 8.2-XX: “cimancha / va un ferro“ <<gli mancava un ferro [allo zoccolo]>>.
Si notano, inoltre, dei casi in cui l’uomo va a capo, magari rispettando anche la corretta divisione in sillabe e segnalando l’evento tramite il segno ( = ), dimenticando, però, di scrivere nel rigo successivo la sillaba da riportare, come in 8.3.3-II: “e mipia= / tanto“ <<e mi piace tanto>>; o in 8.2-XX: “u banani= / di donturigu“ <<la buonanima di Don Turiddu>>; fenomeno di distrazione dovuto forse alla fretta e alla foga di Peppino nello scrivere.
Per rendere maggiormente l’idea, essa potrebbe ricordare il suono che in inglese viene reso con la vocale breve /ɪ/, di will, rabbit, Latin ecc.
<<Cara Alessia, ti scrivo queste due parole per dirti che sto bene di salute e così spero che stai bene anche tu e i tuoi amici e ti voglio tanto bene come tu vuoi bene a me. Ti saluto e ti dico che mentre dormivo, ti ho sognato, ho sognato che mi abbracciavi. Non posso scordarmi mai di te, tu sei una ragazza tanto intelligente, ed è per questo che mi vuoi tanto bene, perché perché vedi che io ti voglio assai bene. Non mi prolungo più. Ciao, a presto. Intanto allungo ancora: la mamma è uscita fuori con la zia. I saluti ti mando di nuovo, ciao, e ti saluta anche papà>>.
Con il passare del tempo e con l’esercizio della scrittura, tuttavia, Peppino pare acquisire maggiore confidenza con la forma “tuoi“, che appare trascritta correttamente più volte nel corpus, sebbene non sia esente da problemi relativi all’accordo, come vediamo in una lettera scritta nel 2018 alla nipote minore, in cui si legge: “timeriti tanto ririspetto di tutte Noi le Nonne ele Tuoigenitore“, <<ti meriti tanto rispetto (da parte) di tutti noi, (dal)le nonne e (da)i tuoi genitori>> (8.2-XIX); in questo passo notiamo ancora la tendenza di Peppino a rendere la -i finale indistinta con -e (tutte Noi, <<tutti noi>>; genitore, <<genitori>>) e ad accordare le desinenze dei relativi articoli impiegati sulla base di queste (leTuoigenitore).
<<Carissima nipote Alessia, ti scrivo questa lettera per dirti che sto bene di salute e così spero che stai bene anche tu e ti dico che la nonna sta anche bene e io dico che certamente ti vuole vedere. A lei piacerebbe che tu le stessi sempre vicino e ti dico che quest’oggi tuo papà e tua mamma ci hanno fatto una sorpresa. Io non li aspettavo perché sapevo che sarebbero venuti per il santo Natale e invece sono venuti quest’oggi! La badante mi ha detto che c’era Carolina e invece c’erano tuo papà e tua mamma. Non mi prolungo tanto e ti dico ciao a presto, tantissimi saluti e baci. Ciao. E adesso, carissima nipote Alessia, ti scrivo un racconto antico, per esempio, tanto per farti capire: c’erano tre fratelli, come, per esempio, nella nostra campagna a Milè (noi la chiamiamo Milè, però sulla mappa si chiama Liazzo) e lavoravano, questi tre fratelli. È passato un signore, ha salutato ed ha continuato ad andare avanti per la via e siccome [i tre fratelli] erano indietro di senno [stupidi], si stavano impasticciando [azzuffando], dicendo: “Quel signore ha salutato me!“. Tutti [e tre] dicevano così. Uno dei tre ha detto: “Andiamogli a domandare a chi ha salutato“, allora quel signore ha risposto: “Ho salutato quello [più] fesso che c’è“ e domandava loro a chi fosse successa la cosa più stupida [per decretarlo]!>>.
Di particolare interesse in quanto presente nell’unica lettera in cui Peppino si rivolge dando del Lei al destinatario, esprimendo intenzionalmente una dovuta distanza diafasica: “levogliono tutti Bene perche Lei / vole Bene a laltri quindi quindi ci dico / che ciá una buona fama“ <<Le vogliono tutti bene perché Lei vuole bene agli altri, quindi Le dico che Lei ha una buona reputazione>> (8.2-XVI).
Un fenomeno similare potrebbe essere riscontrato anche nella formula di chiusura della lettera, in cui Peppino scrive Tantismi Salute é Baci“ <<tantissimi saluti e baci>>, fenomeno che potrebbe all’apparenza essere letto come esempio di un mancato accordo tra un aggettivo ed un sostantivo, fenomeno tipico dell’italiano dei semicolti (Mocciaro 1991, 35): se infatti la desinenza plurale di tantissimi è correttamente accordata con quella di baci,  essa non lo è rispetto a quella di saluti, sostantivo che nella resa di Peppino presenta una -e finale. In questo caso, però, pare probabile che lo scambio tra il sostantivo femminile singolare salute e il maschile singolare saluto (al plurale saluti) sia causato dalla riproduzione su carta del continuum fonico parlato, il quale prevedrebbe un’assimilazione tra la -i siciliana indistinta in fine di parola (che, come detto poc’anzi, facilmente assume in ogni caso nella produzione dell’uomo il carattere di una -e finale) e la congiunzione “e“, risultando nella desinenza -e del sostantivo saluti.
Si noti, inoltre, che questa frase resa all’imperfetto in siciliano può anche essere tradotta in italiano con il passato prossimo: quel signore ha salutato me.
Se si volesse creare una frase marcata in siciliano, basterebbe infatti spostare il verbo dall’ultima posizione; nel nostro caso, una frase sintatticamente marcata sarebbe: quel signore salutava a mìa; o ancora: a mìa salutava quel signore.
Sebbene si segnali la presenza di alcune frasi secondarie introdotte da “che“: “ti scrivo perdirti che sto Bene di Salute“; “spero che stai Bene Anche Tu“; “Tidi_cho chela Nonna sta Anche bene“ ecc.
Si noti, tra l’altro, l’impiego di una struttura analitica come “indietro di senno“ anziché di una sintetica come “stupidi“, fenomeno caratteristico degli italiano dei semicolti (D'Achille 1994, 73).
<<Carissima campagna, io Fazio Peppino Rocco vorrei stare sempre con te però non lo posso fare e mi dispiace ma devo essere paziente perché le (mie) figlie non mi hanno fatto prendere la patente e devo dipendere da loro [sic. grammizio, termine arcaico riportato in Giarrizzo (1989, 169) come grammizzi‘, loc. avv. <<molte grazie>> dal fr. grand merci <<mille grazie>>; da questa locuzione avverbiale proverrebbe il modo di dire stari in grammizio ri carcunu, ossia, <<essere alla mercè di qualcuno, dipendere dal suo volere ed essere dunque in obbligo di ringraziarlo per la sua benevolenza]. Se io me ne vado [sic. pàrtiri] da solo, a piedi, la gente mi prende per stupido, a me e alle mie figlie. Però io una volta buona sono andato (da solo). Prima che arrivassi in campagna, c’era un signore con sua moglie; mi è arrivato da dietro e mi ha detto: “Dove va?“ – “Vado a raccogliere[sic. cògghiri] un po‘ di fichi“ – “E le sue figlie?“ – “Loro, quando vedono che non ci sono più gli stivali [sic. scarpuna], lo capiscono che sono andato in campagna“. Infatti mia figlia Antonietta se l’è pensata e mi è venuta a prendere. Io sono Fazio Peppino Rocco, Galati Mamertino 29 Dicembre 2018>>.
Un altro esempio dello stesso fenomeno è offerto nella prima lettera: “Luei cipiacesse che stavi Tu senpre / vicino a Lui“, sebbene esso sia riferito alla moglie, dunque coniugato alla III persona singolare.
Facciamo qui riferimento alla specifica varietà galatese, in quanto, se è vero che la costruzione dialettale siciliana più diffusa per esprimere il periodo ipotetico dell’irrealtà è quella, come detto sopra, del cong. imperf. + cong. imperf., è altrettanto vero che in altre zone dell’isola esistono forme al condizionale come vurrìa <<vorrei>> e farrìa <<farei>> (cfr. Ruffino 2001, 62), diffuse ad esempio a Messina e, per continuità spaziale, nella vicina Calabria (cfr. Krefeld 2019).
Si noti che questo costrutto assume sì primariamente il valore della forma modale italiana dovere+infinito, ma esso può anche assumere il valore di futuro: a differenza dell’italiano, infatti, il sistema verbale siciliano non presenta delle forme sintetiche per esprimere il futuro, il quale viene invece reso o tramite l’impiego del presente indicativo, o, appunto, tramite l’impiego di forme perifrastiche quali il costrutto àiu a + infinito, spesso seguito da un complemento di tempo come dumani <<domani>> o doppudumani, <<dopodomani>> (per un ulteriore approfondimento, cfr. almeno Ruffino 2001, 62).
Si noti qui l’interferenza, nella resa del sostantivo italiano figlie, con il sostantivo sic. fìgghi, valido ad indicare sia il maschile che il femminile.
Frase in cui spicca, per altro, l’uso anch’esso tipico del parlato informale del dativo etico, indicante un particolare coinvolgimento anche affettivo del parlante nell’azione espressa dal verbo, in questo caso tramite l’inserimento del pronome “mi“ (cfr. Cignetti 2010).

6.3. Livello lessicale e paremiologico

Abbiamo visto nei due paragrafi precedenti come il dialetto siciliano eserciti una forte influenza a livello grafematico-fonetico e morfosintattico sulle produzioni di Peppino, risolvendosi spesso in meccanismi analogici, oltre che di semplificazione, e come ciò accomuni le produzioni dell’uomo a quelle degli scriventi semicolti prese in esame dai diversi linguisti protaginisti del dibattito sull’italiano popolare (cfr. De Mauro 1994; Cortellazzo 1972; Sobrero 1975; Berruto 1987; D'Achille 1994 ecc.). Sul piano lessicale, però, alcuni studiosi hanno nel tempo messo in rilievo come l’interferenza dialettale in questi testi fosse certo, presente, ma in misura minore rispetto a quanto ci si sarebbe aspettato (D'Achille 1994, 72); questo “indice sostanzialmente basso di dialettalità“ (Testa 2014, 101) riscontrato nelle prime produzioni semicolte sarebbe dipeso dal fatto che i modelli lessicali da cui i semicolti attingevano per la scrittura provenissero dal “mondo del lavoro e della vita sociale (incontro con la burocrazia, la pubblicità, la televisione)“ (Sobrero 1975, 114), per cui la presenza di termini dialettali dipendeva da quella dei cosiddetti vuoti oggettivi, ossia dalle impossibilità di traduzione di alcuni termini dal dialetto all’italiano in quanto difatti privi di corrispondenza, o dei vuoti soggettivi, dovuti alla scarsa conoscenza del parlante di determinati vocaboli che pur avrebbero potuto tradurre adeguatamente una parola dialettale in italiano (D'Achille 1994, 73). Vediamo adesso come Peppino affronti la questione del siciliano nella sua produzione.

 

6.3.1. Il lessico

Sul lessico impiegato da Peppino, pare qui dovuta una prima considerazione: durante il raggruppamento e l’analisi del materiale raccolto, non è passata inosservata la tendenza dell’uomo ad impiegare termini dialettali e costruzioni siciliane trasposte in italiano, specialmente nelle sezioni narrative delle sue produzioni, e meno nelle restanti parti, quelle, per esempio, nelle quali impiega le formule di saluto e quelle inerenti alle formule di rito (“Spero che stai bene“ o “Spero stia bene anche tu“ ecc). Ciò si spiega facilmente se si pensa che le ambientazioni rievocate dall’uomo nei racconti d’infanzia, di gioventù e di vita quotidiana (escludendo, dunque, pur non categoricamente, i racconti relativi all’esperienza militare) fanno riferimento all’ambiente popolare nel quale egli è cresciuto ed ha trascorso la vita. E‘, ad esempio, logico che Peppino, nel fare riferimento ad utensili relativi alla campagna impieghi termini dialettali di cui forse non conosce il corrispettivo italiano, proprio in virtù del fatto di non avere mai avuto bisogno di una traduzione italiana in quel contesto agricolo, o termini che sarebbero troppo impegnativi da tradurre; un esempio lampante di quanto detto finora è offerto dalla lettera 8.2-XI al nipote Paolo, in cui, ricordando di quando era piccolo, Peppino parla di un episodio avvenuto in campagna, lasciandosi andare all’uso di diverse parole dialettali:

[…] Io mirrichordo quando mi prendevi / le scarpe non lo dimenticho mai ē quando / eravomo in chanpagna tiho detto che porgesse / cittune porgiuto sei andato a trovare / la Mamma Io seicchome non tovi / o più o scieso dellabero penzando che andavi nella / giebbia mentre eri chonla Mama e mensono / ritonato sullalbero il cettune millo messo al / cinto ē chosi comedo la facenda / Io mirichordo anche passavi nella saia […]119

Saltano subito all’occhio diversi termini relativi all’ambito agrario, quali la parola “cittune“, sic. ccittuni, indicante una piccola ascia, un’accetta per potare gli alberi; il termine “giebbia“ sic. gèbbia, <<ricetto d’acqua murato per vari usi, vivaio>> (Pasqualino 1987), ossia <<cisterna d’acqua>> solitamente costruita in pietra e d’uso in comune per diversi proprietari terrieri; o ancora il termine arcaico “cinto“, sic. cintu, per <<cinta, cintura>> al quale Peppino appendeva l’accetta per potersi arrampicare meglio sugli alberi; e ancora, la parola “saia“, sic. sàia , termine di origine araba (cfr. Ruffino 2001, 19; 73) così come gèbbia, e descritto dall’Abate Pasqualino come un <<canale murato, per lo quale passa l’acqua per servigio de‘ molini, e simili>> (Pasqualino 1987), ossia un corso d’acqua creato artificialmente per migliorare il sistema di canalizzazione ed irrigazione del raccolto. Allo stesso modo, una lettera contenente il racconto di un episodio avvenuto in casa può rivelare l’impiego di parole dialettali oramai scomparse o in via d’estinzione, in quanto, come sappiamo, la connessione tra le parole e le cose alle quali si riferiscono è molto stretta: se una cosa cessa di esistere, è molto probabile che scompaia anche la parola ad essa relativa (Ruffino 2001, 69-71). Nella seguente lettera scritta per la moglie (8.2-XXIV), Peppino ricorda e descrive la drammatica dinamica di un incidente domestico in cui la figlia primogenita è stata coinvolta da piccola:

Ioricordo / quando Tu ci dicevi alla Bonarma / della Mamma zanitati Mamma / su chatarratu a vertu chon latenna / chalata ĕ pericoloso per Figlia Natalina / per la Figlia Antonietta non melo / ricordo fince la Figlia Natalina / sie buttata nel sottano éri incinta /  ĕ del scanto ti sei sbuttita e allora / Io era che lavorava nella Casa / lasopra dil di Lina e quacuno mie venuto / aciama che dovettomo andare allo Spetale / a Santacita di Militello ĕ mia portato / il Bonanima di Ginu seriu zanitati / e cho Noi ce cera Lagnora lavatrice / lautista ciadetto aquantu amairi / e cia risposto Lasignora Lucia Lavitrice / volare e allora ciadetto lau Tista / uscite un facioletto fora dello sportello e ricordo che le Dottora sipenzavono / che avevi sbuttito apposta e Tu / Povoretta bramavi dal dolore120

Anche qui notiamo un’abbondanza di termini dialettali, a partire da “bonarma“, variante siciliana del già menzionato buonanima – riferito, in questo caso, da Peppino alla madre della moglie – variante sicilaian del già menzionato buonanima, espressione impiegata <<quando si parla de‘ morti, e vale la buon‘ anima>> (Pasqualino 1987) per esprimere un senso di “affettuosa e rispettosa memoria“ (Treccani), rafforzato subito dopo dalla locuzione esclamativa “zanitati“, sic. ’nzanitate, ripetuta subito dopo la menzione del defunto per scaramanzia, al fine di allontanare la morte. Segue il termine “chatarratu“, sic. catarrattu, che Pasqualino spiega essere <<quella buca, onde talora si passa da un piano di scala, a un altro, che si cuopre poi con cateratte, o simili, botola, caterratta>> (Pasqualino 1987, il corsivo non è nostro), ed indicante in questo caso l’imposta a chiusura della botola stessa, termine oramai desueto in quanto non vengono più concepite le case provviste di una botola a protezione della scala tra un piano e l’altro, in particolare, tra il piano terra e la cantina, quali potevano essere le abitazioni siciliane di inizio secolo oramai diroccate ed in disuso. Il sintagma “latenna calata“ contiene altri due termini dialettali, ossia tenna <<tenda>> e calata <<abbassata>>, messa in modo tale da impedire di vedere che il sic. sottanu, <<cantina>> (qui indicante, però, la botola che porta alla cantina) era aperto. Notiamo ancora l’inserimento della parola “scanto“, termine dialettale regolarizzato in italiano tramite la desinenza -o, dal sic. scantu, ossia <<immaginazione di male soprastante, sbigottimento d’animo per espettazione di male, paura>> (Pasqualino 1987).

Proseguendo nella lettura del brano notiamo, poi, un’espressione la cui comprensione non risultata immediata: “ti sei sbuttita“, più sotto riportato come “avevi sbuttito“. Grazie, da un lato, al contesto in cui le due espressioni sono collocate e, dall’altro, all’aiuto delle figlie dell’uomo, le quali conoscono bene la storia, riusciamo a comprendere l’intenzione di Peppino di utilizzare il verbo “abortire“; tuttavia, il processo di ricostruzione cognitiva che ha portato all’impiego di questa parola non è stato semplice. È possibile pensare di essere qui di fronte ad un caso di malapropismo, fenomeno concretizzato nella difficoltà della resa sia grafica che orale di parole di cui non si padroneggia bene la conoscenza, il cui esito consiste, a motivo di varie associazioni di idee, nella storpiatura del significante per accostamento ad altre parole similari più note121, per cui da “abortito“, parola presumibilmente pronunciata in siciliano dalla levatrice come “abburtìu“, al passato remoto122 e, verosimilmente, in italiano dai medici, Peppino avrà recepito ed elaborato una forma simile a “buttito“. La forma “sbuttita“, però, fa altresì pensare, per assonanza, al termine siciliano sbutari, verbo con il significato di <<volgere, voltare, rivoltare, invertire [qualcosa]>> (Pasqualino 1987); se coniugata al participio passato, la parola sbutato assume il significato di <<rivoltato>> ed il sostantivo ad esso correlato, sbutamento, indicherebbe altresì per Pasqualino (1987) <<il rivoltare, il rivolgere, rivoltamento, rivolgimento>>, ponendo alla fine della spiegazione una relazione tra questo sostantivo ed il processo dell’essere nauseati. Crediamo allora che la forma impiegata da Peppino rappresenti sì un malapropismo, ma che esso sia stato tuttavia motivato non solo dalla possibile errata interpretazione di una parola così desueta, recepita e male assorbita nel suo idioletto, ma anche da un’eventuale associazione con un verbo come sbutari il quale, come visto, rende semanticamente conto dello sconvolgimento interiore – o rivoltamento fisico – che una madre incinta potrebbe subire vedendo la propria figlia piccola cadere dalle scale.

Riconosciamo ancora nel brano il sic. spitàli <<ospedale>> nella forma “Spetale“, oltre che un simpatico malapropismo per il quale la levatrice, ossia la donna preposta ad assistere altre donne durante il parto, diventa la “Lagnora lavatrice“, per assonanza con il termine più diffuso e conosciuto lavatrice e, in un secondo tentativo, “lavitrice“; notiamo ancora la presenza del termine sic. fora <<fuori>>, accompagnato dal verbo uscire, adoperato transitivamente, secondo l’uso dialettale siciliano, con il significato di “tirare fuori“ (“uscite un facioletto fora dello sportello“ <<tirate fuori un fazzoletto (e tenetelo fuori) dallo sportello>>. Anche la parola “Dottora“ <<dottori>> non sembra essere dovuta ad un distratto scambio di desinenze, ma pare piuttosto un calco dal pl. sic. duttura. Segnaliamo, infine, la presenza del verbo sic. bramari, il quale potrebbe costituire una sorta di falso amico semantico nella traduzione dal dialetto all’italiano: se il verbo it. bramare indica infatti l’azione del “desiderare ardentemente“, dal “germ. *bramōn «urlare, ruggire»; propr. «urlare dal desiderio»“ (Treccani), il sic. abbramari (contrassegnato da aferesi nella variante galatese) indica, invece, il “mandar fuori della voce, che fa il bestiame bovino […] *per metaf. dicesi d’uomo, che manda fuori vociacce per dolore, o per altro“, dal gr. βρέμω (Pasqualino 1987), ponendo l’accento sul fatto che le grida siano provocate dal dolore, come anche specificato da Peppino nella sua lettera.

Vista l’abbondante presenza di elementi dialettali in questo brano, è possibile pensare che un’altra delle ragioni per le quali Peppino abbia inserito spontaneamente termini dialettali nella sua produzione risieda nel fatto che questa lettera sia indirizzata alla moglie, con la quale, abbiamo modo di sapere dalle diverse ricostruzioni delle figlie, egli ha sempre comunicato in dialetto sino a quando la donna ha smesso di parlare. In realtà, però, proprio in rapporto alla moglie si è avuto modo di osservare direttamente, nel contesto comunicativo in cui si è solitamente sinora svolto, l’atteggiamento opposto di Peppino: nel parlare con la sua compagna, oramai a letto a causa della demenza senile, Peppino si sforza infatti di esprimersi in italiano e non in dialetto. Ciò potrebbe essere spiegato come un tentativo di farsi comprendere meglio dalla moglie, auspicando che ella risponda alle sue sollecitazioni, vista la tendenza di Peppino a scandire bene le sillabe delle parole: sarebbe stato poco facile o comunque, poco spontaneo raggiungere questo risultato operando il dialetto, lingua in cui, per farsi meglio comprendere, si potrebbe al limite dare una maggiore intonazione alla frase o alzare il tono della voce; questo atteggiamento potrebbe altrimenti essere inteso come un inconscio, fiero tentativo di dimostrazione delle proprie capacità orali nella lingua seconda, essendo noi testimoni dell’atto comunicativo nel momento in cui esso è performato ed essendo locutori con i quali Peppino cerca solitamente di esprimersi in italiano, per quanto possibile.

Un altro fenomeno sul quale vorremmo, infine, soffermarci è costituito dalla resa di Peppino di un’intera frase in siciliano in forma dialogica. Poco prima di partire per andare all’ospedale, l’autista che accompagna la coppia chiede: “aquantu amairi“ <<a quanto dobbiamo andare?>>, riferendosi alla velocità con la quale avrebbero dovuto percorrere la strada, per regorsi in base alla gravità della situazione. Questo breve passo si distingue dalle restanti parti della lettera in quanto inserzione di dialettalità in un ambiente che dobbiamo considerare, dal punto di vista di Peppino, come italiano. È certamente vero che, in una prospettiva più allargata, le lettere di Peppino presentano interferenze e termini dialettali sparsi per tutti i brani, rivelando un continuo processo di code-mixing, in cui il passaggio da un codice all’altro non è determinato dalla volontà dello scrivente ma dalla sua scarsa competenza nella capacità di tenere distinti i due codici; bisogna, però, anche tenere presente e, forse, partire proprio dall’assunto che nelle sue produzioni scritte egli creda di esprimersi in italiano, salvo ove diversamente ed esplicitamente specificato, come anche discusso nel capitolo 4. Tenendo presente questo ragionamento, vediamo quindi come abbia utilizzato questa volta volontariamente, una frase interamente dialettale in un brano che egli, non essendo del tutto consapevole dei precedenti inserimenti siciliani dovuti alle sue abitudini linguistiche, reputa italiano; il fine potrebbe essere quello di rievocare al meglio la drammaticità del momento tramite l’autenticità delle parole dell’autista, vista l’efficacia espressiva del dialetto siciliano; ciò potrebbe rappresentare allora un esempio di code-switching, ossia il passaggio volontario da un codice all’altro, all’interno del più generale code-mixing involontario in cui Peppino si muove durante la stesura delle sue lettere. Quest’ipotesi pare avvalorata dal fatto che a fine racconto, passando a tessere le lodi della moglie, Peppino dica: “ance / a desso parlando in Ialiano ē / se Brava aceora“ <<anche adesso, parlando in italiano, sei brava ancora>>, dimostrando di essere consapevole di avere impiegato una forma dialettale (presumibilmente la frase riportata in dialetto di cui sopra) prima di operare un nuovo voluto passaggio all’italiano.

Ancora dal punto di vista lessicale pare qui interessante riportare ulteriori elementi che accomunano la scrittura di Peppino a quella di semicolti, e lo faremo commentando una breve lettera scritta dall’uomo alla nipote maggiore (XVII):

Carissima Alessia Tiscrivo questa / letterina perdirte che Stobene disalute. / ĕ chosispero chestai bene anche Tu e ti di= / co che sei onottima Nipote tantimo / inteligente e deperquesto chemiai / dato tanto piacere che tiselaoriata / an che a Tuo Papă e Tua Mamma / e ai dato tanto piacere anche alla / zia Antonietta. la personana vale / per quello che sa diceva zantati Tuo / chatanonno Natale un o mo vale / per quello che sa [se] non sa niente ē un / zucco di castagnera. e Tu nonai bisogno / che telo dico Io quello chedevefare. / e speriamo chetrovi un Lavoro chetipiace / a Te. Ame Personalmente il Lavoro / mie piaciuto senpre da quando prendevo [inserito in rigo sopra] 15 lire al giorno e / avevo circa dodici tredicianni è / metevo il fieno nel comune di Troina / la prima volta che mitevo il grano / mino fatta una picola tagliatina al dito / e il Principale adetto camina mia / mia portata amettere le ze gne adeci / adece Iocela favo perchĕ erapiccole / i gnandi prendevono Lire otta [ottanta] men / agiormo mentre a Me mie dato lire cento / tutte diecigiorni Io come potevo che finimo / la per vedere chomera la piana piŭ avanti. / mentre avevomo lasinina che era / incinta del cavallo si ritornava / ē siamo andato a Bronti per lastrata / cincontro Mo tre quattro signorine / che cantavono vincere vincere in / S Cilo interramare inostri labbra giu=/ no [giurano] o vincere omorire. ē il tuo / ‚cata Nonna adetto [figli] di bona Mamma / perchĕ erano inponente. / mentre Tu Cass ima Carissima / Alessia ai tanto studiato etitrovi bene / tantissimi Agurii senonpenzo Io / chi cideve penzare Tuo Papă con laită ĕ / diventato bravo. Tanti Saluti tuo Nonno / Peppino Rocco Fazio 24-11 2018.123

Si segnalano ancora qui il termine siciliano “regne“ <<covoni, fasci di fieno>>, l’espressione scaramantica “zantati“ e la parola “miteva“ <<mietevo>>, oltre che i già menzionati termini siciliani italianizzati foneticamente, con significato dialettale: “chatanonno“ <<bisnonno>>; “zucco“ <<base, piede dell’arbore, ceppo>> (Pasqualino 1987, il corsivo non è nostro); “castagnera“ <<castagno>>, in cui spicca il suffisso siciliano -era impiegato per denominare un singolo albero. Non manca, altresì, una trasposizione dal siciliano all’italiano dell’espressione “comu puteva chi‘‚, + verbo, lett. <<come potevo che>> + verbo, da intendere come equivalente al “non vedere l’ora di/che“: in questo caso, Peppino non vedeva l’ora di finire con le balle di fieno da sistemare in un pezzo di terreno per potere andare più avanti a vedere come fosse quello successivo. Per quanto riguarda la formazione delle parole, notiamo l’impiego di diminutivi, come “letterina“, “tagliatina“ <<piccolo taglio>>, “lasinina“ <<l’asinella>>. È infine da segnalare l’unico popolarismo espressivo tipico della dimensione basso-colloquiale presente nell’intera produzione di Peppino, sebbene la sua carica espressiva risulti contenuta e smorzata attraverso l’impiego di un eufemismo: “[figli] di bona Mamma“, espressione ingiuriosa resa meno volgare dalla sostituzione, tramite il “buona mamma“, del più frequente ed incisivo “buttana“ <<prostituta>>; questa interiezione non pare avere qui, tuttavia, un valore diffamatorio, ma viene impiegata per esprimere la meraviglia suscitata nel padre di Peppino rispetto a quella che viene descritta come “l’imponenza“ di alcune ragazze intonanti una canzonetta fascista incontrate per la strada. Nonostante Peppino spieghi come mai il padre si sia lasciato andare a questa espressione popolare (proprio perché le ragazze erano “inponente“ <<imponenti>>), non è ben chiaro se la parola impiegata qui dall’uomo voglia effettivamente indicare il reale significato dell’aggettivo, e cioè <<che impone rispetto, ammirazione e anche un principio di timore; detto comunem. di cosa che per la grandiosità, la potenza, la solennità e sim. faccia impressione>> (Treccani), in quanto riferita ad un massimo di quattro giovani donne che cantano per la strada e non ad un’intera, gloriosa parata fascista. L’impiego di questo aggettivo potrebbe allora costituire una sorta di malapropismo semantico, con il quale Peppino intende forse esprimere il concetto di spavalderia, l’idea dell’essere sicuri di sé o dell’essere “notevoli“ nel canto, o ancora, in generale il concetto di bellezza124.

 

6.3.2. Proverbi e detti popolari

La paremiologia è quella branca della linguistica dedita allo studio delle espressioni di saggezza popolare, tra cui proverbi e detti popolari volti alla trasmissione di una conoscenza o lezione, spesso morale, al prossimo. Da questo punto di vista, l’intera produzione di Peppino offre un ampio catalogo di detti popolari tipici dell’oralità, la cui menzione è spesso volta ad incoraggiare ed aiutare il lettore ad affrontare i problemi della vita, o fornire degli punti su cui riflettere e, di conseguenza, agire, spesso per migliorarsi. Abbiamo infatti visto nel paragrafo precedente come Peppino lodi, incoraggi e cerchi di aiutare “conzigliando“ i suoi cari tramite le sue parole, da buon “patre“ di famiglia. La lettera che abbiamo deciso di riportare di seguito (8.2-XII) è rappresentativa di questo aspetto presente in tutto il corpus, in quanto, oltre ad offrire un ventaglio di modi di dire anche tipici del parlato, che pure prenderemo qui in esame, essa è intrisa di interessanti elementi appartenenti alla saggezza popolare che l’uomo tenta di trasmettere, in questo caso, alla nipote minore:

20.18 Carima Nipoti Marka / Io Sono Tuo Nonno Peppino Rocco Fazio / Tiscrivo questa letterina perdirte che / sei Bravissima an che sei stata unpo / chettino sfortunata precidementa mente / quando eri a Sammarco perche pa= / cha vavo tanti soldi perlafitto ede / priva di chonprarti tutto il necessa= / rio mentre ora per razia di Dio / certamente ti senti Meglio per che / la fortuna credo che sie svegliata / e a i preso unpo dirrispiro per razia / di Dio e questo chome Tu telo ficuri / e Me mi fa il piū grande piacere / é a desso parlando initalino Tu certa= / mente tidai dafare certamente per / quello che poi e tidico che sidice / chivofare labuona anzianita deve fare / un po di propi sforzi e si dice che la / Persona va le per quello che sa senon / sa fare niente diceva il Tuo chatanonno / chicosa e un zu cho di chastagnera / e cholle boni maneri cideve dire alla / Mamma Tua di mette qua cho di soldi / daparte per che cidevedire al piu presto / mi de Sposa le chose longe dicevono / glianti diventono serpe e Tua Mamma / certamente questo lodefare pre sente / a Tu Papa e cho monque spero che / mi sono tanto spiecato non / miprolugo tanto per che sidice ai / Boni intennitore po che parole / ciao Tu afezionatimo Nonno125

Come spesso riscontrato nel corpus, Peppino introduce le sue perle di saggezza tramite la formula si dice (nella sua variate sidice), come nel caso del consiglio al rigo 8: “chivofare labuona anzianita deve fare / un po di propi sforzi“ lett. <<chi vuole fare la buona anzianità deve fare un po’ di propri sforzi>>; in altri casi menziona direttamente la persona che trasmise a lui gli insegnamenti che adesso, a sua volta, cerca di tramandare: “si dice che la / Persona va le per quello che sa senon / sa fare niente diceva il Tuo chatanonno / chicosa e un zu cho di chastagnera“ <<si dice che la persona vale per quello che sa. “Se non sa niente“, diceva il tuo bisnonno, “che cos’è? Un ceppo di castagno“>>, in questo caso il Tuo chatanonno, termine sic. catanannu italianizzato da Peppino indicante la figura del <<bisnonno>>, sebbene possa anche essere generalmente inteso come <<avo>>. Il detto poc’anzi riportato è molto caro a Peppino, il quale tende a ripeterlo quasi fosse un mantra in diverse lettere come punto di riflessione esemplare per i destinatari delle stesse. Esso è indicativo del modo di concepire la vita dell’uomo, mostrando come sia utile per sé e per la società darsi da fare, imparare qualcosa, ad esempio un mestiere, e vivere facendo rispettare il proprio valore anche in base alle proprie capacità.

Poco più avanti, consigliando ancora alla nipote oramai fidanzata da anni di sollecitare i genitori affinché possano organizzare un matrimonio, Peppino dà questo ammonimento: “le chose longe […] diventono serpe“ <<le cose lunghe diventano serpenti>>, intendendo dire che non è auspicabile portare avanti un fidanzamento per troppo tempo, ma affrettarsi verso l’altare. Avviandosi verso la conclusione della lettera, Peppino riporta ancora un’altra frase proverbiale di origine latina, la quale viene spesso inserita nelle sue produzioni (talvolta forse anche a sproposito): “sidice ai / Boni intennitore po che parole“ <<si dice ai buoni intenditori poche parole>> versione personalizzata, resa al plurale, del proverbio “a buon intenditor poche parole“ (Treccani), in questo senso impiegato da Peppino per esprimere la sua fiducia nella capacità della nipote di recepire il messaggio che egli ha voluto darle. Esempi come questi possono essere abbondantemente riscontrati nel corpus, come dimostra la lettera 8.2-VIII: “sidicenelomondo / una Mano lava allaltra / ĕ tutte due lavono labella / facce“ <<si dice, nel mondo, “una mano lava l’altra e tutte e due lavano la bella faccia“>> consiglio dato al genero circa la collaborazione coniugale per la buona riuscita della serenità familiare; e ancora, la lettera 8.2-XIII, in cui Peppino raccomanda ad un nipote di comportarsi bene in quanto “chiébono se é bono per tuttei / mentre chié tinto é tinto per lui stesso“ <<chi è buono, è buono per tutti; chi è malvagio, è malvagio per se stesso>>; senza contare, poi, il famoso aforisma attribuito allo scrittore siciliano Leonardo Sciascia, il quale, nel suo romanzo Il giorno della civetta (1961), divide l’umanità in cinque categorie: “gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà“, aforisma che Peppino fa proprio, modificandolo però a suo piacimento, omettendo, cioè, la parte che avverte come volgare e poco consona alla ripetizione (“pigliainculo“) e dando la seguente versione: “gli / omini si dividono in quattro chate= / gorie un uomini, menzi omini, umi= / ni gni ē quaqua ra quá“ (8.2-XVI). Ulteriori detti popolari si trovano, infine, nei pensieri di Peppino, specie quelli relativi alla campagna: “Lacanpagna dice dammi chi ti dugnu“ <<la campagna dice: “dammi che ti do“>> (8.3.2-III), in cui è sottinteso il tentativo dell’uomo di convincere chiunque legga i suoi scritti a portarlo in campagna, in quanto, se nessuno la coltiva, la terra non dà frutti; ancora nel tentativo di impietosire le figlie, inducendole ad accompagnarlo in campagna, in 8.3.2-II Peppino fornisce persino una spiegazione del detto che sta per riportare, per una migliore comprensione dello stesso qualora esso non fosse già abbastanza esplicito: “il Paese prima lo chiamaero= / no terra ĕ dicevono gli / anti_che la terra che era / il paese sottarrava la / canpagna chonpa dinovo la / terra sotterra“ <<il paese prima lo chiamavano “terra“ e dicevano gli antichi che la terra (che era il paese) sotterrava; la campagna campa. Di nuovo, la terra sotterra!>>.

Come precedentemente accennato, però, l’elemento orale e colloquiale si riflette nella scrittura di Peppino anche tramite l’impiego di espressioni idiomatiche e modi di dire tipici della lingua parlata, rientranti sotto la branca linguistica della fraseologia. Sotto questo aspetto, catturano la nostra attenzione le seguenti espressioni popolari presenti nel brano indirizzato alla nipote e poc’anzi analizzato: “per razia / di Dio“ dal sic. pi grazia di Diu <<per grazia di Dio>>, modo di dire che Pasqualino (1987) bolla come diffuso “assolutamente presso la bassa gente […] vale pane, e checchessia di cibo“ (Pasqualino 1987), e che Peppino inserisce per ben due volte nel testo; “a i preso unpo dirrispiro“ lett. <<hai preso un po‘ di respiro>>, come tornare a respirare, espressione metaforica per indicare l’essere finalmente usciti da una situazione difficile; e ancora, segnaliamo il modo di dire “la fortuna credo che sie svegliata“, personificazione indicante il fatto che le cose hanno preso il giusto verso nella vita della nipote; l’espressione “tidai dafare“ <<ti dai da fare>>, da “darsi da fare“, nel senso di agire, lavorare, tema caro a Peppino.

In ultima istanza vogliamo qui altresì commentare il pastiche linguistico nella frase “ede / priva di chonprarti tutto il necessa= / rio“ lett. <<ed eri priva di comprarti tutto il necessario>>, con il significato di <<e non potevi comprare tutto il necessario>>, in cui Peppino unisce l’espressione  “essere privi di + qualcosa“ alla forma “non potere + infinito“; degna di nota anche l’espressione dialettale ficurarsi carcosa, riportata da Peppino nella frase “questo chome Tu telo ficuri / e Me mi fa il piū grande piacere“ <<E questo, come immagini, a me mi fa il più grande piacere>>.

Oltre alle particolarità lessicali dovute all’interferenza con il dialetto e a quelle da imputare ad una carente competenza lessicale, che porta Peppino a creare nuove formazioni linguistiche, sia sulla base di assonanze o semplicemente per associazioni di idee con parole più familiari, abbiamo visto in questo paragrafo come egli si serva di detti e proverbi popolari per potere veicolare al meglio delle lezioni di vita o  dei consigli  a tutta la famiglia. Queste inserzioni possono essere introdotte, come visto, dalla formula “si dice“, così come tramite l’evocazione di avi e sapienti “antichi“. Questo tipo di inserzioni nel testo non riguarda, però, solamente i brevi detti popolari; Peppino inserisce, al contrario, anche racconti popolari, filastrocche e “muttette“, pl. di muttetta ovvero <<[…] una breve composizione in musica, e per lo più di parole spirituali latine, mottetto, brevis cantiuncola. Da muttu, dim. muttetto>> (Pasqualino 1987, il corsivo non è nostro). Questi inserimenti, tuttavia, possono talvolta portare a fraintendimenti testuali, specie nel caso in cui essi non vengano segnalati sia a motivo della scarsa resa nell’interpunzione, sia talvolta a causa degli improvvisi salti argomentativi che Peppino effettua mentalmente e, di riflesso, scrivendo. Fondamentali si rivelano dunque sul piano testuale i meccanismi di coerenza e di coesione che mantengono integra la resa del messaggio.

Sulla complessità del tema, dovuta sia alla relativa libertà da parte dei linguisti di area germanofona nell’attribuire a questa etichetta valori spesso differenti, sia ad una questione prettamente terminologica (accanto alla Varietätenlinguistik convive, infatti, in ambito germanofono la “Variationslinguistik“ o “linguistica della variazione“), oltre che per una più approfondita disamina sugli studi condotti sulla variazione linguistica, (cfr. Sinner 2014).
Per un approfondimento sul carattere sociale dell’uso del linguaggio, cfr. Lepschy 1996, 139-143.
L‚influenza sociale sulla realtà linguistica si riflette ad esempio sia nello status attribuito dai parlanti a determinate varianti che in quello attribuito dalla società stessa a determinate varietà di lingua o lingue (Krefeld 2016, 262); sul ruolo attivo dei parlanti in quanto agenti sociali nella standardizzazione dell’italiano, come esempio di influenza sociale sulla lingua, invece, cfr. Serianni 2006 e Berruto 2007.
Non presentando alcuna differenza strutturale rispetto alla ‚lingua italiana‘ (D'Agostino 2007, 69), i dialetti presenti sul territorio italiano non devono essere considerati come “varietà locali della lingua nazionale, né tantomeno [come] deformazioni o correzioni di questa [in quanto] proprio come l’italiano letterario – costituitosi anch’esso sulla base di un dialetto (il fiorentino trecentesco) – e come le altre lingue e i dialetti romanzi, [essi] derivano dal latino volgare e hanno dunque, dal punto di vista storico-linguistico, la stessa dignità della lingua“ (D'Achille 2003, 13). La distinzione operata tra dialetto e lingua sarà allora di tipo esclusivamente sociale e dipenderà dal prestigio linguistico di cui i due sistemi godono presso i parlanti (D'Agostino 2007, 69).
Per un ampio approfondimento sulla situazione italo-romanza pre-unitaria, si rimanda qui al fondamentale “Storia linguistica dell’Italia unita“ di Tullio De Mauro (1986), oltre che a Bruni (1984, 81-172); tuttavia, vale la pena ricordare qui brevemente che “prima dell’Unità, l’italiano al di fuori della Toscana (dove lingua e dialetto sono sempre stati in rapporto di contiguità), era una lingua nota a un numero di persone alquanto ridotto [in quanto] la stragrande maggioranza della popolazione parlava […] uno dei dialetti che si erano formati nella nostra penisola dopo il crollo dell’Impero romano“ (D'Achille 2003, 23).
Uno dei principali fenomeni che portarono gli italiani ad avvicinarsi ad una lingua nazionale è certamente costituito dal processo di alfabetizzazione legato all’obbligo scolastico introdotto dalla legge Casati già nel 1859 (sebbene il tasso d’evasione all’obbligo sia rimasto molto alto almeno sino agli anni Trenta); ma a giocare un altrettanto rilevante ruolo nella diffusione della lingua nazionale furono altresì la crescente industrializzazione e l’urbanizzazione ad essa relativa, fenomeni per i quali le grandi masse contadine si spostarono dalle zone rurali alle città, provocando tra i nuovi e i vecchi cittadini l’esigenza di intendersi in una lingua comune; la successiva promozione della lingua unitaria avvenne parimenti grazie ai mezzi di comunicazione di massa quali i giornali, la radio e, a partire dagli anni Cinquanta, la televisione, “scuola di lingua e di cultura“ grazie alla quale “i ceti diseredati relegati in posizione subalterna dalla scarsa cultura […] imparano a parlare l’italiano e, con l’italiano, imparano com’è fatta la cultura dei cittadini, delle classi dominanti“ (De Mauro 1994, 128). Per un esaustivo e dettagliato approfondimento sul tema, si rimanda al sopracitato De Mauro (1986).
Non per negligenza, ma poiché il focus verte qui sul rapporto tra i due diasistemi maggiori, non affronteremo in questa sede la questione delle minoranze linguistiche presenti sul territorio italiano e delle relative altre lingue ivi parlate. Per una  descrizione sociolinguistica del complesso repertorio italiano plurilingue relativo ad antiche e nuove minoranze, si rimanda a Francescato (1993), D’Agostino (2007) e Krefeld (2016), il quale distingue in tal senso due tipologie di sociolinguistica: quella degli idiomi, la quale comprenderebbe lo studio delle lingue minoritarie e i dialetti; e quella della variazione, inerente, come vedremo, allo studio di specifiche varianti avvertite come marcate dai parlanti, e propria della varietistica (Krefeld 2016, 263).
Con la nozione di ‚repertorio‘ si intende “l’insieme delle lingue, o le varietà di una stessa lingua, e delle loro norme d’uso, impiegate in una comunità“ (D'Agostino 2007, 109); a tal proposito, Berruto definiva il repertorio linguistico italiano medio come un diasistema (lingua nazionale-dialetto) il cui rapporto (sino ad allora definito ‚diglossico, in cui alla varietà alta era rigidamente riservato l’uso scritto e formale; mentre a quella bassa, anche impiegata per la socializzazione primaria e dunque una L1, l’uso parlato informale) rifletteva una situazione di “bilinguismo endogeno a bassa distanza strutturale con dilalìa“, indicando così la compresenza di due lingue e delle loro relative varietà, non strutturalmente troppo diverse tra loro, e non più rigidamente separate rispetto all’ambito d’uso informale, ma “impiegabili nella conversazione quotidiana e con uno spazio relativamente ampio di sovrapposizione“ (Berruto 1993, 5-6).
Al glottologo Giovan Battista  Pellegrini è infatti dovuta la prima basilare quadripartizione delle varietà presenti nel repertorio italiano; essa comprendeva l‘ ‚italiano standard o comune‘, l‘ ‚italiano regionale‘, la ‚koinè dialettale o dialetto regionale‘, ed il ‚dialetto locale‘; da questa quadripartizione presero successivamente il via altri fondamentali approfondimenti ed ampliamenti sociolinguistici alla struttura del repertorio linguistico italiano, caratterizzato dalla dialettica tra italiano e dialetti delle diverse regioni italiane da un lato e la coesistenza tra le “diverse norme di realizzazione di un medesimo idioma“ dall’altro (De Mauro 1977, 124). Per un ampio commento sulle varietà italiane e sulle relative denominazioni offerte dagli studiosi dal 1960 sino al 1987, si veda Berruto (1987); per una tavola sinottica delle diverse classificazioni delle stesse, invece, si rimanda a Berruto (1993, 18;26).
Sebbene essa non goda di uno “statuto teorico autonomo, [e si configuri anzi] come ambito di lavoro orientato in senso empirico, con scopi prevalentemente descrittivi“ (Berretta 1988, 762), Holtus-Radtke sottolineano però in ogni caso la specificità della linguistica delle varietà rispetto alla sociolinguistica: a differenza della sua matrice, infatti, la linguistica delle varietà si occuperebbe di indagare e descrivere anche dei tipi di “Varietäten [,] die nicht [nur] von der Sozialen Determination der Sprache und ihrer Sprecher abhängen“ (Holtus/Radtke 1983, 16).
Come notato da Holtus-Radtke (1983), il termine ‚varietà‘ non era tra l’altro di recente coniazione: Benvenuto Terracini se ne era infatti già avanguardisticamente occupato nei suoi lavori pre-sociolinguistici sulla dialettologia nei primi anni del Novecento, sebbene questi non si concentrassero ancora sul problema della “Systematizität“ del fenomeno, né vi fosse una “fundierte Grundlegung des Varietätenbegriffs“ (Holtus/Radtke 1983, 13-14).
Relativo, dunque, sia ad un intero sistema di lingua che solo ad alcuni tratti specifici presenti all’interno dei sistemi linguistici.
I due sistemi di base sui quali, come sostiene Dardano (1994, 344), si costruisce tutto il repertorio linguistico italiano.
Sui sempre più evidenti limiti della terminologia adottata dalla tradizione germanofona risalente alla quadripartizione delle dimensioni di variazione offerta da Koch/Oesterreicher (1985; 1990), basata sui parametri di ‚immediatezza‘ (o ‚vicinanza‘) e ‚distanza‘ – oltre che sulle conseguenti implicazioni metodologiche rispetto alla linguistica percezionale ad essa connessa – si veda il contributo “Varietà ibride? Che cosa ne pensa la linguistica variazionale“ disponibile sulla piattaforma Lehre in den Digital Humanities (Krefeld 2018).
E in tal senso, reale attuazione della linguistica della parole preannunciata da Ferdinand de Saussure (sul tema, cfr. Raimondi 2009, 15-18; Krefeld 2015).
Iannàccaro spiega, infatti, che “è proprio attraverso la constatazione della variazione linguistica (di qualunque tipo) che il parlante viene a contatto con varietà diverse rispetto al proprio idioletto […] ed è indotto a rifletterci sopra“ (Iannàccaro 2015, 23).
O, nel caso specifico dei test percettivi, nel sapere linguistico dei cosiddetti ‚informanti‘, soggetti sottoposti, ad esempio, all’ascolto di stimoli uditivi registrati dai ricercatori sul campo.
Un elemento “marcato“ è dunque un elemento “provvisto di una marca che lo contraddistingue rispetto alla sua manifestazione considerata, per motivi qualitativi e/o quantitativi, come basica, o normale, o canonica“ (Ferrari 2012, 17); la proprietà di marcatezza/non marcatezza può essere applicata a tutti i livelli dell’analisi linguistica (Ferrari 2012, 17) ed è inoltre spesso messa in relazione con i principi di naturalezza elaborati dalle teorie di morfologia naturale e sintassi naturale, secondo le quali si riterranno non marcati i tratti “cognitivamente più accessibili – ossia più naturali -, che favoriscono la processabilità dell’informazione e la corrispondenza tra la percezione della realtà e la sua rappresentazione linguistica“ (Cerruti 2009, 254).
Per un approfondimento sul tema, si rimanda al volume “Perzeptive Variatätenlinguistik“, a cura di Krefeld-Pustka (2010); oltre che a Krefeld(2015).
Simone (1990) spiega che “le lingue verbali vivono in diacronia, nel senso che si modificano nel tempo […] le manifestazioni di questo mutamento [riguardano ad esempio] la dotazione di suoni di una lingua [,] i significati e le forme delle parole [,] l’organizzazione grammaticale, e così via“ (Simone 1990, 77-78).
Sulla denominazione possibilmente fuorviante di questa varietà – la nozione di “regionale“ non va infatti pensata come corrispondente all’effettiva estensione amministrativa delle regioni d’Italia – cfr. Sobrero (2012, 129-130).
Per un più chiaro approfondimento sul ruolo delle componenti della situazione comunicativa, quali i partecipanti, gli atti comunicativi, i risultati, la cosiddetta localizzazione ecc., si veda Grassi-Sobrero-Telmon (2012, 204-211).
In senso sociolinguistico, il concetto di ‚continuum‘ indica usualmente un insieme composto da un ventaglio di varietà (tra cui si distinguono una varietà alta ed una bassa, ai due poli), i cui confini, nebulosi ed indefiniti, possono sovrapporsi e dissolversi l’uno nell’altro, impedendo una precisa identificazione delle stesse, specie se contigue, da parte della sociolinguistica (Berruto 1987, 27-28); per un approfondimento sul tema, anche rispetto alle obiezioni sollevate sulle implicazioni di questa definizione, si veda Berruto (1987, 27-42).
È ragionevole credere allora che le possibili varianti di una specifica variabile siano riscontrabili ed ascrivibili a diverse dimensioni, e che vadano a costituire – insieme alle altre – quelle che Krefeld (2018) definisce come “varietà ibride“, smentendo, nello specifico, il ragionamento di Koch/Oesterreicher (1990) il cui schema prevedeva che ad ogni dimensione della variazione corrispondesse un numero definito di varietà, a loro volta composte da un preciso numero di varianti.
Entrambi caratterizzati da fenomeni epilettici dai quali la donna era afflitta sin da giovane e a causa dei quali veniva rapportata, secondo la cultura popolare salentina, ad una realtà magica. Nonostante la loro medesima natura, inoltre, la donna ne distingueva superstiziosamente e religiosamente le manifestazioni: ella raccontava infatti di avere voglia di ballare prima di una crisi di tarantismo, e di avere la tendenza a dimenarsi per terra durante le crisi epilettiche di San Donato (Rossi 1994, 80-85).
“La scrittura parla di sé insieme a qualunque altra cosa di cui parla: essa si costituisce su proprie peculiarità di codificazione dell’esperienza, di forma di rappresentazione, di lingua, di temporalità e spazialità, di costruzione dell’interlocutore“ (Apolito 1994, 13).
“La donna ha frequentato solo la prima elementare, ma è in grado di esprimere per iscritto quanto vuole comunicare; le sue lettere presentano grossolani errori di grammatica, e sono quasi totalmente sprovviste di punteggiatura“ (Rossi 1994, 79).
Circa questo termine, D’Achille precisa che l’aggettivo semicolto (successivamente adottato, come vedremo, per indicare i soggetti interessati dal fenomeno linguistico scritto dell’italiano dei semicolti) rifletteva sia una chiara differenziazione rispetto ai termini colto ed incolto, sia una maggiore specificità rispetto alla serie terminologica assieme alla quale esso sarebbe potuto essere semplicisticamente associato: semianalfabeta, semialfabeta, semincolto; secondo D’Achille, infatti, questi ultimi sarebbero stati da collocare in un gradino più in basso rispetto al semicolto propriamente detto, in quanto “[in]capaci di servirsi dello scritto [né] per usi funzionali e pratici […], [né] per fini latamente espressivi“ e, al limite, in grado di “apporre la propria firma o poco più“ (D'Achille 1994, 42-43). Accanto alla designazione di semicolto, il linguista propone invece di apporre i termini poco colto, mediocolto, o semiletterato, in ogni caso da collocare su gradini intermediamente diversi, data la differente e non rigida caratterizzazione culturale dei soggetti semicolti (D'Achille 1994, 42-43).
Per un’approfondita, diversa argomentazione, ovvero sulle debolezze dell’originaria visione unitaria dell’italiano popolare, almeno per quanto riguarda gli elementi linguistici e non contenutistici espressi in questo tipo di lingua, si rinvia almeno a Berruto (1987, 108-110).
Basti pensare che a distanza di ottant’anni, ancora tra il 1951 ed il 1955, solo il 18% della popolazione italiana impiegava l’italiano, sebbene in forma ancora artificiosa e pomposa, poco spontanea; il 20% era invece dialettofono, mentre la restante percentuale si muoveva in un limbo linguistico diglossico, impiegando la lingua italiana in situazioni estremamente formali ed il dialetto nella quotidianità, data la sua “efficacia espressiva“ (De Mauro 1994, 117).
La necessità delle masse di “mettere da parte i rispettivi dialetti, cominciando ad usare, per intendersi, gli elementi di lingua italiana a loro noti“ si manifesta inoltre con le prime associazioni di lavoratori postunitarie e con lo svilupparsi dei primi canti sindacali e di protesta, come ad esempio il Canto degli scariolanti: questi erano infatti caratterizzati da un vocabolario semplice, in cui affioravano anche degli elementi dialettali, unito ad una certa “oscurità sintattica“, e, a livello grafico, ad un abuso delle maiuscole; altro elemento evidenziato dal linguista è la “brusca rottura stilistica“ o l’alternanza tra forme popolari e forme auliche, allora ancora persistenti a causa della forte influenza dell’opera lirica ancora sentita, il cui influsso viene paragonato da De Mauro con quello esercitato dalla televisione negli anni Cinquanta e Sessanta (De Mauro 1994, 118-121).
Il primo conflitto mondiale costrinse i soldati a misurarsi con una dimensione del tutto nuova: come spiega Glauco Sanga, infatti, i contadini non avevano mai avuto sino ad allora la necessità di avvicinarsi allo strumento culturale della scrittura, in quanto “la diffusione dell’italiano avveniva per via orale o, al più, attraverso la lettura [e] tradizionalmente in paese c’era sempre qualcuno delegato a scrivere: il parroco o il segretario comunale o un paesano colto(Sanga 1984, 173) tutt’altra situazione si presentava invece in trincea, in cui i contadini ormai soldati dovevano necessariamente confrontarsi a tu per tu con penna e carta. Tra le motivazioni che spinsero alla scrittura, ricordiamo infatti la necessità di rassicurare le famiglie sulle proprie condizioni di salute, oltre che la possibilità, nel caso dei prigionieri di guerra, di “allontanare l’incubo del rientro al fronte e della possibile morte in trincea; [di] esprimere un’autentica sofferenza psichica; [di] sottrarsi allo stigma della follia e all’istituzione, fortemente autoritaria, del manicomio; [di] tentare di rimediare a una situazione angosciante con la richiesta (nelle lettere al direttore) di ottenere la documentazione necessaria per un sicuro rientro a casa“ (Testa 2014, 101).
Come spiega Cortellazzo, una rivalutazione delle testimonianze “dal basso“ poté avvenire solamente nel secondo dopoguerra, con una rinnovata volontà politica d’opposizione alla “cultura egemonica fra le due guerre [la quale] non tollerava che, accanto alla cronaca ufficiale, linda nella forma, spesso retorica e falsa, trovasse posto la cronaca degli altri, dei protagonisti sottoposti e, infine, sopportanti il maggior peso di ogni avventura sociale“ (Cortellazzo 1972, 19).
Come spiega Lorenzo Renzi nell’introduzione alla raccolta epistolare di Leo Spitzer, questo lavoro era sino ad allora sconosciuto ai più ed i “i filologi e gli studiosi di italiano popolare ne parlavano, ma più per sentito dire che per conoscenza diretta“ (Renzi 1976, VII)).
Diversi sono i capitoli dedicati nell’opera ai dissimulati tentativi di richiesta di provviste e viveri da parte dei prigionieri a parenti e familiari. Se le lamentele sulle misere condizioni dei prigionieri avessero raggiunto l’Italia, questo avrebbe potuto costituire un ulteriore possibile movente per la continuazione dell’offensiva nel conflitto mondiale, e i prigionieri ne erano consapevoli. Sugli originali espedienti linguistici da questi ultimi adoperati per descrivere il concetto di “fame“ al fine di sfuggire all’occhio pressante della censura austriaca, si veda inoltre l’importante lavoro linguistico del filologo Spitzer sulla lingua popolare, Die Umschreibungen des Hungers im Italienischen[Le circonlocuzioni impiegate per esprimere la fame in italiano] (supplemento alla “Zeitschrift fuer romanische Philologie“, Niemeyer, Halle 1920), pubblicato un anno prima delle Lettere, lavoro in cui lo studioso mette in luce le diverse colorite strategie linguistiche impiegate per aggirare l’ostacolo della censura, il cui sguardo si era “acuito per le lamentele causate dalla fame“ e aveva comportato un “raffinamento dei metodi d’indagine impiegati“ dai censori (Spitzer 1976, 10).
Facciamo qui riferimento a tre atteggiamenti linguistici riguardanti l’alternanza del codice tra italiano e dialetto, possibili in un contesto bilingue qual era e qual è tuttora quello italiano: il code-switching o commutazione di codice, il code-mixing o enunciato mistilingue, e il tag-switching anche conosciuto come commutazione extrafrasale (D'Agostino 2007, 144; D'Achille 2003, 179). Il code-switching, ossia il passaggio funzionale da un idioma ad un altro nello stesso enunciato, viene operato consapevolmente dal parlante in base alla situazione comunicativa in cui egli si trova ed è altresì condizionato da motivazioni sociali e “identitarie“: esso dipende, infatti, sia dal prestigio sociale che lo standard riveste nella situazione comunicativa rispetto al dialetto, percepito come varietà diastraticamente “bassa“ (D'Agostino 2007, 118), sia dalla forza identitaria delle diverse varietà, in questo caso di quella dialettale, come fattore attivo di riconoscimento dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale e linguistico (D'Agostino 2007, 118); nel caso delle lettere analizzate da Spitzer, però, l’impiego del dialetto assume spesso il valore di “codice dell’intimità“ dovuto alla necessità di sfuggire agli occhi attenti della pressante censura operata dai censori sulle missive (Spitzer 1976, 107). Il code-mixing, ovvero il mescolamento non funzionale di più idiomi all’interno di una stessa frase, è, al contrario, un fenomeno non intenzionale, dovuto alle incertezze del parlante dialettofono e in particolare alla sua approssimativa conoscenza della lingua italiana (D'Achille 2003, 179). Il tag-switching, invece, si caratterizza per l’inserimento di elementi isolati quali interiezioni, riempitivi ecc. all’interno dell’enunciato (si pensi, ad esempio, alla funzione ludica del dialetto espletata tramite l’inserimento di questi ultimi elementi nella comunicazione colloquiale, specie giovanile).
È bene, tuttavia, sottolineare che per questioni legate alla censura, lo stesso Spitzer non fornì informazioni sugli scriventi, di cui non si conoscono certo i nomi, ma neppure l’età, né l’effettivo grado d’istruzione (si noti, inoltre, che non tutte le lettere raccolte dal linguista presentano lo stesso grado di competenza linguistica: alcuni mittenti risultano essere nettamente più colti di altri, o per meglio dire, meno “incolti“ di altri, nonostante lo sforzo dello studioso di creare un corpus il più possibile omogeneo a livello socio-culturale); in base al contesto, nondimeno, è spesso possibile rintracciare alcuni indizi che aiutino, pur limitatamente, a ricomporre il puzzle diastratico dello scrivente.
Qui De Mauro faceva sarcasticamente riferimento all’azione soffocante del “greve rullo dell’italiano scolastico“ (De Mauro 1994, 134), che a poco servì – a suo avviso – nell’educazione al “pieno e libero possesso della lingua italiana“, e che invece, “per la debolezza delle sue strutture, anzitutto, poi per l’impreparazione linguistica del personale insegnante […] ha svolto un’azione di indebolimento dei dialetti [esercitando] un’azione di repressione del parlato piuttosto che di addestramento all’uso e scritto e parlato e colloquiale e formale della lingua“ (De Mauro 1994, 136).
Come spiega Berruto, anche Tatiana Alisova si era per esempio già occupata nel 1965 della struttura della frase relativa del cosiddetto “italiano popolare“ sovrapponendo, tuttavia, questa definizione alla dimensione parlata e colloquiale della lingua, e creando così una prima ambiguità tra la definizione di “italiano popolare“ e quella di “italiano parlato colloquiale“ (Berruto 1987, 105).
Oltre a Lettere di una tarantata (1970) di Annabella Rossi, infatti, si ricordano, ad esempio, il romanzo autobiografico Una donna di Ragusa (1957), di Maria Occhipinti, donna siciliana di umili origini; Quaderno (1958), diario di Alfonso Muscillo, usciere di una biblioteca romana; il Diario della grande guerra (1961) di Francesco Giuliani, pastore abruzzese. Per un ulteriore approfondimento sui testi semicolti pubblicati in questo periodo e su quelli presi in esame dagli studiosi, si rimanda a Sobrero (1975, 108, note 5 e 6); D’Achille (D'Achille 1994, 43-45, note 18-24; 28).
Le difficili circostanze storiche presenti nella storia linguistica italiana hanno influito, secondo Fresu (2016), sulla tipologia testuale in cui i testi semicolti si sono sviluppati nel tempo, tra cui si annoverano: “testimonianze provenienti dal o indirizzate al fronte“, sotto forma di lettere, ma anche nelle urgenti espressioni del sé riscontrabili in diari, memorie, taccuini di guerra; anche il fenomeno migratorio ha prodotto diverse produzioni epistolari, oltre che produzioni su cartolina o lettere indirizzate dai migranti ai giornali (Fresu 2016, 335-336). Per un approfondimento sugli ulteriori generi testuali interessati dalla scrittura dei semicolti, cfr. Fresu (2016, 335-339).
Radtke fa qui però notare come questa definizione non sia sufficientemente caratterizzante o esclusiva di questa varietà, in quanto parimenti applicabile all’italiano regionale (Radtke 1979, 44).
“In questa chiave possono quindi essere letti anche i pesanti tratti di interferenza del substrato dialettale che svolgono il ruolo della lingua materna nella varietà di apprendimento“ (D'Agostino 2007, 127).
Si parla di fossilizzazione quando la conoscenza della lingua di un individuo si blocca ad un determinato stadio senza possibilità di progressione (D'Agostino 2007, 83).
D’Agostino fa inoltre notare come questa varietà non sia allo stesso modo accostabile neanche all’italiano tipico delle produzioni dei bambini appartenenti alle prime classi delle elementari, nonostante esse presentino sovente caratteristiche simili a quelle dei testi semicolti. Parrebbe infatti poco ragionevole far rientrare queste ultime sotto l’etichetta dell’italiano popolare, in quanto gli specifici tratti di cui sopra vengono presto superati dai bambini nelle successive fasi di apprendimento scolastico, cosa che, come detto, non avviene nei parlanti di italiano popolare (D'Agostino 2007, 127).
Tra le fonti andate poi a creare il corpus analizzato da Cortellazzo vi erano: lettere di soldati e prigionieri di guerra durante il primo conflitto mondiale, caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale; lettere di altra provenienza quali quelle di emigrati friulani, o esempi come quello di Anna del Salento; memorie autobiografiche di diversa provenienza, quali ad esempio memorie di contadini lucani, di sottoproletari lombardi, o di banditi siciliani; testimonianze di diversa natura e di diversa provenienza, quali documenti di soldati processati durante la prima guerra mondiale,  o di emigrati a Milano; compiti scolastici di diversa provenienza (Cortellazzo 1972, 19-20)
Oltre a suggerire l’idea di “una varietà sovraindividuale“ (Krefeld 2016, 267).
Con la nozione di diglossia (Ferguson 1959) si intende la compresenza su un determinato territorio linguistico di due sistemi di lingua ai quali la comunità di parlanti attribuisce un diverso prestigio sociale, tale per cui uno dei due idiomi sarà considerato come varietà ‚alta‘ e di maggiore prestigio; mentre l’altro verrà connotato come varietà bassa, più informale e non adatta a contesti “alti“. È importante notare che i contesti d’uso dei due idiomi saranno rigidamente separati: alla varietà alta spetteranno i contesti formali, mentre quella bassa sarà impiegata per domini ordinari, propri della vita quotidiana (D'Agostino 2007, 77-78). Come visto in capitolo 3, però, la situazione italiana non è più ascrivibile a questo concetto: si parla oggi infatti di dilalìa ossia una condizione in cui i contesti d’uso delle due varietà A e B sono mutati: in un contesto dilalico quale quello odierno, infatti, entrambi gli idiomi, dunque sia quello “alto“ che quello “basso“, possono essere impiegati in contesti informali e colloquiali (D'Agostino 2007, 79).
Anche i due studiosi notavano, nella loro analisi, la forte influenza del dialetto su questa varietà, ed individuavano le maggiori interferenze tra parlato e scritto sul piano grafico, il cui uso non ha “riscontro sul piano del parlato, ma è insegnato a scuola“ (Sobrero 1975, 110): si segnalava dunque la presenza di doppie o scempie, là dove non sarebbero state previste, così come la poca padronanza delle regole relative all’interpunzione, agli accenti, agli apostrofi, all’uso di lettere maiuscole o minuscole, oltre che una difficoltà nella percezione dello spazio tra le parole, con i conseguenti fenomeni di agglutinazione o deglutinazione (in contro); dal punto di vista morfosintattico, frequente era l’errato accordo tra soggetto e verbo o tra sostantivo e aggettivo, dipeso dal fatto che lo scrivente si basasse su concordanze ad sensum (Sobrero 1975, 113), e ancora pleonasmi nell’uso dei pronomi (alla mamma le era piaciuta) così come l’uso di gli nelle forme oblique del femminile e del plurale, l’uso del ‚che polivalente‘, la coordinazione preferita alla subordinazione (Sobrero 1975, 113). Il  ‚modello‘ scolastico avrebbe operato meno, invece, a livello lessicale il quale, però, essendo connesso alla nuova realtà del mondo sociale, del lavoro, della televisione, portava ad una riduzione della presenza di termini dialettali; allorquando ve ne fossero stati, Sobrero parlava di una “consapevole scelta linguistica“ facendo riferimento a fenomeni rapportabili al bilinguismo, quali il commutamento di codice, oggi conosciuto come code-switching (Sobrero 1975, 115).
“Se si badasse solo alla morfosintassi, l’italiano popolare sarebbe fondamentalmente unitario“ (Berruto 1987, 109, nota 7), in quanto livello di analisi in generale meno soggetto alla differenziazione da area ad area (Berruto 1987, 109). Su questa tesi non concorda Mengaldo (1994) il quale, prendendo ad esempio l’accusativo preposizionale preceduto da a, spiega che tale fenomeno sarà sempre e solo fenomeno meridionale e mai settentrionale, se non eventualmente per motivi altri dall’affioramento dialettale. Per questa ed altre tesi contro l’unitarietà morfosintattica dell’italiano popolare, cfr. Mengaldo (1994, 109-110).
Bisogna altresì tenere presente, come ricorda Cerruti (2009), che ‚‚l’univocità di risultati a cui conduce in certi casi l’azione del sistema dialettale in regioni differenti è tale o perché, semplicemente, sono consimili le forme o le strutture di sostrato trasposte in italiano o perché l’effetto del contatto tra due codici è analogo in quanto rispondente allo stesso tipo di meccanismi“ (Cerruti 2009, 35); i tratti sovraregionali dell’italiano popolare, invece, possono essere riconducibili o a tratti tipici della testualità del parlato, o appunto a “tendenze e possibilità panromanze latenti in italiano“, tratti che facilmente si riflettono anche nell’italiano regionale (Cerruti 2009, 35), come ad esempio quello della ’semplificazione‘,  un meccanismo linguistico che avviene quando “a una certa forma (o struttura) di una lingua si contrappone una forma o una struttura più semplice, cioè più facile da realizzare, meno complessa, che può sostituire la prima senza che si perdano le informazioni essenziali contenute nel messaggio“ (Sobrero/Miglietta 2011, 175).
“Statisticamente, l’insieme di tratti che caratterizza in maniera più o meno netta e ‚densa‘ questa varietà tende a presentarsi presso parlanti diseredati culturalmente, presso le cosiddette classi subalterne scarsamente scolarizzate e poco/non colte [;] il carattere di ’sociale‘ è insomma netto se lo inquadriamo nei parametri di classificazione di varietà della lingua […], ma, come del resto è da supporre in generale per quanto riguarda le relazioni tra varietà di lingua e utenti, non è affatto deterministico“ (Berruto 1983, 87).
Non è del tutto facile distinguere con chiarezza “ciò che è popolare da ciò che è meramente informale e colloquiale“ (Lepschy 1989, 30); dal punto di vista morfologico e sintattico, ad esempio, sono diversi i tratti che le due varietà condividono: concordanze devianti, ridondanze pronominali, impiego del che polivalente, concordanze ad sensum; topicalizzazioni e riprese enfatiche (Berruto 1983, 93).
Parliamo qui dunque di eventuali tratti appartenenti a varietà diatopiche e diastratiche marcati anche diafasicamente, e non delle varietà in toto, le quali difficilmente possono “rappresentare esse stesse varietà marcate in diafasia“ (Cerruti 2009, 35).
Incertezza continuamente “soggetta a pressioni d’ogni tipo: dall’italiano aulico ai linguaggi settoriali al dialetto“ (Sanga 1984, 15). Sulla funzione dell’incertezza della norma, si noti, inoltre, come questa contribuisca “alla formazione di un uso instabile e fluttuante, al cui interno si vanno comunque delineando delle cristallizzazioni (sempre soggette a possibili regressioni) che, per ampiezza di diffusione, tendono ad imporsi agli italiani regionali ( e di qui allo standard)“; secondo Sanga, e successivamente Berruto, l’italiano popolare risulta come il “maggiore centro di innovazione linguistica della lingua italiana“.
Si rimanda qui al modello delle varietà di italiano proposto da Sabatini (1985), in cui si propone un italiano standard in opposizione all‘italiano comune, così come la coppia italiano regionale delle classi istruite e italiano regionale delle classi popolari (o semplicemente italiano popolare). Una simile suddivisione varrebbe inoltre anche per il sistema linguistico dialettale, nel quale si riconoscerebbero un dialetto regionale/provinciale ed un dialetto locale (Sabatini 1985).
Berruto propone inoltre di vedere all’interno dell’italiano popolare stesso una “piccola gamma di sottovarietà“, facendo distinzione tra un italiano popolare ‚basso‘ e un italiano popolare ‚medio‘, meno marcato e con minori interferenze dialettali (Berruto 1987, 114-115).
Usi in cui “vengono specialmente in primo piano tratti che in una corrispondente formulazione orale sarebbero del tutto inosservati, anzi invisibili“ (Berruto 2014, 280).
L’italiano popolare orale si caratterizza manifestamente nella pronuncia regionale “marcata verso il basso“ (Sobrero/Miglietta 2011, 101), ma anche per le false partenze, per le frequenti riformulazioni, per i generali cambi di progettazione nell’organizzazione testuale con le conseguenti correzioni e ripetizioni, e ancora, per i passaggi dal discorso diretto all’indiretto e per l’uso improprio delle forme al congiuntivo e al condizionale, oltre che per gli anacoluti e le topicalizzazioni; come ancora indicato da Sobrero-Miglietta, dal punto di vista morfologico, esso è caratterizzato dalle concordanze a senso e dalle ridondanze pronominali (tratti, come visto, spesso presenti nell’italiano colloquiale), ma anche da semplificazioni nominali e verbali, scambi di preposizione ecc; il lessico, invece, è ricco di termini generici (affare, cosa, coso, roba), ed è forte la tendenza ad inserire nel discorso espressioni e termini appartenenti alla sfera della burocrazia o termini aulici e tecnici, finendo però per storpiarli sul piano del significante, e risultando nei cosiddetti malapropismi, come vedremo nel capitolo 6 (Sobrero/Miglietta 2011, 100-101). Tutti questi fenomeni tipici dell’oralità si rivelano importanti per la nostra trattazione in quanto coerentemente trasposti nello scritto (Sobrero/Miglietta 2011, 100).
Sulla questione della possibile collocazione temporale dell“’Ur-italiano popolare“ e sulla nascita delle prime scritture semicolte propriamente dette rispetto alla normalizzazione grammaticale bembiana Cinquecentesca e pre-cinquecentesca, oltre che sulla separazione tra scritture proprie della varietà “alta“ e scritture riconducibili alla varietà “medio-bassa“, si vedano i critici lavori di Berruto (1987, 112-113) e Testa (2014, 21-24), oltre che il fondamentale lavoro di D’Achille (1994, 49-52; 57-65) ed i lavori di Valenti riguardanti questa varietà nel contesto cinquecentesco specificatamente siciliano (Valenti 2015, 533-542). A tal proposito, data la cospicua presenza di una parte dei tratti sub-standard nell’italiano popolare, concordemente con Bruni, Berruto sostiene che l’italiano popolare abbia offerto “una gamma di possibilità presente nell’italiano degli inizi, poi esclusa dalla codificazione bembiana della norma letteraria [e ricomparsa] con vigore quando una massa prima inesistente di parlanti non colti si è appropriata di una varietà di italiano“ (Berruto 1987, 113).
Dall‘Appendix Probi, una lista contenente 227 “errori di lingua“ evidentemente ben radicati nell’ambiente romano del primo secolo, che il grammatico Marco Valerio Probo tentò di correggere, al Satiricon di Petronio, testo contenente la nota Cena di Trimalchione, passaggio rappresentativo della compresenza di diversi stili impiegati dall’autore per distinguere socialmente i propri personaggi e volutamente rivelatore di una lingua “altra“, non rientrante nelle categorie normative imposte dal latino classico, fino ad arrivare all‘Itinerarium Egeriae, testo autobiografico ben lontano dal latino classico e improntato sul parlato dell’autrice, la pellegrina romana Egeria (Bruni 1984, 175-189).
Sulle drammatiche dinamiche che mossero gli scriventi semicolti alla scrittura durante la prima guerra mondiale, cfr. (Fresu 2015).
Cogliamo qui l’occasione per una dovuta precisazione sulle modalità di traduzione adottate nella nostra trattazione: le traduzioni da noi proposte vogliono anzitutto essere strumento per la globale comprensione semantica dei testi analizzati. Nonostante si sia tentato, infatti, in un primo momento, di mantenere almeno una certa aderenza morfologica e sintattica al testo originale, si è reso subito chiaro come ciò avrebbe inevitabilmente portato ad incomprensioni e malintesi, già presenti negli originali, anche all’interno delle traduzioni stesse. Di conseguenza, si è scelto di tradurre le intere lettere ed i frammenti presi in esame rendendoli il più possibile coesi e coerenti, laddove possibile, ai fini del nostro lavoro. Nostre sono anche le traduzioni in italiano dei singoli termini dialettali riportati nelle traduzioni, eccetto dove diversamente specificato; e a tal proposito, è doveroso ricordare che siamo consapevoli del fatto che altri studiosi, specie se di origine siciliana e provenienti da zone dell’isola diverse rispetto alla nostra, potrebbero riscontrare delle incongruenze (fonetiche, morfologiche, lessicali) tra la varietà qui riportata e la varietà da loro stessi parlata. È quindi fondamentale ribadire che i termini dialettali siciliani riportati nell’analisi sotto la voce “sic.“ non hanno la pretesa di essere riconosciuti come rappresentativi di un ipotetico siciliano standard: essi sono forme e termini facenti invece parte della varietà di siciliano parlata nel paese di Galati Mamertino, alla quale ci rifacciamo.
Sono aspetti questi che ben conosciamo, in quanto a noi raccontati in prima persona più e più volte nel corso degli anni.
Da diversi anni, la moglie di Peppino è a letto, a causa della demenza senile. Ella non parla, né pare recepire le parole dei familiari. Ciononostante, Peppino le porta ogni giorno un fiore raccolto nel giardino di casa, parlandole e rassicurandola sul bene che le vuole.
<<Siccome sono una persona che vuole sempre lavorare, scrivo ancora e mi piace tanto e per questo non mi non voglio smettere di scrivere, e così passa il tempo senza che ce ne si accorga, se no mi potrei mettere a dormire [il pomeriggio], però poi la notte non dormirei. Ed è per questo che non voglio dormire durante la bella giornata, e poi ve lo leggerò, questo bello scritto>>.
E ancora, durante i quotidiani colloqui con la famiglia, Peppino declama di essere, metaforicamente parlando, un professore, tanto è il suo sapere.
Sebbene le scuse per la propria scrittura siano presenti nella produzione di Peppino, abbiamo notato come queste vadano nel tempo via via scemando, rivelando la sicurezza dell’uomo, sviluppatasi con l’esercizio della stessa, nei confronti del testo scritto.
È qui inoltre interessante notare come, durante la lettura ad alta voce delle lettere e dei pensieri scritti, se da un lato Peppino legge effettivamente quanto trascritto, dall’altro va un po‘ a memoria, iniziando a pronunciare le prime sillabe, saltando alcuni caratteri o direttamente alcune parole, ma completando ugualmente la frase ed il pensiero ricordando quanto scritto, in quanto gli episodi narrati da Peppino nel nostro corpus costituiscono in gran parte una sorta di repertorio di eventi e narrazioni che l’uomo ha sempre condiviso oralmente con le figlie e la famiglia nel corso della sua vita. Avendo usufruito „in anteprima“ delle eventuali spiegazioni fornite da Peppino sulle proprie produzioni, le figlie dell’uomo hanno potuto aiutarci a sciogliere alcuni punti per noi di difficile comprensione o generalmente oscuri.
Data la distanza fisica che intercorre tra chi scrive e Peppino, non è stato possibile inoltrare il questionario di persona a Peppino; esso è stato bensì inviato alle figlie dell’uomo, le quali si sono occupate di raccogliere ed inviarci la risposta. Anche a motivo di ciò, non è stato possibile seguire passaggio per passaggio il processo di risposta al questionario, che non potremo perciò descrivere nel dettaglio.
<<Io Sono Nato a Galati Mamertino nel 1931 e sono nato il 24 e mi hanno dichiarato [all’anagrafe] il 25. Io ho fatto solo la terza elementare e avevo circa 9 o 10 anni, e poi a 14 o 15 mi sono fatto la scuola serale e [il maestro] ci faceva fare anche le lettere per la fidanzata. Io a 16 anni sono andato a zappare [sic. zappuliare] il grano e poi io, per evitare di venire a Galati sono rimasto ad aiutare le mie zie a Troina. E Io ho fatto sempre il contadino, come i miei cari genitori, tranne quando ho fatto il militare a Casale Monferrato e poi sono andato ad Alessandria. C’è stato un soldato che mi ha chiesto: «Fazio, ma tu come hai imparato a parlare italiano?» e Io gli ho detto: «Così come mi parlano, io rispondo. Se no, se io parlassi loro come [parlo] nel mio paese nessuno mi potrebbe capire». E poi quando sono tornato a  casa, dopo dieci mesi, mi rallegravo di parlare in italiano e adesso posso parlare con tutti come mi piace. E quando scrivevo a casa, scrivevo in italiano e io quando nella busta mettevo cinquecento lire, la mia cara mamma era analfabeta e correva per aprire la busta e mio padre, che sapeva scrivere e leggere, le diceva: «perché corri se non sai leggere?». Il mio caro papà ha trovato tre soldi e si è comprato il quaderno e con un solo soldo una matita [sic. lapis] e se n’è andato a scuola e il suo caro papà ha detto [parlando con il maestro]: «a mio figlio non c’è bisogno che gli insegni [le varie cose che si insegnano a] scuola. Gli deve solo insegnare [sic. imparari] l’educazione». E allora il mio caro padre ha pensato: «ma allora io che cosa sono? Un animale?» e allora, da allora [sic. di tannu] in avanti è diventato un bravo bambino e poi anche una bravissima persona e diceva che le persone brave possono stare in tutte le società civili. Io parlo come mi piace però, quanto allo scrivere non si può scrivere in dialetto: si deve scrivere per forza in italiano>>.
Utilizzando le domande del questionario come una griglia da cui partire per costruire una produzione, eludendo, però, diverse delle stesse.
Pur non preoccupandosi però di spedirle: esse sono infatti serenamente conservate nei quaderni e solo qualora si presenti l’occasione, vengono mostrate agli interessati. In ogni caso, però, bisogna notare come Peppino non ponga mai all’interlocutore delle domande che prevedano delle risposte dal destinatario, come a segnalare, a livello inconscio, di sapere già che questi non riceverà la lettera.
A proposito del genere epistolare, Fresu (2008) ritiene, inoltre, che la “dialogicità a distanza“, tratto proprio del genere della lettera vada a giustificare “i cedimenti verso una pianificazione arcorata all’oralità e sfumata in toni familiari e informali“, nelle scritture semicolte.
A tal proposito si segnala la presenza di cosiddetti “doppioni“ nei nuclei tematici, come accade nelle produzioni di Tommaso Bordonaro, siciliano semicolto classe 1909, emigrato in America; come spiega Amenta (2012, 737), con il passare del tempo, Bordonaro pare avere dimenticato di avere scritto ed inviato le proprie produzioni al professore che ne curava le edizioni, creando, così, nuove produzioni sugli stessi temi già trattati. Anche le produzioni di Peppino presentano, come detto, più volte gli stessi argomenti; tuttavia, pare che questo sia non tanto da ricondurre alla memoria dell’uomo, che pure certamente potrebbe giocare dei brutti scherzi; quanto all’importanza che per lui queste tematiche rivestono. Per quanto riguarda, al contrario, l’inserimento di veri e propri doppioni di racconti, canzoni e poesie, simili nella forma oltre che nel contenuto, è lì possibile che ciò sia da attribuire al fatto che l’uomo non ricordi di averle già “immortalate“ per iscritto. In ogni caso, la presenza dei doppioni ha talvolta reso più leggero il processo di ricostruzione e traduzione dei testi, spesso a tratti criptici.
Non deve qui stupire la convergenza tra tali discipline, apparentemente lontane tra loro: come fa notare Spina, infatti, uno dei tanti elementi di contatto tra le due sarebbe costituito dal fatto che entrambe si occupano dello “studio di diverse modalità di comunicazione che, in entrambi i casi, avvengono mediante l’uso di codici“ (codifica e decodifica del codice nel passaggio tra parlante-mittente e parlante-ricevente, nel caso delle lingue naturali; codifica in “linguaggio macchina“ delle istruzioni ricevute dall’utente, e codifica della risposta della macchina in un linguaggio comprensibile per l’utente, nel caso degli elaboratori elettronici) per la trasmissione dell’informazione (Spina 2001, 9). Strumenti e metodi visceralmente propri dell’informatica vengono inoltre serenamente utilizzati dalla linguistica: uno su tutti, il parametro della composizione/scomposizione tramite il quale essa opera la segmentazione del continuum linguistico, parametro caro all’informatica che è “per sua natura, basata su tecnologie che permettono di atomizzare oggetti diversi (testi scritti e parlati, immagini fisse e in movimento, suoni), [ e ] di scomporli nella catena di zero e di uno su cui si fonda il codice binario che essa utilizza“ (Ivi: 10). Per un approfondimento sugli ulteriori punti di convergenza e punti di scambio tra linguistica ed informatica, si veda Spina (2001, 9-12).
Come spiega Spina (2001, 7)l’esponenziale evoluzione delle tecnologie informatiche ha permesso di passare dai primi rudimentali “calcolatori elettronici“ diffusisi negli anni Quaranta-Cinquanta ai personal computer sviluppati trent’anni dopo, passando da un iniziale dominio contestualmente ristretto quale quello prettamente scientifico (si pesi a discipline basate sul calcolo quali matematica e fisica) ad una funzionalità eclettica (general purpose) che potesse aprire a diverse operazioni, tra cui spiccano, tra le altre, la conservazione ed il trattamento di informazioni attraverso lo strumento dell‘elaboratore elettronico. Spina individua inoltre le origini teoriche della disciplina nelle menti di filosofi e matematici quali Leibniz, Boole, Pascal e Russell, in quanto lo sviluppo delle nuove tecnologie sarebbe derivato proprio dall’intersezione tra studi di logica e studi matematici (Spina 2001, 8).
Per un approfondimento diacronico sullo sviluppo delle iniziative più rilevanti nel campo degli studi linguistici assistiti da computer, cfr. Spina (2001, 17-29).
È interessante vedere come l’ambito linguistico in cui la linguistica dei corpora trova maggiore applicazione sia quello lessicografico, ambito in cui è possibile operare un celere confronto digitale dei dati; nel caso della sintassi, al contrario, l’analisi linguistica del dato testuale fornito dal corpus non è sufficiente, in quanto è necessario contestualizzare le connessioni sintattiche tramite l’aggiunta di ulteriori informazioni ad opera dell’uomo stesso (Spina 2001).
A tal proposito è bene sottolineare la presenza di alcune annotazioni trascritte dalle curatrici del materiale sulle copie originali delle produzioni dell’uomo, circa la data di stesura delle stesse (prevedendo di spedirle o tentando, talvolta, di ordinarle cronologicamente), o sotto forma di delucidazioni rispetto al pensiero – o alla scrittura stessa – a tratti poco cristallino del padre, nella previsione, nel caso delle lettere, di farle leggere con più scorrevolezza agli interessati. Si potrebbe pensare che queste vadano a confondersi con le note apposte dallo stesso scrivente e a compromettere il lavoro di ricerca, ma in realtà gli interventi da parte di terzi sull’originale si distinguono sensibilmente dalle annotazioni dello stesso Peppino: le due tipologie di correzione o intervento sono infatti visibilmente diverse e ben riconoscibili per calligrafia, colore dell’inchiostro e carattere impiegato, in quanto Peppino non sembra conoscere altro carattere che il corsivo minuscolo, mentre le figlie impiegano di norma lo stampatello maiuscolo o, al limite, un corsivo minuscolo con una calligrafia comunque inequivocabilmente non attribuibile a Peppino.
In tal senso si è fatto riferimento alla metodologia di raggruppamento per tema seguita da Leo Spitzer nell’edizione delle Lettere di prigionieri di guerra italiani (1915-1918), nella quale il linguista analizzò le specificità delle lettere raccolte in 23 diversi capitoli a cui aveva dedicato una specifica tematica ricorrente nelle produzioni: la lontananza, l’attesa della pace, le richieste di denaro e vestiario sono solo alcuni dei diversi temi che più si riproponevano nello scambio epistolare contenuto in questa edizione.
Si è qui reso necessario impiegare una tripla barra obliqua al fine di distinguerla sia dalla singola barra obliqua da noi regolarmente inserita nei testi riportati per segnalare il tornare a capo di Peppino, sia e dall’effettivo inserimento operato dall’uomo di una sbarra obliqua nel riportare una data, in 8.3.1-VIII: “11//12//2182018“.
La lettera che presenta questo fenomeno è difatti quella che aveva più possibilità di essere realmente recapitata al destinatario o, se non propriamente recapitata, quantomeno mostrata alla diretta interessata: stiamo parlando della lettera 8.2-XVI, indirizzata alla parrucchiera del paese. La produzione potrebbe avere subito delle lievi correzioni non solo per volontà di Peppino durante la sua personale rilettura, ma da parte delle figlie. Di conseguenza pare qui corretto sottolineare la possibile non piena attendibilità della specifica correzione effettuata tramite < / >.
Tramite il lavoro di lettura, trascrizione e analisi eseguito in questi mesi sulle produzioni di Peppino, si è avuto modo di sviluppare una comprensione del modus operandi dell’uomo rispetto alla scrittura e alla sistematicità delle soluzioni da lui adottate. Questo ragionamento non vuole dunque avere la deterministica pretesa di conoscere come egli si sarebbe potuto approcciare alla risoluzione del problema dell’inserimento, tra due parole precedentemente univerbate quali sono avoluto <<hai voluto>>, del grafema i dimenticato durante la stesura. È tuttavia opportuno ritenere, data la frequente occorrenza del fenomeno, che in casi come questo Peppino avrebbe inserito il grafema tra le due parole, non curandosi di separarle, come da noi riportato durante la trascrizione su DH.
<<Gli uomini si dividono in quattro categorie: uomini, mezzi uomini, ominicchi e quaquaraquà. Mi diceva la buonanima di mio papà, ’nzanitàte: “un uomo vale per quello che sa. Se non sa niente, che cos’è? Un ceppo [sic. zuccu] di castagno [sic. castagnera]“; e mio padrino mi diceva: “chi è buono, è buono per tutti. Chi è cattivo [sic. tintu], è cattivo per se stesso“; era fratello di mia mamma: questa è la mia intelligenza!>>.
Anche in tal senso, in questo specifico esempio, sembra poco probabile che questi siano stati inseriti dalle figlie, le quali godono di un’istruzione tale da consentire loro di poter distinguere i corretti usi della punteggiatura; siccome, inoltre, questo passaggio non interessa terzi se non Peppino stesso, escludiamo che sia stato “maneggiato“ e corretto dalle figlie dell’uomo, come invece avviene nel biglietto d’auguri per la laurea della nipote Alessia o in altre lettere, le quali, essendo rivolte ad altri, sono spesso state riviste dalle due donne, al fine di rendere, come più volte detto, la lettura più scorrevole.
A proposito dell’impiego della virgola, si segnalano la lettera 8.2-XXII in cui essa separa, in un’elencazione di nomi, un elemento dall’altro, per poi assumere infine il valore del punto fermo a chiusura della frase e ad apertura della successiva: “la strata che saliva della turre labiamo / ziaia quattro Io, Calogero Conte, la / Signora Gina mmanna e famoso / chognato Antonino pinitto, u bonanima / di nostro fratello Antonino mia detto / stai atento“ <<la strada che saliva dalla torre l’abbiamo percorsa per la prima volta [sic. nsaiata, da nsaiari, lett. provarsi un abito nuovo, cfr.  Giarrizzo (1989, 232)] in quattro: io, Calogero Conte, la Signora Gina mmanna e il famoso cognato Antonino pinitto. La buonanima di nostro fratello Antonino mi ha detto “stai attento!“>>; ed il pensiero 8.3.1-VIII, in cui le virgole compaiono – sebbene non sistematicamente – con la stessa funzione nell’elenco dei fratelli e delle sorelle di Peppino: “eravamo quatro / fratelli e tresorelle. Langhiu / si grande si chiamava Concettina / laseconda Giuseppina poi cera / un fratello che si chiamava / Salvatore, Io, poi Antonino, / Lina é Paolino.“.
Segnalando la citazione di parole pronunciate da terzi tramite l’inserimento dei due punti, Peppino si porrebbe su un diverso livello del discorso narrativo, rivelando la propria competenza metacomunicativa. Tuttavia, vista l’assenza di questo atteggiamento nella restante produzione dell’uomo, dove, al contrario, come vedremo, egli passa con nonchalance da un piano all’altro, dobbiamo concludere che questo segno d’interpunzione sia stato inserito dalle figlie.
Sul perché del doppio inserimento della barra obliqua nella nostra trascrizione delle lettere, cfr. il capitolo 5.3.2 della nostra trattazione.
Non è men che meno pensabile che Peppino sia a conoscenza dell’opposizione tra le varianti standard /e/ ed /ε/, così come quella tra /o/ ed /ɔ/, e che tenti di riprodurla, a motivo della difficoltà regionale di distinzione tra l’opposizione di queste ultime due varianti aperte e chiuse, le quali nel sistema vocalico siciliano vengono neutralizzate, lasciando spazio alle varianti aperte /ε/ ed /ɔ/ (D'Achille 2003, 184) .
Ricordiamo, infatti, che durante il periodo militare trascorso a Casale Monferrato, all’età di vent’anni circa, Peppino soleva inviare delle lettere ai genitori rimasti in Sicilia.
Non prenderemo qui in esame il primissimo testo scritto di Peppino risalente al 2016, il biglietto d’auguri per la laurea della nipote Alessia, in quanto, presentando una notevole quantità di punti fermi estranei alle successive produzioni, è grande la possibilità che il testo ottenuto sia stato il risultato finale di suggerimenti, correzioni e manipolazioni apportate, per l’occasione, dalle figlie di Peppino allo scheletro del testo da lui elaborato.
Sulla particolare resa grafica della parola, cfr. § 5.3.4.
Cfr., a tal proposito, Ruffino (2001, 77-78).
A tal proposito è interessante notare, come spiega Spitzer, che i termini geografici estranei alla coscienza popolare vengono storpiati sul piano del significante, venendo paretimologicamente “assimilati alla meglio a parole italiane note, anche se prive di senso“ (Spitzer 1976, 38), costituendo una sorta di malapropismo, come vedremo in 5.5; la parola “Jugoslavia“ doveva certamente rientrare tra la serie di termini “esotici“ di difficile assimilazione e riproduzione per una persona dalla bassa istruzione quale Peppino, come dimostra altresì un secondo inserimento della stessa, “avicusgrauria“ (8.3.4-III), nel quale la storpiatura è ancora più evidente.
Parlando della nascita della seconda figlia in 8.2-XXIV, ad esempio, di fondamentale importanza per l’uomo paiono le parole: “Dottora“ <<dottori>>; allo Spetale“ <<all’ospedale>>; Lasignora Lucia Lavitrice“ <<la signora Lucia, la levatrice>> ossia la donna che assisteva la moglie durante la gravidanza; l’aggettivo Poveretta“, espresso compassionevolmente nei riguardi della moglie sofferente per i dolori del parto e alla quale è indirizzata la lettera.
<<Spero che la presente lettera venga a trovare a te. Io ti voglio tanto bene come tu vuoi bene a me e alla nonna, che ti vuole bene. Tu sei intelligente […] mi ricordo quando, ’nsanitate, è venuta a mancare la tua nonna Nunzia, gli hai chiesto alla nonna Nina se si era dispiaciuta e lei ti ha risposto “certo, gioia“. Adesso ti salutiamo, io e la nonna che anche lei ti vuole tanto bene e ci dico presto ci vieni a trovare tu. Ti abbracciamo baciandoti>>.
Le maiuscole sono, infine, impiegate pressoché regolarmente per i nomi dei mesi dell’anno, che di norma dovrebbero essere scritti in minuscolo: “gennaio Febraio Marzo A Prili Magio Giugno Luglio A_gosto Settenbre Ottobre Novebre ĕ Dicenbre: “, 8.3.2-V; e con le lingue (parola anch’essa riportata in maiuscolo), come si nota nel frammento precedentemente analizzato (8.3.1-VII): “Inglse Tedec Te Tedesco è Fra / è Francese Italiano / Inglese Tedesco é Francese? / Mia Nipote Parla queste / l Lio Lingue“.
Allo stesso modo, si potrebbe ipotizzare una certa difficoltà nella resa grafica della lettera <j> riscontrata nella scrittura della parola “Jugoslavia“; in questo caso, però, sembra più plausibile credere che Peppino non fosse a conoscenza di come si scrivesse questa parola e che la conoscesse avendola sentita nominare a qualcuno, possibilmente durante il suo soggiorno militare in Piemonte; non avendo dunque idea dell’implicazione della <j> nella denominazione di questa nazione, Peppino la riporta graficamente realizzando quello che si caratterizza come un malapropismo, come precedentemente accennato e come vedremo più approfonditamente nel capitolo 6.3
Per quanto riguarda il nesso <gh> – presente in “ora voghio finire“, ora voglio finire (8.2-IV) – si nota come esso rifletta l’interferenza dialettale del verbo sic. vogghiu, il quale viene trasposto all’italiano voglio, e come la forma risultante rifletta una commistione di elementi da entrambe le lingue. Il nesso viene altresì trascritto in “Langhiu / si grande“, la più grande (8.3.1-VIII): è evidente l’interferenza con il siciliano a cchiù ranni, forma che qui appare, però, ipercorretta o risultante da un’assimilazione della <g> ad una possibile nasale velare sonora /ŋ/ che la precede.
È bene qui precisare, però, che non si tratta di un fenomeno sistematico nel corpus: più volte Peppino va a capo dimenticando di segnalare il procedimento apponendo il segno ( = ), come, ad esempio, in in 8.2-XX: “cimancha / va un ferro“ <<gli mancava un ferro [allo zoccolo]>>.
Si notano, inoltre, dei casi in cui l’uomo va a capo, magari rispettando anche la corretta divisione in sillabe e segnalando l’evento tramite il segno ( = ), dimenticando, però, di scrivere nel rigo successivo la sillaba da riportare, come in 8.3.3-II: “e mipia= / tanto“ <<e mi piace tanto>>; o in 8.2-XX: “u banani= / di donturigu“ <<la buonanima di Don Turiddu>>; fenomeno di distrazione dovuto forse alla fretta e alla foga di Peppino nello scrivere.
Per rendere maggiormente l’idea, essa potrebbe ricordare il suono che in inglese viene reso con la vocale breve /ɪ/, di will, rabbit, Latin ecc.
<<Cara Alessia, ti scrivo queste due parole per dirti che sto bene di salute e così spero che stai bene anche tu e i tuoi amici e ti voglio tanto bene come tu vuoi bene a me. Ti saluto e ti dico che mentre dormivo, ti ho sognato, ho sognato che mi abbracciavi. Non posso scordarmi mai di te, tu sei una ragazza tanto intelligente, ed è per questo che mi vuoi tanto bene, perché perché vedi che io ti voglio assai bene. Non mi prolungo più. Ciao, a presto. Intanto allungo ancora: la mamma è uscita fuori con la zia. I saluti ti mando di nuovo, ciao, e ti saluta anche papà>>.
Con il passare del tempo e con l’esercizio della scrittura, tuttavia, Peppino pare acquisire maggiore confidenza con la forma “tuoi“, che appare trascritta correttamente più volte nel corpus, sebbene non sia esente da problemi relativi all’accordo, come vediamo in una lettera scritta nel 2018 alla nipote minore, in cui si legge: “timeriti tanto ririspetto di tutte Noi le Nonne ele Tuoigenitore“, <<ti meriti tanto rispetto (da parte) di tutti noi, (dal)le nonne e (da)i tuoi genitori>> (8.2-XIX); in questo passo notiamo ancora la tendenza di Peppino a rendere la -i finale indistinta con -e (tutte Noi, <<tutti noi>>; genitore, <<genitori>>) e ad accordare le desinenze dei relativi articoli impiegati sulla base di queste (leTuoigenitore).
<<Carissima nipote Alessia, ti scrivo questa lettera per dirti che sto bene di salute e così spero che stai bene anche tu e ti dico che la nonna sta anche bene e io dico che certamente ti vuole vedere. A lei piacerebbe che tu le stessi sempre vicino e ti dico che quest’oggi tuo papà e tua mamma ci hanno fatto una sorpresa. Io non li aspettavo perché sapevo che sarebbero venuti per il santo Natale e invece sono venuti quest’oggi! La badante mi ha detto che c’era Carolina e invece c’erano tuo papà e tua mamma. Non mi prolungo tanto e ti dico ciao a presto, tantissimi saluti e baci. Ciao. E adesso, carissima nipote Alessia, ti scrivo un racconto antico, per esempio, tanto per farti capire: c’erano tre fratelli, come, per esempio, nella nostra campagna a Milè (noi la chiamiamo Milè, però sulla mappa si chiama Liazzo) e lavoravano, questi tre fratelli. È passato un signore, ha salutato ed ha continuato ad andare avanti per la via e siccome [i tre fratelli] erano indietro di senno [stupidi], si stavano impasticciando [azzuffando], dicendo: “Quel signore ha salutato me!“. Tutti [e tre] dicevano così. Uno dei tre ha detto: “Andiamogli a domandare a chi ha salutato“, allora quel signore ha risposto: “Ho salutato quello [più] fesso che c’è“ e domandava loro a chi fosse successa la cosa più stupida [per decretarlo]!>>.
Di particolare interesse in quanto presente nell’unica lettera in cui Peppino si rivolge dando del Lei al destinatario, esprimendo intenzionalmente una dovuta distanza diafasica: “levogliono tutti Bene perche Lei / vole Bene a laltri quindi quindi ci dico / che ciá una buona fama“ <<Le vogliono tutti bene perché Lei vuole bene agli altri, quindi Le dico che Lei ha una buona reputazione>> (8.2-XVI).
Un fenomeno similare potrebbe essere riscontrato anche nella formula di chiusura della lettera, in cui Peppino scrive Tantismi Salute é Baci“ <<tantissimi saluti e baci>>, fenomeno che potrebbe all’apparenza essere letto come esempio di un mancato accordo tra un aggettivo ed un sostantivo, fenomeno tipico dell’italiano dei semicolti (Mocciaro 1991, 35): se infatti la desinenza plurale di tantissimi è correttamente accordata con quella di baci,  essa non lo è rispetto a quella di saluti, sostantivo che nella resa di Peppino presenta una -e finale. In questo caso, però, pare probabile che lo scambio tra il sostantivo femminile singolare salute e il maschile singolare saluto (al plurale saluti) sia causato dalla riproduzione su carta del continuum fonico parlato, il quale prevedrebbe un’assimilazione tra la -i siciliana indistinta in fine di parola (che, come detto poc’anzi, facilmente assume in ogni caso nella produzione dell’uomo il carattere di una -e finale) e la congiunzione “e“, risultando nella desinenza -e del sostantivo saluti.
Si noti, inoltre, che questa frase resa all’imperfetto in siciliano può anche essere tradotta in italiano con il passato prossimo: quel signore ha salutato me.
Se si volesse creare una frase marcata in siciliano, basterebbe infatti spostare il verbo dall’ultima posizione; nel nostro caso, una frase sintatticamente marcata sarebbe: quel signore salutava a mìa; o ancora: a mìa salutava quel signore.
Sebbene si segnali la presenza di alcune frasi secondarie introdotte da “che“: “ti scrivo perdirti che sto Bene di Salute“; “spero che stai Bene Anche Tu“; “Tidi_cho chela Nonna sta Anche bene“ ecc.
Si noti, tra l’altro, l’impiego di una struttura analitica come “indietro di senno“ anziché di una sintetica come “stupidi“, fenomeno caratteristico degli italiano dei semicolti (D'Achille 1994, 73).
<<Carissima campagna, io Fazio Peppino Rocco vorrei stare sempre con te però non lo posso fare e mi dispiace ma devo essere paziente perché le (mie) figlie non mi hanno fatto prendere la patente e devo dipendere da loro [sic. grammizio, termine arcaico riportato in Giarrizzo (1989, 169) come grammizzi‘, loc. avv. <<molte grazie>> dal fr. grand merci <<mille grazie>>; da questa locuzione avverbiale proverrebbe il modo di dire stari in grammizio ri carcunu, ossia, <<essere alla mercè di qualcuno, dipendere dal suo volere ed essere dunque in obbligo di ringraziarlo per la sua benevolenza]. Se io me ne vado [sic. pàrtiri] da solo, a piedi, la gente mi prende per stupido, a me e alle mie figlie. Però io una volta buona sono andato (da solo). Prima che arrivassi in campagna, c’era un signore con sua moglie; mi è arrivato da dietro e mi ha detto: “Dove va?“ – “Vado a raccogliere[sic. cògghiri] un po‘ di fichi“ – “E le sue figlie?“ – “Loro, quando vedono che non ci sono più gli stivali [sic. scarpuna], lo capiscono che sono andato in campagna“. Infatti mia figlia Antonietta se l’è pensata e mi è venuta a prendere. Io sono Fazio Peppino Rocco, Galati Mamertino 29 Dicembre 2018>>.
Un altro esempio dello stesso fenomeno è offerto nella prima lettera: “Luei cipiacesse che stavi Tu senpre / vicino a Lui“, sebbene esso sia riferito alla moglie, dunque coniugato alla III persona singolare.
Facciamo qui riferimento alla specifica varietà galatese, in quanto, se è vero che la costruzione dialettale siciliana più diffusa per esprimere il periodo ipotetico dell’irrealtà è quella, come detto sopra, del cong. imperf. + cong. imperf., è altrettanto vero che in altre zone dell’isola esistono forme al condizionale come vurrìa <<vorrei>> e farrìa <<farei>> (cfr. Ruffino 2001, 62), diffuse ad esempio a Messina e, per continuità spaziale, nella vicina Calabria (cfr. Krefeld 2019).
Si noti che questo costrutto assume sì primariamente il valore della forma modale italiana dovere+infinito, ma esso può anche assumere il valore di futuro: a differenza dell’italiano, infatti, il sistema verbale siciliano non presenta delle forme sintetiche per esprimere il futuro, il quale viene invece reso o tramite l’impiego del presente indicativo, o, appunto, tramite l’impiego di forme perifrastiche quali il costrutto àiu a + infinito, spesso seguito da un complemento di tempo come dumani <<domani>> o doppudumani, <<dopodomani>> (per un ulteriore approfondimento, cfr. almeno Ruffino 2001, 62).
Si noti qui l’interferenza, nella resa del sostantivo italiano figlie, con il sostantivo sic. fìgghi, valido ad indicare sia il maschile che il femminile.
Frase in cui spicca, per altro, l’uso anch’esso tipico del parlato informale del dativo etico, indicante un particolare coinvolgimento anche affettivo del parlante nell’azione espressa dal verbo, in questo caso tramite l’inserimento del pronome “mi“ (cfr. Cignetti 2010).
<<[…] Io mi ricordo quando mi prendevi le scarpe, non lo dimentico mai, e quando eravamo in campagna, [quando] ti ho detto di porgermi l’accetta [sic. ccittuni] [e appena me l’hai] porto sei andato a trovare la mamma. Io, siccome non ti trovavo più, sono sceso dall’albero pensando che andavi nella cisterna [sic. gèbbia], mentre invece eri con la mamma e me ne sono ritornato sull’albero, l’accetta me la sono messa alla cintura [sic. cintu] e così è come andò la faccenda. Io mi ricordo anche che passavi nel canaletto dell’acqua [sic. saia] […]>>.
<<Io ricordo quando tu dicevi alla buonanima della mamma (nzanitate): “mamma, ’sta botola [sic. catarrattu] aperta con la tenda abbassata è pericolosa per la figlia Natalina!“ (o per la figlia Antonietta, non me lo ricordo) finché la figlia Natalina non è caduta di sotto, in cantina [sic. suttano]. Tu eri incinta e dallo spavento hai abortito e allora io, che lavoravo alla casa di sopra di Lina, qualcuno mi è venuto a chiamare che dovevamo andare all’ospedale a Sant’Agata di Militello e mi ha accompagnato la buonanima di Gino Serio (nzanitate) e con noi c’era la signora levatrice. L’autista le ha detto: “a quantu ama iri? [a quanto dobbiamo andare?]“ e la signora Lucia, la levatrice, ha risposto: “volare!“ e allora l’autista ci ha detto “mettete un fazzoletto fuori dallo sportello“ [lett. “uscite fuori un fazzoletto fuori dallo sportello“] e ricordo che i dottori pensavano che avessi abortito apposta e tu, poveretta, gridavi dal dolore>>.
Cortellazzo spiega, infatti, come questo italiano si riveli “del tutto inadatto ad esprimere concetti estranei alla minuta, anche se ricca, esperienza popolare. Quando lo fa, diventa goffo e confuso, dovendo ricorrere ad un complesso terminologico non suo, ma calato dall’alto e male assimilato“ (Cortellazzo 1972, 16-17).
Dal verbo abburtìri, derivato dal sostantivo sic. abbortu, dal lat. abortus, intempestivus ortus (Pasqualino 1987).
<<Carissima Alessia, ti scrivo questa letterina per dirti che sto bene di salute e così spero che stai bene anche tu e ti dico che sei un’ottima nipote, tanto intelligente, ed è per questo che mi ha dato tanto piacere che ti sei laureata, anche a tuo papà e a tua mamma, e hai dato tanto piacere anche alla zia Antonietta. “La persona vale per quello che sa“, diceva (nzanitate) il tuo bisnonno[sic. catananno], “un uomo vale per quello che sa, se non sa niente è un ceppo di castagno“. E tu non hai bisogno che te lo dica io quello che devi fare. E speriamo che trovi un lavoro che ti piace a te. A me, personalmente, il lavoro mi è piaciuto sempre, da quando prendevo 15 lire al giorno e avevo circa dodici, tredici anni e mietevo il fieno nel comune di Troina. La prima volta che ho mietuto il grano, mi sono fatto un piccolo taglio [sic. tagliatina] al dito e il principale mi ha detto: “cammina“ [sic. camìna, ‚vieni‘]; mi ha portato a mettere le balle di fieno [sic. zegne] a dieci a dieci, io ce la facevo perché erano piccole. I grandi prendevano ottanta lire al giorno, mentre a me me ne ha date cento lire, per dieci giorni. Io non vedevo l’ora di finire per vedere com’era la piana che c’era più avanti. Mentre avevamo l’asinella incinta del cavallo, si ritornava. Siamo andati a Bronte. Per la strada ci incontrarono tre, quattro signorine che cantavano “vincere, vincere! In cielo, in terra, in mare. Le nostre labbra giurano: vincere o morire!“ e il tuo bisnonno ha detto “Figlie di buona mamma!“, perché erano imponenti. Mentre tu, carissima Alessia, hai tanto studiato e ti trovi bene. Tantissimi auguri. Se non ci penso io, chi ci deve pensare! Tuo papà con l’età è diventato bravo, tanti saluti. Tuo nonno  Peppino Rocco Fazio 24-11 2018>>
Non doveva certo essere uno spettacolo usuale per un uomo siciliano di paese vedere delle giovani ragazze cantare allegramente per la strada, tanto più se da sole.
<<20.18. Carissima Nipotina Marika, io sono tuo nonno Peppino Rocco Fazio. Ti scrivo questa letterina per dirti che sei bravissima, anche [se] sei stata un pochettino sfortunata precedentemente, quando vivevi a San Marco, perché pagavate tanti soldi per l’affitto e non potevi comprare tutto il necessario, mentre ora, per grazia di Dio, certamente ti senti meglio perché la fortuna, credo, che si è svegliata e hai preso un po‘ di respiro, per grazia di Dio. E questo, come immagini, a me mi fa il più grande piacere e adesso, parlando in italiano: tu certamente ti dai da fare certamente per quello che puoi e ti dico che si dice “chi vole fare una buona anzianità, deve fare un po‘ di propri sforzi“ e si dice che la persona vale per quello che sa, se non sa fare niente, diceva il tuo bisnonno, che cosa è? Un ceppo di castagno. E con le buone maniere devi dire alla tua mamma di mettere qualcosa da parte (soldi, intendo), perché le devi dire “al più presto mi devo sposare“; “le cose lunghe“, dicevano gli antichi, “diventano serpenti“ e tua mamma certamente questo lo deve fare presente a tuo papà e comunque spero che mi sono spiegato per bene, non mi dilungo tanto perché si dice “a buoni intenditori, poche parole“ ciao, tuo affezionatissimo nonno>>.

6.4. Livello testuale e pragmatico

6.4.1. Testualità

Abbiamo visto nel paragrafo precedente quali siano gli elementi che contribuiscono a caratterizzare l’italiano scritto di Peppino: dalla grafia incerta e condizionata foneticamente dal siciliano, alla morfosintassi, i cui processi risultano spesso scombinati anche a motivo delle interferenze dialettali, al lessico impiegato dall’uomo, spesso riflesso dell’ambiente dialettale nel quale egli è immerso e riconducibile alla saggezza popolare in lui racchiusa. Tutti questi elementi vanno a collocarsi in un più ampio quadro linguistico preso in modo onnicomprensivo in esame dalla linguistica testuale, che si occupa, come suggerito dalla denominazione stessa, del testo e dell’organizzazione alla sua base, la quale riflette l’organizzazione del pensiero dell’essere umano rispetto alla veicolazione di un messaggio e le implicazioni che la trasmissione dello stesso comporta.

Abbiamo spesso detto che la testualità degli scritti semicolti si caratterizza per dei tratti tipici della testualità del parlato. Cosa intendiamo, però, esattamente con questa espressione? È stato qui più volte sottolineato come parlato e scritto appartengano a situazioni comunicative diafasicamente diverse, le quali si riflettono in usi diamesici diversi. Queste differenze si concretizzano specie per quanto riguarda l’organizzazione dell’informazione che vuol essere veicolata tramite il testo. Se è vero che il parlato è caratterizzato dall’elemento dell’oralità, e della spontaneità, con le sue pause, le sue false partenze, dovute possibilmente ad interruzioni o disturbi extralinguistici, le presupposizioni ed i cambiamenti tematici effettuati secondo il fluire dei pensieri degli interlocutori, i quali potrebbero talvolta destabilizzare e compromettere la comunicazione; allo stesso tempo, esso può ad esempio contare sulla costante possibilità di autocorrezione o di retroazione (Serianni 2003, 20) e modifica del discorso appena fatto. A sostegno di questa libertà del testo parlato intervengono altresì elementi extralinguistici, quali il contesto in cui la comunicazione avviene, con il quale si instaura una relazione di tipo deittico, e ancora la gestualità, la mimica e l’intonazione del locutore; tutti elementi i quali aiutano anche l’interlocutore a contestualizzare l’informazione e a recepirla correttamente. Ciò non avviene però nel caso del testo scritto, in quanto, essendo strettamente legato alla fisicità del mezzo su cui si attua, ossia il pezzo di carta, esso non può contare sui fattori sopraelencati per la corretta veicolazione e comprensione del messaggio, motivo per il quale si rende necessaria una specifica e precisa programmazione dello stesso. In tal senso, allora, la necessità di pianificazione della resa del messaggio è maggiore rispetto a quella del parlato, sebbene anche in quest’ultimo sia auspicabile un’organizzazione quantomeno logica dell’informazione, pena i fini stessi della comunicazione. 

La linguistica testuale si occupa, quindi, dello studio dei meccanismi inerenti all’organizzazione del pensiero e alla sua programmazione funzionale ai fini della corretta recezione del messaggio. La testualità del testo scritto può essere di tipo grafico (organizzazione fisico-visiva del pensiero sullo spazio su cui si manifesta), ma può anche riguardare il contenuto del testo, sia per quanto riguarda i meccanismi strutturali che regolano i rapporti tra gli elementi formali che lo compongono – parliamo di meccanismi di coesione; sia a livello logico e semantico, con i meccanismi relativi alla coerenza, sia, ancora, a livello stilistico, con le scelte  di registro adeguate al contesto comunicativo in cui si svolgono. Prendendo in esame questi aspetti, vediamo adesso quali particolari elementi affiorino nell’organizzazione testuale di Peppino.

 

6.4.2. Organizzazione grafico-visiva del pensiero

Abbiamo già accennato nel capitolo 4 come Peppino affronti la questione dell’allestimento della pagina scritta nelle sue produzioni. Da un punto di vista dello spazio fisico, abbiamo visto come i quaderni dell’uomo presentino non solo veri e propri brani scritti, ma anche rappresentazioni grafiche di uomini, cose o animali, le quali, spesso, non si trovano solamente tra una pagina e l’altra dei quaderni sui quali scrive, bensì possono riempire ed abbellire lo spazio sottostante alle produzioni, come nel pensiero 8.3.3-III. Dal punto di vista del testo scritto vero e proprio, invece, vediamo anzitutto come la sua larga calligrafia occupi tutto lo spazio a disposizione in un rigo, nel quale entra un massimo di 8 parole, andando a capo qualora ne senta la necessità e talvolta segnalando questa sua operazione tramite l’impiego del segno d’interpunzione < = >. Qualora Peppino non abbia più spazio alla fine del foglio, accade talvolta che egli prosegua sul margine destro o sinistro in direzione verticale, come in 8.3.3-I o in 8.2-II. Ancora, a livello d’interpunzione, come visto nel primo paragrafo di questo capitolo, va sottolineato come spesso questa non sia funzionale, ma perlopiù casuale, ed assuma un carattere interscambiabile (si veda, ad esempio, il pensiero 8.3.1-I, dove i punti interrogativi sono impiegati al posto di punti esclamativi), venendo posizionata arbitrariamente là dove egli lo ritenga necessario: talvolta dove considera concluso un pensiero, magari segnalato con l’inserimento di una virgola < , > e non di un punto fermo < . > (cfr. § 6.1.1).

Per quanto riguarda poi l’organizzazione grafico-visiva delle lettere, nella produzione di Peppino non si riscontra il rispetto della norma per la quale, successivamente alla formula come “Caro/a…“ e quelle relative ai saluti finali, è previsto il rientro a capo (a seguito di questi ultimi l’inserimento della firma); allo stesso modo non si riscontra un costante rispetto della regola strutturale per la quale il luogo e la data debbano essere resi o in alto a destra o in basso a sinistra rispetto al corpo del testo, se non in un solo caso: la lettera 8.2-XII, in cui, però, Peppino pare fare un misto tra l’inserimento della data e l’inserimento della formula “Caro/a…“, i quali si trovano insieme al primo rigo.

Per quanto riguarda l’inserimento di luogo e data nelle memorie e nei pensieri, invece, si contano tre casi in cui essi sono stati inseriti in modo “separato“ rispetto al corpo del testo: il pensiero 8.2.3-VI, in cui Peppino riporta solamente il luogo in alto a sinistra della propria produzione, per poi iniziare con la propria trattazione; il pensiero 8.2.3-VII, il quale riporta luogo e data in alto a sinistra del corpo testo e, nonostante vi fosse ancora spazio per le successive parole “Io questa“, Peppino decide di riportare tutto un rigo sotto, dando così l’impressione di avere seguito uno schema, in questo caso più diaristico, imposto dal genere; e ancora, stesso procedimento con il pensiero 8.3.5-II, in cui le due parole successive all’inserimento del luogo e della data, “Io sono“, che sarebbero potute entrare nello stesso rigo, vengono riportate direttamente andando a capo. Pare qui tuttavia doveroso specificare che una precisa deduzione del comportamento organizzativo di Peppino viene comunque compromessa dalla larga calligrafia dell’uomo, in quanto essa occupa spesso tutto lo spazio a disposizione in un rigo, e ciò non permette di comprendere esattamente se l’andata a capo sia volutamente dovuta a motivi di struttura o per questioni di causa di forza maggiore, vista la fine dello spazio a disposizione.

Ancora riguardo all’andare a capo, non si segnala una rigida separazione in paragrafi rispetto alla tematica trattata – nonostante, come visto nel capitolo  4, le tematiche toccate da Peppino siano diverse all’interno della stessa produzione – che, però, almeno nel genere della lettera, non sarebbe effettivamente necessaria; non si osserva neanche un’identificazione visivamente chiara delle altre tipologie testuali inserite nel corpo della lettera, sebbene queste vengano spesso comunque segnalate da formule quali: “ē a desso / scrivo una muttetta“ <<e adesso scrivo una poesia dialettale>> (8.3.1-5), o “ora scrivo una piccola chanzona“ <<ora scrivo una piccola canzone>> (8.2-XX), o “sidevano scrivere / questi parole“ <<si devono scrivere queste parole>>, riportando poi una formula scaramantica contro il malocchio (8.2-VII), sempre integrata all’interno del testo.

Per quanto riguarda le memorie ed i pensieri, bisogna indicare come i brani più lunghi siano, per usare un eufemismo, “organizzati“ nello spazio fisico in modo tale da susseguirsi secondo il principio già menzionato dello “scrivere dove c’è spazio“; motivo per il quale è stato difficoltoso selezionare ed estrarre i frammenti riportati, spesso incastonati tra canzoni e racconti popolari. Anche in questo caso, dunque, non è possibile distinguere visivamente un genere dall’altro, in quanto essi non vengono isolati ma trascritti come un continuum, sia che essi facciano parte della stessa produzione, sia che essi facciano parte di produzioni diverse. Vediamo adesso quale sia, invece, l’organizzazione concettuale e contenutistica della produzione di Peppino.

Un sostanziale punto sul quale vogliamo qui, infine, soffermarci è costituito dalla mancata segnalazione da parte di Peppino del discorso diretto, più che frequentemente riportato all’interno delle sue produzioni; in quanto “atto di enunciazione diverso da quello che dà luogo alla riproduzione“ (Treccani), esso viene, all’interno del testo scritto, di norma evidenziato tramite l’impiego dei due punti < : > e delle virgolette basse doppie < « » > entro cui l’enunciato viene riportato. Peppino, tuttavia, non fa nulla di tutto ciò, presupponendo diversi elementi che aiuterebbero a comprendere il testo e lasciando fluire il discorso così come farebbe se si trovasse in un contesto orale, comportando diversi problemi nella comprensione del messaggio da parte di chi legge. Vediamo ad esempio un racconto come il seguente, estratto dalla lettera 8.2-XX indirizzata alla moglie Nina, nella quale Peppino racconta delle complicate dinamiche avvenute durante la contrattazione per la dote della moglie e che vale la pena riassumere, pena la totale incomprensione delle stesse: il galatese Peppino incontra fortuitamente il suo futuro cognato, Pietro, proveniente dal vicino paese di Tortorici, il quale gli promette in sposa la sorella, Nina, ed un appezzamento di terreno sul quale costruire una casa, proprio a Galati. Durante la parlata <<discussione>> per la dote, avvenuta a casa della futura moglie, però, Peppino si lascia prematuramente scappare la storia dell’accordo fatto in precedenza con Pietro, suscitando le invidie di Bastiana, promessa a Tano (fratello di Nina), la quale sostiene, allora, di avere anche lei diritto ad un appezzamento a Galati, nonostante i due consorti progettassero di rimanere, al contrario, a Tortorici, e giustifica la strana pretesa con la volontà di fare sposare più in là un’eventuale figlia a Galati e non a Tortorici. Pietro, allora, rimprovera Peppino per aver creato scompiglio nella famiglia di Nina, avendo nominato la questione: per punizione, non otterrà il terreno promessogli. Peppino cerca, a questo punto, di annullare la contrattazione ed il matrimonio, ma, vedendo la tristezza negli occhi della presente Nina, si convince dei sentimenti di lei per lui e risponde a Pietro di volere comunque sposare la sorella, con o senza terreno (che pure, dopo qualche tempo, otterrà rientrando nelle grazie della famiglia di lei):

Io ero dafargiaro di Barcellona / ĕ ciaveva non ri chordo seera la / Mula o era il laseno che cimancha / va un ferro cio detto che dimetterlo / Lui stava preparando una porta / di queste furne moderne Io cio detto / qui civole solo menzora Lui mia rispo= / sto a mezora a mezora passa la / giornata e di ceva che faceva poi / chattiva fi chura cholcriente ĕ non / mia messo il ferro e Iosera pe il / zapune aspettava / maper lamula o lasino che era mi / chontetavo di chammina Io schelso e d glia= / animale e alloro lo la sciato e mene / sono andato daunatro forgia che / manco farloaposta e que_llo che Tie / recalato la rasta quando Tu ai chonpiuto / novantanni e li cere il Bonanima / de Cogno Petro e li sie trova u banani= / di donturigu prizitu e m°a detto se / ciandavamo a zappa la vigna e sia / mo andati poi cho bonanima del / zinta de del Cognato Petro abiamo / fatto le parole mia detto chamora / che sei sposa no e chesei fidanzato / no ci o risposto ellora tela facio cha / pitore Io una Bona e ti anche il lo cha / per farti la Casa poi Tu se chome ciave= / vi le Capelli Bianche° chome sei sciesa / de lauto Busso mia fatto lanpressione / che ciavevi otto anni ipiu mapoi / quando ti_o visto divicino misono arragnato / per la ită il bonanima ziantate del / Cognato petro mia detto venire a / CasaT Tua e li anno palato perla chasa / Io ciedetto Pretro mida il locale e allora / la Bonanimi di Bastia[na] challora il locale / ti duna allora ci deveda uno luno / checentra voiseti challura Ioora/ adetto amiFiglia la marito a Galati / Il Bonanima di Pietro mia detto ota= / parlasti non telo do Io cioriposto ē / allora la scia le chose chome stanno / Tu ti se trovata di fronte a Me é ai fatto / il mali chore eallora cio detto Io Tua / Cogna la voglio e mela prendo min / freche de Te e il Tuo lo chale pero / poi cela dato uno mugrandi di quello / per che Io mi faceva senpre rrispetare / e quando cidovemo sposare Io chantava / ora sugnu filice assa assai chi la / Mamma ammia mavoli dari

Al fine di rendere visiva la componente dialogica, necessaria alla corretta interpretazione del testo, pare qui necessario riportare la traduzione all’interno del nostro corpo del testo e non in nota; si renderà, inoltre, utile anche una breve illustrazione della situazione:

Io ero dal fabbro [sic. furgiaru] di Barcellona e avevo non ricordo se era la mula o l’asino che gli mancava un ferro [allo zoccolo]. Gli ho detto di metterglielo. Lui stava preparando una porta per questi forni moderni e gli ho detto: «qui ci vuole solo mezz’ora». Lui mi ha risposto: «a mezz’ora, a mezz’ora, passa la giornata», e diceva che poi faceva cattiva figura con il cliente e non mi ha messo il ferro [all’asino o mula]. Io, se era per la zappa [sic. zappuni] aspettavo, ma per la mula o l’asino che era, mi accontentavo di camminare io scalzo e [non] gli animali. E allora l’ho lasciato e me ne sono andato da un altro fabbro che, manco a farlo apposta, era quello che ti ha regalato la pianta [sic. rasta] quando tu hai compiuto novant’anni. E lì c’era la buonanima del cognato Pietro e lì si trovava la buonanima di Don Turiddu Prizzitu e mi ha detto se ci andavamo a zappare la vigna e siamo andati. Poi con la buonanima (nzanitate) del cognato Pietro abbiamo fatto le parole [sic. fari i paroli, modo di dire siciliano per <<negoziare, o contrattare sulla dote, in riferimento ai matrimoni combinati>>]. Mi ha chiesto:

– «Tu per ora [sic. camòra] sei sposato?»;

– «No.»;

– «E che sei, fidanzato?»;

– «No.», gli ho risposto;

– «E allora te la faccio capitare [sic. capitàri <<trovare>>] io una buona [sic. bona <<una brava moglie>>] e ti do anche il terreno [sic. lucali <<>>] per farti la casa.». 

Poi tu, siccome avevi i capelli bianchi, appena [sic. comu] sei scesa dall’autobus, mi hai dato l’impressione che avevi otto anni in più, ma poi quando ti ho visto da vicino mi sono arrabbiato [sic. arraggiato <<indignato>>] per l’età. La buonanima del cognato Pietro mi ha detto di venire a casa tua e lì abbiamo discusso riguardo alla casa. Io ho detto loro [sottintendendo i parenti della moglie]: «Pietro mi dà il terreno [per fare la casa].».

E allora la buonanima della cognata Bastiana: «C’allùra! U locali ti duna! E allora ce ne deve dare uno l’uno.» [<<Sì, vabbè! Il terreno ti dà! Se è così, ce ne deve dare uno ciascuno.>>];

– «Che c’entra, voi siete qua.» [a Tortorici, e non a Galati];

Allora ha detto: «Io a mia figlia la faccio sposare [sic. maritàri, intr. e tr. <<sposare>>] a Galati .».

La buonanima di Pietro mi ha detto: «Dato che [sic. ota] hai parlato [prematuramente], non te lo do.» e io gli ho risposto: «e allora lascia le cose come stanno.». Tu ti sei trovata di fronte a me e ti sei rattristata [sic. fari u malucori, da malucori <<tristezza>>] e allora ho detto: «Io a tua cognata la voglio e me la prendo. Me ne frego di te e del tuo terreno.». Però poi ce ne ha dato uno, molto più grande di quello, perché io mi facevo sempre rispettare.

Il lungo processo di decodifica del dialogo qui riportato ha richiesto, a più riprese, l’intervento esegetico delle figlie dell’uomo, le quali, conoscendo la storia tante volte raccontata loro oralmente dal padre, sono state in grado di ricostruire, quantomeno, il contesto in cui esso si è svolto, pur con qualche difficoltà dovuta alla resa grafica dell’uomo. Solo così è stato possibile tracciare e riportare in forma visivamente distinguibile e comprensibile le diverse battute del dialogo. Se è infatti vero che alcune di queste battute possono essere vagamente individuate tramite le diciture che le precedono o seguono, quali  “gli ho detto“ o “mi ha risposto“, tutte le altre si presentano nel brano in una successione continua ed indistinguibile, secondo il flusso di coscienza parlato: senza una precisa segnalazione che divida l’una battuta dall’altra, è pressoché impossibile comprendere il senso del messaggio che l’uomo vuole veicolare, a meno che non si conosca già la materia trattata.

Un’ulteriore complicazione è data dall’intrecciarsi della forma dialogica su più piani, ossia da un lato, cioè, quella riportata nei dialoghi in cui i protagonisti si rivolgono l’un l’altro vicendevolmente in uno scambio di battute, dall’altro, quella presente sul piano della lettera, in cui Peppino, raccontando di un fatto che coinvolge la stessa moglie alla quale la lettera è indirizzata, non si limita al solo raccontare ma si rivolge direttamente a quest’ultima, all’interno della dimensione narrativa126.

La questione della comprensione testuale dipende dunque anche dall’impostazione grafico-visiva delle parti che sono presenti in un  testo scritto. Essa dipende, però, anche dalla corretta connessione tra gli elementi che contribuiscono a costruirlo, come vedremo nel prossimo paragrafo.

 

6.4.3. Livello contenutistico: coesione e coerenza testuale

Abbiamo visto come dal punto di vista del contenuto delle produzioni, in opposizione dunque ad un livello estremamente “di forma“, quello grafico-visivo, la testualità indaghi anche i processi alla base delle relazioni tra gli elementi inseriti nel testo: per dirlo con Lepschy (1996), la testualità è uno

studio interfrastico invece che intrafrastico. La grammatica, con le regole di sintassi, tradizionalmente si arresta entro il confine della frase. Gli elementi di una frase sono legati fra loro da rapporti articolati e complessi che si possono descrivere in maniera precisa. Ma ben poco di questo sopravvive quando si passa da una frase all’altra. L’uso dei pronomi e degli articoli è forse l’area in cui la dipendenza di una frase dall’altra è più visibile. Un testo che dicesse: Ho visto Mario. Ho parlato a Mario sarebbe strano (o quantomeno insolito, retoricamente marcato) rispetto alla forma normale: Ho visto Mario. Gli ho parlato (Lepschy 1996, 145).

Sotto il termine coesione, la linguistica testuale comprende i meccanismi grammaticali e sintattici “di cui un testo si serve per assicurare il collegamento tra le sue parti a livello superficiale“ (Simone 1990, 406), attraverso i cosiddetti coesivi che rendono le componenti di un testo ben legate fra loro; la coerenza riguarda, invece, il suo significato, ed è legata “alla reazione del destinatario, che deve valutare un certo testo chiaro e appropriato alla circostanza in cui è prodotto“ (Serianni 2003, 39).

Per quanto riguarda il primo aspetto, elementi di coesione attraverso i quali è possibile richiamare un elemento già nominato in precedenza nel testo sono: i pronomi, le sostituzioni lessicali mediante sinonimi, iperonimi o nomi generali, riformulazioni e procedimenti ellittici (cfr. Serianni 2003, 31-36). Dobbiamo constatare l’assenza di meccanismi simili nelle produzioni di Peppino, ad eccezione della presenza dei pronomi, i quali vengono generalmente impiegati da Peppino. Estrapoliamo adesso un breve testo narrativo contenuto nella lettera 8.2-X, e vediamo come Peppino affronti la questione:

e tidoco che questogi / Tuo Papá e Tua Mamma cié fatto una / sopresa Io non le aspettava per= / ché sapeva che venivano per il / Santo Natale ĕ invece anno venuti / questo gi la badtante miadetto che / cera Carolina é ivece cera Tuo / Papà é Tua Mamma127

Vediamo come il testo risulti a tratti poco coeso, in quanto, nonostante un primissimo impiego del pronome personale complemento “le“ <<li>>, riferito al vicino “Tuo Papá e Tua Mamma“, onde evitare, seppur inconsciamente, la ripetizione del sintagma poco prima nominato, Peppino conclude poi il periodo tornando a ripetere in modo ridondante “Tuo / Papà é Tua Mamma“, il quale sarebbe potuto invece essere sostituito da un pronome quale “loro“. Allo stesso modo, contribuisce a creare ridondanza la superflua ripetizione di “questogi“ e “questo gi“ <<quest’oggi>>, fenomeno certo tollerabile in un contesto parlato, e possibilmente dovuto al fatto che il parlante dia per scontato che alcune informazioni vadano perse durante la trasmissione del messaggio e tenda, così, a ripeterle; al “‘Tuo / Papà é Tua Mamma“ finale si potrebbe ancora attribuire, durante la lettura, una particolare intonazione a rendere lo stupore e la meraviglia dell’uomo nel vedersi spuntare in casa non la Carolina annunciata dalla badante, bensì la figlia e il genero che non aspettava. Questi fenomeni sarebbero, come detto, passabili in un testo orale ma non adeguati ad un testo scritto.

Altro elemento fondamentale per la coesione del testo è costituito dai connettivi, i quali si occupano di garantire i rapporti logici e sintattici tra le parti compongono il discorso (Serianni 2003, 37); tra questi rientrano le congiunzioni. Le congiunzioni dal significato logico più semplice ed immediato presenti nella produzione di Peppino, quali “e“, “ma“, “però“, “che“, “perché“ sono generalmente impiegate in modo corretto: esse non vanno, cioè, a compromettere la comunicazione. Vi sono ulteriori connettivi più complessi che Peppino sembra bene padroneggiare, come nel caso della locuzione congiuntiva “tanto che“, come vediamo nel seguente esempio: “ti scrivo questa / lettera per dirte che ti voglio / assai bene tanto che quando eri / piccola aivoluto che ti doveva portare / in chanpagna e ti offatto chonte / nta ti o porta ta“ <<ti scrivo questa lettera per dirti che ti voglio assai bene tanto che quando eri piccola hai voluto che ti dovevo portare in campagna e ti ho fatta contenta>> (8.2-V), il cui impiego iniziale potrebbe inizialmente confondere il lettore, ma leggendo attentamente si comprende che il bene dell’uomo nei confronti della figlia è ed era talmente forte da convincerlo ad accontentarla, quando lei era piccola, portandola in campagna nonostante fosse tardi e dovessero rientrare.

Allo stesso tempo, però, si segnalano soluzioni creative, quale la simpatica unione di due congiunzioni quali perciò e quindi, dallo stesso valore consecutivo o conclusivo, le quali vengono rese da Peppino come “per quindi“ o “perquindi“, da un punto di vista coesivo inseriti al posto giusto: “sono uno scienziato perquindi ŏpiaciere / discrivere una prossamitiva distudiosită / à Mia Figlia“ <<io sono uno scienziato [sapiente] e perciò ho piacere di scrivere degli insegnamenti a grandi linee a mia figlia>>; “cosi entrerà una bella bna buna / bonavelenza per quindi bisogna / sforzarzi un poco“ <<così entrerà una bella benevolenza, pertanto bisogna sforzarsi un poco>>.

A rendere generalmente poco coeso il testo di Peppino è anche la tendenza a violare la concordanza di numero tra soggetto e predicato, anche determinata dalle concordanze a senso; o quella di genere tra sostantivo e articolo, aggettivo o participio; o ancora con il mancato rispetto dell’ordine delle parole, come vediamo nel caso del frammento 8.3.2-V in cui leggiamo “cio due Genere Sono Bravi pero non tanto mi portono in chanpagna“ <<ho due generi. Sono bravi però non mi portano tanto [frequentemente] in campagna>>, esempio in cui l’inversione tra l’avverbio di quantità “tanto“ ed il sintagma verbale “mi portano“ crea nel lettore un sentimento di aspettativa per una forma di completamento all’enunciato, quale potrebbe essere “non tanto…quanto…“, creando, così, un pasticcio che compromette la veicolazione e la corretta recezione del messaggio.

6.4.4. Coesione e coerenza stilistica

Abbiamo parlato, durante la nostra trattazione teorica, di come una delle dimensioni della variazione che meno sembra essere controllata dai parlanti semicolti sia quella della diafasìa: secondo D’Achille, infatti, “il semicolto ignora in generale l’importanza della variazione diafasica ed è incapace di mantenersi su un registro medio“ (D'Achille 1994, 75); per Fresu, ancora, nonostante il tentativo di riproduzione dei modelli di italiano scritto che essi conoscono per la frequentazione scolastica, l’incapacità dei parlanti di dominare la dimensione diafasica porta solitamente ad “uno scarso controllo dei registri, specialmente quelli più ricercati“ (Fresu 2012).

Vediamo allora adesso in che modo Peppino si approcci rispetto ad una situazione comunicativa che richieda l’impiego di un livello di lingua per quanto possibile formale, che rispecchi un rapporto di distanza tra interlocutori. Prendiamo qui in esame l’unica lettera del nostro corpus inviata ad una persona estranea al nucleo familiare (8.2-XVI), la parrucchiera di fiducia, gentilmente recatasi a casa di Peppino per occuparsi della cura estetica della moglie. Al fine di concentrarci meglio sul punto sul quale vorremmo qui soffermarci, lasceremo da parte due momenti narrativi presenti nel testo (i quali sono comunque consultabili nella lettera riportata in appendice):

Carima Signora Cettina Lei ē / una brava Signora ē deper///questo / che levogliono tutti Bene perche Lei / vole Bene a laltri quindi ci dico / che ciá una buona fama di / tutte le persone questo che civole chome bene / lo sa Lei Io non mistanco mai / di dire che ē una Signora perbene / e de giustissimo. Un Fratello di / Mia Mamma midiceva chi / bono lei ē bono per Tutte mentre chi / ĕ tinto ĕ tinto per se Sestesso [segue l’inserimento di altri diversi detti e modi di dire, già analizzati durante la nostra trattazione, inseriti a supporto del fatto che bisogna essere “signori per bene“, oltre ad un consiglio datogli dal padre e qui riportato] unomo che [ha] Lire due mila / lire e le [tiene] tutte due mila per doma= / ni non ē omo si penza peroggi / e perdomani e chosidicendo / Io finisco discrivere perché sidice / ai bonintenditori poche parole chosidicendo / Io finisco discrivere perché sidice / ai bonintenditori poche parole / scusa se cisono errore e profonda / mente Ciao; e Io piú ditanto / non so fare […] Tanti Salute il Suo amico Peppino / Rocco / grazie tanto che ciha tagliato / i capelli a mia molglie Nina / sono fatti benissimo e lei stava / brava per ché siaccorgeva che / Lei lavoleva tanto bene ora / dimostra ventanni meno. / Lei cara signora Cettina / e assai brava Io cifaccio / tanti ag auguri allei ĕ alla sua Famiglia tanti saluti / suo amico Peppino Rocco e tanti / salute da mia moglie Antonina / grazie Ciao128

In un’ottica contrastiva, questa lettera dimostra il cosciente tentativo di Peppino di impiego e mantenimento di un certo stile formale, reso necessario dal fatto che la situazione comunicativa richieda una distanza tra lui ed il destinatario, una persona con la quale, non essendo in confidenza, sarebbe inappropriato esprimersi, almeno per iscritto, in modo colloquiale. L’impegno di Peppino si manifesta concretamente nello sforzo di dare del Lei alla donna e nel mantenere questa forma per tutto il testo, evidente nella resa del pronome personale di III persona singolare “Lei“, detto di cortesia, e nella conseguente coniugazione dei verbi ad esso relativi alla III persona singolare e non alla II persona singolare. È opportuno segnalare che, nonostante si possa credere che anche questo sia indicativo di tale sforzo, non bisogna qui interpretare l’inserimento del maiuscolo come un segno di riverenza, in quanto, come sappiamo, Peppino riserva lo stesso trattamento anche ai pronomi personali soggetto come “tu“, riferito a persone con le quali ha un certo rapporto di confidenza, così come ai pronomi che non richiedono formalità, per esempio “lui“, “lei“, anche nelle lettere indirizzate a componenti della famiglia e dunque di per sé più colloquiali.

In ogni caso, bisogna riconoscere a Peppino l’impegno a mantenere questo stile più alto e formale quasi per tutto il corso della lettera. In soli due casi, nel corpo del testo, egli pare perdersi: al punto delle scuse per gli eventuali errori, in cui si lascia andare ad uno “scusa“ (II persona singolare) al posto di “scusi“ (III persona singolare, forma di cortesia), e nell’impiego di una forma non utilizzata nelle lettere indirizzate ai parenti, ossia l’avverbio “profondamente“, malapropismo semantico con il quale, crediamo, Peppino abbia voluto esprimere il valore del più diffuso “sinceramente“, tipico delle formule di saluto epistolari. Tutti gli sforzi attuati in questa lettera nel rispettare la distanza formale si annullano, però, con l’accostamento della forma di saluto colloquiale “ciao“, impiegata al posto di un più formale “cordiali saluti“ o, tuttalpiù, di un “arrivederci“, all’avverbio di cui sopra, producendo il risultato: “profondamente ciao‘‚.

Ciò che pare in questa trattazione importante sottolineare non risiede, però, tanto nell’errata resa di Peppino, quanto nella capacità sia di riflessione sulla propria scrittura, sia di distinzione diafasica che l’uomo opera tra il modo di scrivere delle lettere destinate a parenti e amici, ed il modo di scrivere ad una persona estranea al contesto familiare, almeno dal punto di vista della forma. Se è, infatti, lodevole lo sforzo dell’uomo di modellare il proprio modo di esprimersi a seconda della diversa situazione comunicativa rispetto alle altre sinora analizzate, d’altro canto non possiamo ignorare che da un punto di vista testuale-pragmatico qualcosa stoni ancora: il riportare un esempio ammonitorio come “unomo che [ha] Lire due mila / lire e le [tiene] tutte due mila per doma= / ni non ē omo si penza peroggi / e perdomani“ unito al  “chosidicendo / Io finisco discrivere perché sidice / ai bonintenditori poche parole“ rende ambiguo l’effetto finale che Peppino vuole raggiungere. Sarebbe, infatti, più che lecito che egli dispensasse consigli ai membri della famiglia, raccontando anche di fatti accaduti nella sua vita, a motivare certe sue affermazioni ed inserendo certi moniti popolari; tuttavia, ad un lettore che non conoscesse il quadro caratteriale di Peppino, come la sua voglia di consigliare in quanto uomo saggio ed intelligente, potrebbe risultare quantomeno fuori luogo che egli si permetta di dare consigli circa la corretta gestione del denaro ad una persona estranea. In questo senso, Peppino sembra mancare di competenza pragmatica.

Prima di passare alla funzione pragmatica della lingua di Peppino, si segnala ancora, dal punto di vista stilistico, la sua generale tendenza di Peppino a trascrivere il proprio nome, quasi sempre accompagnato dal secondo nome e dal cognome, secondo una formula tipica dei contesti burocratici più formali, la quale stona con il contesto comunicativo in cui egli, invece, scrive le proprie produzioni, un contesto che seppur scritto è comunque rivolto, come visto nel capitolo 4, a familiari e amici. Dopo la lettura di una frase autocertificativa con ellissi del predicato come: “Io Fazio Peppino Rocco“, ci si aspetterebbero infatti quantomeno delle formule fiscali come “dichiaro…“ / “attesto…“ / “certifico…“, e non un “sono stato A / Casale Monferrato“ (8.3.4-I). Questa formalità si riscontra, tuttavia, anche lì dove il verbo viene normalmente espresso, come in “Carissima Canpagna Io Fazzio / Peppino Rocco volesse stare senpre / conte“ (8.2-XXII). In entrambi i casi, questo atteggiamento può essere inteso sia come reminiscenza di formule impiegate per la firma di documenti formali scritti, come scritte sono le lettere che Peppino produce adesso ed alle quali traspone quegli elementi, o come inconscia affermazione dell’importanza del proprio essere, con esplicito riferimento a chi è che in quel momento ha la penna in mano, chi è che scrive, rivelando, dunque, un intento pragmatico.

6.4.5. Intenzioni pragmatiche

Dopo aver descritto le principali caratteristiche formali del testo e della scrittura di Peppino, vale ora la pena interrogarsi su quali siano gli effetti che egli spera di produrre nel lettore tramite la stessa, cioè, quale sia il suo intento comunicativo tramite l’uso del testo: quale sia lo scopo pragmatico delle sue produzioni, in che modo gli elementi grammaticali, sintattici, narrativi, stilistici presenti in esse agiscano all’unisono in chiave comunicativa nell’interazione tra l’autore del testo e il lettore.

Come largamente discusso nel capitolo 4, in cui abbiamo passato in rassegna le tipologie di testo che Peppino utilizza nella sua produzione e descritto il suo modo di procedere nella scrittura e nella lettura della stessa, è chiaro come la maggior parte dei suoi brani epistolari, rivolti direttamente al destinatario al quale Peppino si appella esplicitamente rivelino un’intenzione didattica ed esemplare attraverso l’inserimento di racconti, modi di dire, proverbi a sostegno degli insegnamenti da lui elargiti a tutta la famiglia e talvolta, come nel caso della lettera analizzata nel paragrafo precedente, anche agli estranei). Ne sono prova la maggior parte delle lettere sin qui menzionate: da quella che sarebbe potuta sembrare inizialmente una riflessione su di sé, ma che è in realtà, indirizzata alla figlia maggiore, alla quale egli dà dei consigli per il buon mantenimento del rapporto coniugale e la cui attenzione viene richiamata solamente a metà testo dalla severa forma allocutiva “parlo chonte charissima / f Figlia Natalina“, in chiave conativa (8.2-VII); alla lettera alla nipote minore, a cui Peppino si appella sin dall’inizio, in cui sono dispensati suggerimenti su come affrontare al meglio le difficoltà della vita (8.2-XII);. Questi inserimenti possono essere volti a suggerire al destinatario il modo in cui comportarsi in situazioni specifiche, come nella la lettera inviata al nipote, in cui, secondo uno degli schemi riportati nel capitolo 4, Peppino prima elogia il ragazzo e poi racconta un episodio giuridico significativo per introdurre la morale finale con la quale chiude la sua lettera: “ē mai / fare testimoni farsi.“ <<e mai testimoniare il falso>> (8.2-XVIII), con tanto di punto fermo a sottolineare la serietà della questione. Talvolta, infine, i brani paiono assumere una funzione d’intrattenimento del lettore, come vediamo nella lettera indirizzata alla nipote maggiore in cui Peppino riporta, annunciandolo, un “racconto antico“ sulla comica stupidità di tre fratelli (8.2-X). È dunque evidente che Peppino scriva la maggior parte delle lettere con il chiaro intento di stabilire una relazione con il lettore, dare un supporto e guidare moralmente i destinatari nell’affrontare la vita.

Cosa accade però nelle produzioni a carattere più “personale“ o privato, in cui non è sempre esplicitamente previsto un destinatario, quali le memorie e i pensieri di Peppino? Se pensiamo alla modalità di scrittura dell’uomo, ancora descritta nel quarto capitolo, possiamo facilmente rispondere a questa domanda, in quanto sappiamo che Peppino scrive immaginando e sapendo di essere letto, e che, di conseguenza, la questione del privato sia totalmente assente nella sua produzione; non si tratta, come detto, della scrittura di un diario personale dal contenuto segreto e privato: Peppino prova, al contrario, piacere nella condivisione dei suoi scritti. Di conseguenza, anche tramite i testi contenenti delle riflessioni o quelli rientranti sotto la categoria memoriale, Peppino riflette l’intenzione di rivolgersi in modo assertivo alla famiglia, la quale viene talvolta interpellata chiaramente (e imperativamente), come vediamo nel pensiero 8.3.1-IV:

Io Peppino Rocco sono in= /teligente e quindi non ŏ / bisongno laguida dei Figli siete Voi che / avete la Guida dime Me / tanti Salute atutte due ē / ai geniri e anche a / N Nipoti che sono sichuro / mivogliono bene come Io / voglio bene allorò / Guazzie tanto / evo gio che anche i Figlie dovete / essere inteligente129

Altre volte, invece, l’indirizzarsi al lettore pare più sottile e velato, come nel frammento estratto dal pensiero 8.3.2-IV:

Io voglio andare incanpagna per / lavorare ĕ i Miei Figli non mivo= / gliono portare la Canpagna dice dammi / che tido ĕ Laria della Canpagna fa / bene alle Persone ĕ le Persone cifacia / mobene alla Canpagna. é sidice chi / vole Bene a Dio deve Rispettare I Santi / i Persone inteligente Capiscono bene / quello che misprimo a dire Io130

Qua l’intento è chiaramente quello di impietosire e far sentire indirettamente in colpa il lettore, in questo caso le figlie, dirette destinatarie del triste lamento dell’uomo, menzionate però in terza persona, al fine di farsi condurre in campagna: per raggiungere il suo scopo, egli riporta un detto popolare ed un modo di dire a sostegno della propria causa; tira, ancora, in ballo il rispetto di Dio e dei Santi, alludendo alle pecche delle due donne nei confronti degli insegnamenti divini; e gioca, infine, sulla presunta vanità intellettiva delle figlie (<<le persone intelligenti capiscono bene cosa voglio dire>>), contando sulla corretta ricezione dell’allusivo messaggio lanciato.

O ancora nel frammento 8.3.2-I, in cui leggiamo: “LaFiglia Natalina fale cose per / bene ma poi risurtono di spiacente / e mirta mi///porta in chanpagna / quando gli altri ritornono“ <<La figlia Natalina fa le cose per bene ma poi risultano essere spiacevoli e mi porta in campagna quando gli altri, invece, ritornano>>, in cui è più che evidente il rimprovero, neanche troppo dissimulato, alla donna, dovuto al fatto che lei lo porti in campagna troppo tardi rispetto a tutti gli altri che possono invece passare la giornata a lavorare la terra.

L’esempio più eclatante dell’intenzione di Peppino di spingere il lettore all’azione attraverso la parola è costituito dalla lettera indirizzata alla campagna (8.2-XXIII), già analizzata dal punto di vista morfosintattico, ma che vale la pena di riportare, almeno nella sua parte iniziale:

Cas Carissima Canpagna Io Fazzio / Peppino Rocco volesse stare senpre / conte perŏ non lo posso fare e mi / dispiace ma deva fare pacenzia / perche i Figli non mianno fatto / prendere la patente ĕ devao stare / ingrammio di Loro sei Io parto / solo appedi lagente miprendo per / stupito a Me e i Miei Figli131

L’uomo si rivolge liricamente e, soprattutto, ingegnosamente, alla sua amata campagna, personificandola e parlandole della propria amarezza per il non poterla vedere più spesso. Giocando anche qui sul senso di colpa delle figlie, ree di non avergli permesso di prendere la patente, data la pericolosità alla guida dell’uomo oramai ultraottantenne, Peppino spiega come esse siano la causa della dolorosa separazione, ed incalza dicendo che la soluzione sarebbe quella di incamminarsi da solo verso la strada per la campagna, pena, però, la derisione dell’intera famiglia. Così scrivendo, e rivolgendovisi in modo indiretto, Peppino tenta di intenerire le due donne, ponendole, auspicabilmente, nella condizione di accontentarlo nelle sue richieste, che non mancano d’essere formulate oralmente, va ben detto. Qualora questo non fosse proprio possibile, poi, Peppino intima minacciosamente anche di rivolgersi a terzi, come leggiamo in un frammento del pensiero 8.3.2-V, successivo a delle considerazioni simili a quelle viste sopra, ed effettivamente indirizzato ad un lettore, come dimostrato dal saluto finale:

e orochora devo fare debo partire apede pero Il Fatto ĕ che lagente che mivede prende per Babbo a Me ĕ tutta la Famiglia le Generere Figlie ĕ Nipote Tranni Paolo ĕ pure unpo Marichi ĕ si dice quando i Parente non tipossono Servere uno si de rivorere alle strane tanti Salute Ciao.132

Se questa lettera ed i pensieri sulla campagna dimostrano, dunque, in forma implicita il loro valore fortemente pragmatico, rivelando l’intenzione di Peppino volta ad invogliare i parenti ad aiutarlo a soddisfare i propri bisogni, cosciente d’essere letto, sorge tuttavia un dubbio rispetto alla funzione delle due lettere che Peppino indirizza, invece, esplicitamente alla moglie, la quale, come detto, non può effettivamente leggere le sue produzioni e di ciò Peppino pare essere oramai cosciente. Rievocando i ricordi di episodi del loro trascorso insieme, come nella già menzionata lettera sulla contrattazione per il matrimonio (8.2-XX), Peppino pare voler fieramente ricordare e sottolineare, non solo alla moglie, ma a chiunque legga la lettera il valore della loro unione, la quale si basa sui veri sentimenti e non sulle mere proprietà terriere a cui Peppino non badò, come visto, al momento di scegliere di sposarla.

Nella lettera 8.2-XXIV, anch’essa precedentemente analizzata, sembra invece che Peppino tenti di trovare un altro modo di avvicinarsi e comunicare con lei, facendole dei complimenti e cercando di tranquillizzarla, ma soprattutto ricordandole chi lui sia e cosa abbiano fatto di buono insieme: “Carissimoglie Antonina Tusei Bella /  ĕ Brava Io so il Tuosposo ĕ cia biamo / due Figli Belle e afizionati“ <<carissima moglie Antonina, tu sei bella e brava. Io sono il tuo sposo e abbiamo due figlie belle e [a noi] affezionate>>. La successiva evocazione di un ricordo doloroso, quale quello della perdita di un figlio, pare qui servire di supporto alle lodi che l’uomo tesse per la moglie: “Tu piŭ brava / di quanto eri non potevi essere ance / a desso parlando in Ialiano ē / se Brava aceora“ <<Tu non potevi essere più brava di quanto già non lo fossi. Anche adesso, parlando in italiano, sei brava ancora [adesso]>>; e ancora Peppino ammira la capacità della moglie di essere accondiscendente e collaborare con la badante, oltre a farsi rispettare, elemento fondamentale per Peppino (“Tu tipasuvati e Tu ti fai / rispettare“ <<tu capisci [sic. persuaderisi] e ti fai rispettare>>). Egli continua poi con le rassicurazioni alla donna: “a Te tivogliamo tutte Bene / e Tu voi Bene laltre […] Io e i Tuoi Figli tiamamo assai / propia e nello stesso te tutti i Parente e ance / la Badante“ <<A te ti vogliamo bene tutti e tu vuoi bene agli altri […] io e le tue figlie ti amiamo proprio assai, e allo stesso tempo tutti i parenti e anche la badante [te ne vuole]>>. Questa lettera si configura dunque come inconscio tentativo di recupero di una dialogicità oramai perduta con la donna, ma anche come espressione del rispetto e dell’amore che Peppino prova ancora adesso nei confronti di Nina, sentimenti forti, espressi in modo semplice e genuino, i quali l’uomo crede valga la pena di mettere per iscritto, nonostante non arriveranno a destinazione133.

Sulla complessità del tema, dovuta sia alla relativa libertà da parte dei linguisti di area germanofona nell’attribuire a questa etichetta valori spesso differenti, sia ad una questione prettamente terminologica (accanto alla Varietätenlinguistik convive, infatti, in ambito germanofono la “Variationslinguistik“ o “linguistica della variazione“), oltre che per una più approfondita disamina sugli studi condotti sulla variazione linguistica, (cfr. Sinner 2014).
Per un approfondimento sul carattere sociale dell’uso del linguaggio, cfr. Lepschy 1996, 139-143.
L‚influenza sociale sulla realtà linguistica si riflette ad esempio sia nello status attribuito dai parlanti a determinate varianti che in quello attribuito dalla società stessa a determinate varietà di lingua o lingue (Krefeld 2016, 262); sul ruolo attivo dei parlanti in quanto agenti sociali nella standardizzazione dell’italiano, come esempio di influenza sociale sulla lingua, invece, cfr. Serianni 2006 e Berruto 2007.
Non presentando alcuna differenza strutturale rispetto alla ‚lingua italiana‘ (D'Agostino 2007, 69), i dialetti presenti sul territorio italiano non devono essere considerati come “varietà locali della lingua nazionale, né tantomeno [come] deformazioni o correzioni di questa [in quanto] proprio come l’italiano letterario – costituitosi anch’esso sulla base di un dialetto (il fiorentino trecentesco) – e come le altre lingue e i dialetti romanzi, [essi] derivano dal latino volgare e hanno dunque, dal punto di vista storico-linguistico, la stessa dignità della lingua“ (D'Achille 2003, 13). La distinzione operata tra dialetto e lingua sarà allora di tipo esclusivamente sociale e dipenderà dal prestigio linguistico di cui i due sistemi godono presso i parlanti (D'Agostino 2007, 69).
Per un ampio approfondimento sulla situazione italo-romanza pre-unitaria, si rimanda qui al fondamentale “Storia linguistica dell’Italia unita“ di Tullio De Mauro (1986), oltre che a Bruni (1984, 81-172); tuttavia, vale la pena ricordare qui brevemente che “prima dell’Unità, l’italiano al di fuori della Toscana (dove lingua e dialetto sono sempre stati in rapporto di contiguità), era una lingua nota a un numero di persone alquanto ridotto [in quanto] la stragrande maggioranza della popolazione parlava […] uno dei dialetti che si erano formati nella nostra penisola dopo il crollo dell’Impero romano“ (D'Achille 2003, 23).
Uno dei principali fenomeni che portarono gli italiani ad avvicinarsi ad una lingua nazionale è certamente costituito dal processo di alfabetizzazione legato all’obbligo scolastico introdotto dalla legge Casati già nel 1859 (sebbene il tasso d’evasione all’obbligo sia rimasto molto alto almeno sino agli anni Trenta); ma a giocare un altrettanto rilevante ruolo nella diffusione della lingua nazionale furono altresì la crescente industrializzazione e l’urbanizzazione ad essa relativa, fenomeni per i quali le grandi masse contadine si spostarono dalle zone rurali alle città, provocando tra i nuovi e i vecchi cittadini l’esigenza di intendersi in una lingua comune; la successiva promozione della lingua unitaria avvenne parimenti grazie ai mezzi di comunicazione di massa quali i giornali, la radio e, a partire dagli anni Cinquanta, la televisione, “scuola di lingua e di cultura“ grazie alla quale “i ceti diseredati relegati in posizione subalterna dalla scarsa cultura […] imparano a parlare l’italiano e, con l’italiano, imparano com’è fatta la cultura dei cittadini, delle classi dominanti“ (De Mauro 1994, 128). Per un esaustivo e dettagliato approfondimento sul tema, si rimanda al sopracitato De Mauro (1986).
Non per negligenza, ma poiché il focus verte qui sul rapporto tra i due diasistemi maggiori, non affronteremo in questa sede la questione delle minoranze linguistiche presenti sul territorio italiano e delle relative altre lingue ivi parlate. Per una  descrizione sociolinguistica del complesso repertorio italiano plurilingue relativo ad antiche e nuove minoranze, si rimanda a Francescato (1993), D’Agostino (2007) e Krefeld (2016), il quale distingue in tal senso due tipologie di sociolinguistica: quella degli idiomi, la quale comprenderebbe lo studio delle lingue minoritarie e i dialetti; e quella della variazione, inerente, come vedremo, allo studio di specifiche varianti avvertite come marcate dai parlanti, e propria della varietistica (Krefeld 2016, 263).
Con la nozione di ‚repertorio‘ si intende “l’insieme delle lingue, o le varietà di una stessa lingua, e delle loro norme d’uso, impiegate in una comunità“ (D'Agostino 2007, 109); a tal proposito, Berruto definiva il repertorio linguistico italiano medio come un diasistema (lingua nazionale-dialetto) il cui rapporto (sino ad allora definito ‚diglossico, in cui alla varietà alta era rigidamente riservato l’uso scritto e formale; mentre a quella bassa, anche impiegata per la socializzazione primaria e dunque una L1, l’uso parlato informale) rifletteva una situazione di “bilinguismo endogeno a bassa distanza strutturale con dilalìa“, indicando così la compresenza di due lingue e delle loro relative varietà, non strutturalmente troppo diverse tra loro, e non più rigidamente separate rispetto all’ambito d’uso informale, ma “impiegabili nella conversazione quotidiana e con uno spazio relativamente ampio di sovrapposizione“ (Berruto 1993, 5-6).
Al glottologo Giovan Battista  Pellegrini è infatti dovuta la prima basilare quadripartizione delle varietà presenti nel repertorio italiano; essa comprendeva l‘ ‚italiano standard o comune‘, l‘ ‚italiano regionale‘, la ‚koinè dialettale o dialetto regionale‘, ed il ‚dialetto locale‘; da questa quadripartizione presero successivamente il via altri fondamentali approfondimenti ed ampliamenti sociolinguistici alla struttura del repertorio linguistico italiano, caratterizzato dalla dialettica tra italiano e dialetti delle diverse regioni italiane da un lato e la coesistenza tra le “diverse norme di realizzazione di un medesimo idioma“ dall’altro (De Mauro 1977, 124). Per un ampio commento sulle varietà italiane e sulle relative denominazioni offerte dagli studiosi dal 1960 sino al 1987, si veda Berruto (1987); per una tavola sinottica delle diverse classificazioni delle stesse, invece, si rimanda a Berruto (1993, 18;26).
Sebbene essa non goda di uno “statuto teorico autonomo, [e si configuri anzi] come ambito di lavoro orientato in senso empirico, con scopi prevalentemente descrittivi“ (Berretta 1988, 762), Holtus-Radtke sottolineano però in ogni caso la specificità della linguistica delle varietà rispetto alla sociolinguistica: a differenza della sua matrice, infatti, la linguistica delle varietà si occuperebbe di indagare e descrivere anche dei tipi di “Varietäten [,] die nicht [nur] von der Sozialen Determination der Sprache und ihrer Sprecher abhängen“ (Holtus/Radtke 1983, 16).
Come notato da Holtus-Radtke (1983), il termine ‚varietà‘ non era tra l’altro di recente coniazione: Benvenuto Terracini se ne era infatti già avanguardisticamente occupato nei suoi lavori pre-sociolinguistici sulla dialettologia nei primi anni del Novecento, sebbene questi non si concentrassero ancora sul problema della “Systematizität“ del fenomeno, né vi fosse una “fundierte Grundlegung des Varietätenbegriffs“ (Holtus/Radtke 1983, 13-14).
Relativo, dunque, sia ad un intero sistema di lingua che solo ad alcuni tratti specifici presenti all’interno dei sistemi linguistici.
I due sistemi di base sui quali, come sostiene Dardano (1994, 344), si costruisce tutto il repertorio linguistico italiano.
Sui sempre più evidenti limiti della terminologia adottata dalla tradizione germanofona risalente alla quadripartizione delle dimensioni di variazione offerta da Koch/Oesterreicher (1985; 1990), basata sui parametri di ‚immediatezza‘ (o ‚vicinanza‘) e ‚distanza‘ – oltre che sulle conseguenti implicazioni metodologiche rispetto alla linguistica percezionale ad essa connessa – si veda il contributo “Varietà ibride? Che cosa ne pensa la linguistica variazionale“ disponibile sulla piattaforma Lehre in den Digital Humanities (Krefeld 2018).
E in tal senso, reale attuazione della linguistica della parole preannunciata da Ferdinand de Saussure (sul tema, cfr. Raimondi 2009, 15-18; Krefeld 2015).
Iannàccaro spiega, infatti, che “è proprio attraverso la constatazione della variazione linguistica (di qualunque tipo) che il parlante viene a contatto con varietà diverse rispetto al proprio idioletto […] ed è indotto a rifletterci sopra“ (Iannàccaro 2015, 23).
O, nel caso specifico dei test percettivi, nel sapere linguistico dei cosiddetti ‚informanti‘, soggetti sottoposti, ad esempio, all’ascolto di stimoli uditivi registrati dai ricercatori sul campo.
Un elemento “marcato“ è dunque un elemento “provvisto di una marca che lo contraddistingue rispetto alla sua manifestazione considerata, per motivi qualitativi e/o quantitativi, come basica, o normale, o canonica“ (Ferrari 2012, 17); la proprietà di marcatezza/non marcatezza può essere applicata a tutti i livelli dell’analisi linguistica (Ferrari 2012, 17) ed è inoltre spesso messa in relazione con i principi di naturalezza elaborati dalle teorie di morfologia naturale e sintassi naturale, secondo le quali si riterranno non marcati i tratti “cognitivamente più accessibili – ossia più naturali -, che favoriscono la processabilità dell’informazione e la corrispondenza tra la percezione della realtà e la sua rappresentazione linguistica“ (Cerruti 2009, 254).
Per un approfondimento sul tema, si rimanda al volume “Perzeptive Variatätenlinguistik“, a cura di Krefeld-Pustka (2010); oltre che a Krefeld(2015).
Simone (1990) spiega che “le lingue verbali vivono in diacronia, nel senso che si modificano nel tempo […] le manifestazioni di questo mutamento [riguardano ad esempio] la dotazione di suoni di una lingua [,] i significati e le forme delle parole [,] l’organizzazione grammaticale, e così via“ (Simone 1990, 77-78).
Sulla denominazione possibilmente fuorviante di questa varietà – la nozione di “regionale“ non va infatti pensata come corrispondente all’effettiva estensione amministrativa delle regioni d’Italia – cfr. Sobrero (2012, 129-130).
Per un più chiaro approfondimento sul ruolo delle componenti della situazione comunicativa, quali i partecipanti, gli atti comunicativi, i risultati, la cosiddetta localizzazione ecc., si veda Grassi-Sobrero-Telmon (2012, 204-211).
In senso sociolinguistico, il concetto di ‚continuum‘ indica usualmente un insieme composto da un ventaglio di varietà (tra cui si distinguono una varietà alta ed una bassa, ai due poli), i cui confini, nebulosi ed indefiniti, possono sovrapporsi e dissolversi l’uno nell’altro, impedendo una precisa identificazione delle stesse, specie se contigue, da parte della sociolinguistica (Berruto 1987, 27-28); per un approfondimento sul tema, anche rispetto alle obiezioni sollevate sulle implicazioni di questa definizione, si veda Berruto (1987, 27-42).
È ragionevole credere allora che le possibili varianti di una specifica variabile siano riscontrabili ed ascrivibili a diverse dimensioni, e che vadano a costituire – insieme alle altre – quelle che Krefeld (2018) definisce come “varietà ibride“, smentendo, nello specifico, il ragionamento di Koch/Oesterreicher (1990) il cui schema prevedeva che ad ogni dimensione della variazione corrispondesse un numero definito di varietà, a loro volta composte da un preciso numero di varianti.
Entrambi caratterizzati da fenomeni epilettici dai quali la donna era afflitta sin da giovane e a causa dei quali veniva rapportata, secondo la cultura popolare salentina, ad una realtà magica. Nonostante la loro medesima natura, inoltre, la donna ne distingueva superstiziosamente e religiosamente le manifestazioni: ella raccontava infatti di avere voglia di ballare prima di una crisi di tarantismo, e di avere la tendenza a dimenarsi per terra durante le crisi epilettiche di San Donato (Rossi 1994, 80-85).
“La scrittura parla di sé insieme a qualunque altra cosa di cui parla: essa si costituisce su proprie peculiarità di codificazione dell’esperienza, di forma di rappresentazione, di lingua, di temporalità e spazialità, di costruzione dell’interlocutore“ (Apolito 1994, 13).
“La donna ha frequentato solo la prima elementare, ma è in grado di esprimere per iscritto quanto vuole comunicare; le sue lettere presentano grossolani errori di grammatica, e sono quasi totalmente sprovviste di punteggiatura“ (Rossi 1994, 79).
Circa questo termine, D’Achille precisa che l’aggettivo semicolto (successivamente adottato, come vedremo, per indicare i soggetti interessati dal fenomeno linguistico scritto dell’italiano dei semicolti) rifletteva sia una chiara differenziazione rispetto ai termini colto ed incolto, sia una maggiore specificità rispetto alla serie terminologica assieme alla quale esso sarebbe potuto essere semplicisticamente associato: semianalfabeta, semialfabeta, semincolto; secondo D’Achille, infatti, questi ultimi sarebbero stati da collocare in un gradino più in basso rispetto al semicolto propriamente detto, in quanto “[in]capaci di servirsi dello scritto [né] per usi funzionali e pratici […], [né] per fini latamente espressivi“ e, al limite, in grado di “apporre la propria firma o poco più“ (D'Achille 1994, 42-43). Accanto alla designazione di semicolto, il linguista propone invece di apporre i termini poco colto, mediocolto, o semiletterato, in ogni caso da collocare su gradini intermediamente diversi, data la differente e non rigida caratterizzazione culturale dei soggetti semicolti (D'Achille 1994, 42-43).
Per un’approfondita, diversa argomentazione, ovvero sulle debolezze dell’originaria visione unitaria dell’italiano popolare, almeno per quanto riguarda gli elementi linguistici e non contenutistici espressi in questo tipo di lingua, si rinvia almeno a Berruto (1987, 108-110).
Basti pensare che a distanza di ottant’anni, ancora tra il 1951 ed il 1955, solo il 18% della popolazione italiana impiegava l’italiano, sebbene in forma ancora artificiosa e pomposa, poco spontanea; il 20% era invece dialettofono, mentre la restante percentuale si muoveva in un limbo linguistico diglossico, impiegando la lingua italiana in situazioni estremamente formali ed il dialetto nella quotidianità, data la sua “efficacia espressiva“ (De Mauro 1994, 117).
La necessità delle masse di “mettere da parte i rispettivi dialetti, cominciando ad usare, per intendersi, gli elementi di lingua italiana a loro noti“ si manifesta inoltre con le prime associazioni di lavoratori postunitarie e con lo svilupparsi dei primi canti sindacali e di protesta, come ad esempio il Canto degli scariolanti: questi erano infatti caratterizzati da un vocabolario semplice, in cui affioravano anche degli elementi dialettali, unito ad una certa “oscurità sintattica“, e, a livello grafico, ad un abuso delle maiuscole; altro elemento evidenziato dal linguista è la “brusca rottura stilistica“ o l’alternanza tra forme popolari e forme auliche, allora ancora persistenti a causa della forte influenza dell’opera lirica ancora sentita, il cui influsso viene paragonato da De Mauro con quello esercitato dalla televisione negli anni Cinquanta e Sessanta (De Mauro 1994, 118-121).
Il primo conflitto mondiale costrinse i soldati a misurarsi con una dimensione del tutto nuova: come spiega Glauco Sanga, infatti, i contadini non avevano mai avuto sino ad allora la necessità di avvicinarsi allo strumento culturale della scrittura, in quanto “la diffusione dell’italiano avveniva per via orale o, al più, attraverso la lettura [e] tradizionalmente in paese c’era sempre qualcuno delegato a scrivere: il parroco o il segretario comunale o un paesano colto(Sanga 1984, 173) tutt’altra situazione si presentava invece in trincea, in cui i contadini ormai soldati dovevano necessariamente confrontarsi a tu per tu con penna e carta. Tra le motivazioni che spinsero alla scrittura, ricordiamo infatti la necessità di rassicurare le famiglie sulle proprie condizioni di salute, oltre che la possibilità, nel caso dei prigionieri di guerra, di “allontanare l’incubo del rientro al fronte e della possibile morte in trincea; [di] esprimere un’autentica sofferenza psichica; [di] sottrarsi allo stigma della follia e all’istituzione, fortemente autoritaria, del manicomio; [di] tentare di rimediare a una situazione angosciante con la richiesta (nelle lettere al direttore) di ottenere la documentazione necessaria per un sicuro rientro a casa“ (Testa 2014, 101).
Come spiega Cortellazzo, una rivalutazione delle testimonianze “dal basso“ poté avvenire solamente nel secondo dopoguerra, con una rinnovata volontà politica d’opposizione alla “cultura egemonica fra le due guerre [la quale] non tollerava che, accanto alla cronaca ufficiale, linda nella forma, spesso retorica e falsa, trovasse posto la cronaca degli altri, dei protagonisti sottoposti e, infine, sopportanti il maggior peso di ogni avventura sociale“ (Cortellazzo 1972, 19).
Come spiega Lorenzo Renzi nell’introduzione alla raccolta epistolare di Leo Spitzer, questo lavoro era sino ad allora sconosciuto ai più ed i “i filologi e gli studiosi di italiano popolare ne parlavano, ma più per sentito dire che per conoscenza diretta“ (Renzi 1976, VII)).
Diversi sono i capitoli dedicati nell’opera ai dissimulati tentativi di richiesta di provviste e viveri da parte dei prigionieri a parenti e familiari. Se le lamentele sulle misere condizioni dei prigionieri avessero raggiunto l’Italia, questo avrebbe potuto costituire un ulteriore possibile movente per la continuazione dell’offensiva nel conflitto mondiale, e i prigionieri ne erano consapevoli. Sugli originali espedienti linguistici da questi ultimi adoperati per descrivere il concetto di “fame“ al fine di sfuggire all’occhio pressante della censura austriaca, si veda inoltre l’importante lavoro linguistico del filologo Spitzer sulla lingua popolare, Die Umschreibungen des Hungers im Italienischen[Le circonlocuzioni impiegate per esprimere la fame in italiano] (supplemento alla “Zeitschrift fuer romanische Philologie“, Niemeyer, Halle 1920), pubblicato un anno prima delle Lettere, lavoro in cui lo studioso mette in luce le diverse colorite strategie linguistiche impiegate per aggirare l’ostacolo della censura, il cui sguardo si era “acuito per le lamentele causate dalla fame“ e aveva comportato un “raffinamento dei metodi d’indagine impiegati“ dai censori (Spitzer 1976, 10).
Facciamo qui riferimento a tre atteggiamenti linguistici riguardanti l’alternanza del codice tra italiano e dialetto, possibili in un contesto bilingue qual era e qual è tuttora quello italiano: il code-switching o commutazione di codice, il code-mixing o enunciato mistilingue, e il tag-switching anche conosciuto come commutazione extrafrasale (D'Agostino 2007, 144; D'Achille 2003, 179). Il code-switching, ossia il passaggio funzionale da un idioma ad un altro nello stesso enunciato, viene operato consapevolmente dal parlante in base alla situazione comunicativa in cui egli si trova ed è altresì condizionato da motivazioni sociali e “identitarie“: esso dipende, infatti, sia dal prestigio sociale che lo standard riveste nella situazione comunicativa rispetto al dialetto, percepito come varietà diastraticamente “bassa“ (D'Agostino 2007, 118), sia dalla forza identitaria delle diverse varietà, in questo caso di quella dialettale, come fattore attivo di riconoscimento dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale e linguistico (D'Agostino 2007, 118); nel caso delle lettere analizzate da Spitzer, però, l’impiego del dialetto assume spesso il valore di “codice dell’intimità“ dovuto alla necessità di sfuggire agli occhi attenti della pressante censura operata dai censori sulle missive (Spitzer 1976, 107). Il code-mixing, ovvero il mescolamento non funzionale di più idiomi all’interno di una stessa frase, è, al contrario, un fenomeno non intenzionale, dovuto alle incertezze del parlante dialettofono e in particolare alla sua approssimativa conoscenza della lingua italiana (D'Achille 2003, 179). Il tag-switching, invece, si caratterizza per l’inserimento di elementi isolati quali interiezioni, riempitivi ecc. all’interno dell’enunciato (si pensi, ad esempio, alla funzione ludica del dialetto espletata tramite l’inserimento di questi ultimi elementi nella comunicazione colloquiale, specie giovanile).
È bene, tuttavia, sottolineare che per questioni legate alla censura, lo stesso Spitzer non fornì informazioni sugli scriventi, di cui non si conoscono certo i nomi, ma neppure l’età, né l’effettivo grado d’istruzione (si noti, inoltre, che non tutte le lettere raccolte dal linguista presentano lo stesso grado di competenza linguistica: alcuni mittenti risultano essere nettamente più colti di altri, o per meglio dire, meno “incolti“ di altri, nonostante lo sforzo dello studioso di creare un corpus il più possibile omogeneo a livello socio-culturale); in base al contesto, nondimeno, è spesso possibile rintracciare alcuni indizi che aiutino, pur limitatamente, a ricomporre il puzzle diastratico dello scrivente.
Qui De Mauro faceva sarcasticamente riferimento all’azione soffocante del “greve rullo dell’italiano scolastico“ (De Mauro 1994, 134), che a poco servì – a suo avviso – nell’educazione al “pieno e libero possesso della lingua italiana“, e che invece, “per la debolezza delle sue strutture, anzitutto, poi per l’impreparazione linguistica del personale insegnante […] ha svolto un’azione di indebolimento dei dialetti [esercitando] un’azione di repressione del parlato piuttosto che di addestramento all’uso e scritto e parlato e colloquiale e formale della lingua“ (De Mauro 1994, 136).
Come spiega Berruto, anche Tatiana Alisova si era per esempio già occupata nel 1965 della struttura della frase relativa del cosiddetto “italiano popolare“ sovrapponendo, tuttavia, questa definizione alla dimensione parlata e colloquiale della lingua, e creando così una prima ambiguità tra la definizione di “italiano popolare“ e quella di “italiano parlato colloquiale“ (Berruto 1987, 105).
Oltre a Lettere di una tarantata (1970) di Annabella Rossi, infatti, si ricordano, ad esempio, il romanzo autobiografico Una donna di Ragusa (1957), di Maria Occhipinti, donna siciliana di umili origini; Quaderno (1958), diario di Alfonso Muscillo, usciere di una biblioteca romana; il Diario della grande guerra (1961) di Francesco Giuliani, pastore abruzzese. Per un ulteriore approfondimento sui testi semicolti pubblicati in questo periodo e su quelli presi in esame dagli studiosi, si rimanda a Sobrero (1975, 108, note 5 e 6); D’Achille (D'Achille 1994, 43-45, note 18-24; 28).
Le difficili circostanze storiche presenti nella storia linguistica italiana hanno influito, secondo Fresu (2016), sulla tipologia testuale in cui i testi semicolti si sono sviluppati nel tempo, tra cui si annoverano: “testimonianze provenienti dal o indirizzate al fronte“, sotto forma di lettere, ma anche nelle urgenti espressioni del sé riscontrabili in diari, memorie, taccuini di guerra; anche il fenomeno migratorio ha prodotto diverse produzioni epistolari, oltre che produzioni su cartolina o lettere indirizzate dai migranti ai giornali (Fresu 2016, 335-336). Per un approfondimento sugli ulteriori generi testuali interessati dalla scrittura dei semicolti, cfr. Fresu (2016, 335-339).
Radtke fa qui però notare come questa definizione non sia sufficientemente caratterizzante o esclusiva di questa varietà, in quanto parimenti applicabile all’italiano regionale (Radtke 1979, 44).
“In questa chiave possono quindi essere letti anche i pesanti tratti di interferenza del substrato dialettale che svolgono il ruolo della lingua materna nella varietà di apprendimento“ (D'Agostino 2007, 127).
Si parla di fossilizzazione quando la conoscenza della lingua di un individuo si blocca ad un determinato stadio senza possibilità di progressione (D'Agostino 2007, 83).
D’Agostino fa inoltre notare come questa varietà non sia allo stesso modo accostabile neanche all’italiano tipico delle produzioni dei bambini appartenenti alle prime classi delle elementari, nonostante esse presentino sovente caratteristiche simili a quelle dei testi semicolti. Parrebbe infatti poco ragionevole far rientrare queste ultime sotto l’etichetta dell’italiano popolare, in quanto gli specifici tratti di cui sopra vengono presto superati dai bambini nelle successive fasi di apprendimento scolastico, cosa che, come detto, non avviene nei parlanti di italiano popolare (D'Agostino 2007, 127).
Tra le fonti andate poi a creare il corpus analizzato da Cortellazzo vi erano: lettere di soldati e prigionieri di guerra durante il primo conflitto mondiale, caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale; lettere di altra provenienza quali quelle di emigrati friulani, o esempi come quello di Anna del Salento; memorie autobiografiche di diversa provenienza, quali ad esempio memorie di contadini lucani, di sottoproletari lombardi, o di banditi siciliani; testimonianze di diversa natura e di diversa provenienza, quali documenti di soldati processati durante la prima guerra mondiale,  o di emigrati a Milano; compiti scolastici di diversa provenienza (Cortellazzo 1972, 19-20)
Oltre a suggerire l’idea di “una varietà sovraindividuale“ (Krefeld 2016, 267).
Con la nozione di diglossia (Ferguson 1959) si intende la compresenza su un determinato territorio linguistico di due sistemi di lingua ai quali la comunità di parlanti attribuisce un diverso prestigio sociale, tale per cui uno dei due idiomi sarà considerato come varietà ‚alta‘ e di maggiore prestigio; mentre l’altro verrà connotato come varietà bassa, più informale e non adatta a contesti “alti“. È importante notare che i contesti d’uso dei due idiomi saranno rigidamente separati: alla varietà alta spetteranno i contesti formali, mentre quella bassa sarà impiegata per domini ordinari, propri della vita quotidiana (D'Agostino 2007, 77-78). Come visto in capitolo 3, però, la situazione italiana non è più ascrivibile a questo concetto: si parla oggi infatti di dilalìa ossia una condizione in cui i contesti d’uso delle due varietà A e B sono mutati: in un contesto dilalico quale quello odierno, infatti, entrambi gli idiomi, dunque sia quello “alto“ che quello “basso“, possono essere impiegati in contesti informali e colloquiali (D'Agostino 2007, 79).
Anche i due studiosi notavano, nella loro analisi, la forte influenza del dialetto su questa varietà, ed individuavano le maggiori interferenze tra parlato e scritto sul piano grafico, il cui uso non ha “riscontro sul piano del parlato, ma è insegnato a scuola“ (Sobrero 1975, 110): si segnalava dunque la presenza di doppie o scempie, là dove non sarebbero state previste, così come la poca padronanza delle regole relative all’interpunzione, agli accenti, agli apostrofi, all’uso di lettere maiuscole o minuscole, oltre che una difficoltà nella percezione dello spazio tra le parole, con i conseguenti fenomeni di agglutinazione o deglutinazione (in contro); dal punto di vista morfosintattico, frequente era l’errato accordo tra soggetto e verbo o tra sostantivo e aggettivo, dipeso dal fatto che lo scrivente si basasse su concordanze ad sensum (Sobrero 1975, 113), e ancora pleonasmi nell’uso dei pronomi (alla mamma le era piaciuta) così come l’uso di gli nelle forme oblique del femminile e del plurale, l’uso del ‚che polivalente‘, la coordinazione preferita alla subordinazione (Sobrero 1975, 113). Il  ‚modello‘ scolastico avrebbe operato meno, invece, a livello lessicale il quale, però, essendo connesso alla nuova realtà del mondo sociale, del lavoro, della televisione, portava ad una riduzione della presenza di termini dialettali; allorquando ve ne fossero stati, Sobrero parlava di una “consapevole scelta linguistica“ facendo riferimento a fenomeni rapportabili al bilinguismo, quali il commutamento di codice, oggi conosciuto come code-switching (Sobrero 1975, 115).
“Se si badasse solo alla morfosintassi, l’italiano popolare sarebbe fondamentalmente unitario“ (Berruto 1987, 109, nota 7), in quanto livello di analisi in generale meno soggetto alla differenziazione da area ad area (Berruto 1987, 109). Su questa tesi non concorda Mengaldo (1994) il quale, prendendo ad esempio l’accusativo preposizionale preceduto da a, spiega che tale fenomeno sarà sempre e solo fenomeno meridionale e mai settentrionale, se non eventualmente per motivi altri dall’affioramento dialettale. Per questa ed altre tesi contro l’unitarietà morfosintattica dell’italiano popolare, cfr. Mengaldo (1994, 109-110).
Bisogna altresì tenere presente, come ricorda Cerruti (2009), che ‚‚l’univocità di risultati a cui conduce in certi casi l’azione del sistema dialettale in regioni differenti è tale o perché, semplicemente, sono consimili le forme o le strutture di sostrato trasposte in italiano o perché l’effetto del contatto tra due codici è analogo in quanto rispondente allo stesso tipo di meccanismi“ (Cerruti 2009, 35); i tratti sovraregionali dell’italiano popolare, invece, possono essere riconducibili o a tratti tipici della testualità del parlato, o appunto a “tendenze e possibilità panromanze latenti in italiano“, tratti che facilmente si riflettono anche nell’italiano regionale (Cerruti 2009, 35), come ad esempio quello della ’semplificazione‘,  un meccanismo linguistico che avviene quando “a una certa forma (o struttura) di una lingua si contrappone una forma o una struttura più semplice, cioè più facile da realizzare, meno complessa, che può sostituire la prima senza che si perdano le informazioni essenziali contenute nel messaggio“ (Sobrero/Miglietta 2011, 175).
“Statisticamente, l’insieme di tratti che caratterizza in maniera più o meno netta e ‚densa‘ questa varietà tende a presentarsi presso parlanti diseredati culturalmente, presso le cosiddette classi subalterne scarsamente scolarizzate e poco/non colte [;] il carattere di ’sociale‘ è insomma netto se lo inquadriamo nei parametri di classificazione di varietà della lingua […], ma, come del resto è da supporre in generale per quanto riguarda le relazioni tra varietà di lingua e utenti, non è affatto deterministico“ (Berruto 1983, 87).
Non è del tutto facile distinguere con chiarezza “ciò che è popolare da ciò che è meramente informale e colloquiale“ (Lepschy 1989, 30); dal punto di vista morfologico e sintattico, ad esempio, sono diversi i tratti che le due varietà condividono: concordanze devianti, ridondanze pronominali, impiego del che polivalente, concordanze ad sensum; topicalizzazioni e riprese enfatiche (Berruto 1983, 93).
Parliamo qui dunque di eventuali tratti appartenenti a varietà diatopiche e diastratiche marcati anche diafasicamente, e non delle varietà in toto, le quali difficilmente possono “rappresentare esse stesse varietà marcate in diafasia“ (Cerruti 2009, 35).
Incertezza continuamente “soggetta a pressioni d’ogni tipo: dall’italiano aulico ai linguaggi settoriali al dialetto“ (Sanga 1984, 15). Sulla funzione dell’incertezza della norma, si noti, inoltre, come questa contribuisca “alla formazione di un uso instabile e fluttuante, al cui interno si vanno comunque delineando delle cristallizzazioni (sempre soggette a possibili regressioni) che, per ampiezza di diffusione, tendono ad imporsi agli italiani regionali ( e di qui allo standard)“; secondo Sanga, e successivamente Berruto, l’italiano popolare risulta come il “maggiore centro di innovazione linguistica della lingua italiana“.
Si rimanda qui al modello delle varietà di italiano proposto da Sabatini (1985), in cui si propone un italiano standard in opposizione all‘italiano comune, così come la coppia italiano regionale delle classi istruite e italiano regionale delle classi popolari (o semplicemente italiano popolare). Una simile suddivisione varrebbe inoltre anche per il sistema linguistico dialettale, nel quale si riconoscerebbero un dialetto regionale/provinciale ed un dialetto locale (Sabatini 1985).
Berruto propone inoltre di vedere all’interno dell’italiano popolare stesso una “piccola gamma di sottovarietà“, facendo distinzione tra un italiano popolare ‚basso‘ e un italiano popolare ‚medio‘, meno marcato e con minori interferenze dialettali (Berruto 1987, 114-115).
Usi in cui “vengono specialmente in primo piano tratti che in una corrispondente formulazione orale sarebbero del tutto inosservati, anzi invisibili“ (Berruto 2014, 280).
L’italiano popolare orale si caratterizza manifestamente nella pronuncia regionale “marcata verso il basso“ (Sobrero/Miglietta 2011, 101), ma anche per le false partenze, per le frequenti riformulazioni, per i generali cambi di progettazione nell’organizzazione testuale con le conseguenti correzioni e ripetizioni, e ancora, per i passaggi dal discorso diretto all’indiretto e per l’uso improprio delle forme al congiuntivo e al condizionale, oltre che per gli anacoluti e le topicalizzazioni; come ancora indicato da Sobrero-Miglietta, dal punto di vista morfologico, esso è caratterizzato dalle concordanze a senso e dalle ridondanze pronominali (tratti, come visto, spesso presenti nell’italiano colloquiale), ma anche da semplificazioni nominali e verbali, scambi di preposizione ecc; il lessico, invece, è ricco di termini generici (affare, cosa, coso, roba), ed è forte la tendenza ad inserire nel discorso espressioni e termini appartenenti alla sfera della burocrazia o termini aulici e tecnici, finendo però per storpiarli sul piano del significante, e risultando nei cosiddetti malapropismi, come vedremo nel capitolo 6 (Sobrero/Miglietta 2011, 100-101). Tutti questi fenomeni tipici dell’oralità si rivelano importanti per la nostra trattazione in quanto coerentemente trasposti nello scritto (Sobrero/Miglietta 2011, 100).
Sulla questione della possibile collocazione temporale dell“’Ur-italiano popolare“ e sulla nascita delle prime scritture semicolte propriamente dette rispetto alla normalizzazione grammaticale bembiana Cinquecentesca e pre-cinquecentesca, oltre che sulla separazione tra scritture proprie della varietà “alta“ e scritture riconducibili alla varietà “medio-bassa“, si vedano i critici lavori di Berruto (1987, 112-113) e Testa (2014, 21-24), oltre che il fondamentale lavoro di D’Achille (1994, 49-52; 57-65) ed i lavori di Valenti riguardanti questa varietà nel contesto cinquecentesco specificatamente siciliano (Valenti 2015, 533-542). A tal proposito, data la cospicua presenza di una parte dei tratti sub-standard nell’italiano popolare, concordemente con Bruni, Berruto sostiene che l’italiano popolare abbia offerto “una gamma di possibilità presente nell’italiano degli inizi, poi esclusa dalla codificazione bembiana della norma letteraria [e ricomparsa] con vigore quando una massa prima inesistente di parlanti non colti si è appropriata di una varietà di italiano“ (Berruto 1987, 113).
Dall‘Appendix Probi, una lista contenente 227 “errori di lingua“ evidentemente ben radicati nell’ambiente romano del primo secolo, che il grammatico Marco Valerio Probo tentò di correggere, al Satiricon di Petronio, testo contenente la nota Cena di Trimalchione, passaggio rappresentativo della compresenza di diversi stili impiegati dall’autore per distinguere socialmente i propri personaggi e volutamente rivelatore di una lingua “altra“, non rientrante nelle categorie normative imposte dal latino classico, fino ad arrivare all‘Itinerarium Egeriae, testo autobiografico ben lontano dal latino classico e improntato sul parlato dell’autrice, la pellegrina romana Egeria (Bruni 1984, 175-189).
Sulle drammatiche dinamiche che mossero gli scriventi semicolti alla scrittura durante la prima guerra mondiale, cfr. (Fresu 2015).
Cogliamo qui l’occasione per una dovuta precisazione sulle modalità di traduzione adottate nella nostra trattazione: le traduzioni da noi proposte vogliono anzitutto essere strumento per la globale comprensione semantica dei testi analizzati. Nonostante si sia tentato, infatti, in un primo momento, di mantenere almeno una certa aderenza morfologica e sintattica al testo originale, si è reso subito chiaro come ciò avrebbe inevitabilmente portato ad incomprensioni e malintesi, già presenti negli originali, anche all’interno delle traduzioni stesse. Di conseguenza, si è scelto di tradurre le intere lettere ed i frammenti presi in esame rendendoli il più possibile coesi e coerenti, laddove possibile, ai fini del nostro lavoro. Nostre sono anche le traduzioni in italiano dei singoli termini dialettali riportati nelle traduzioni, eccetto dove diversamente specificato; e a tal proposito, è doveroso ricordare che siamo consapevoli del fatto che altri studiosi, specie se di origine siciliana e provenienti da zone dell’isola diverse rispetto alla nostra, potrebbero riscontrare delle incongruenze (fonetiche, morfologiche, lessicali) tra la varietà qui riportata e la varietà da loro stessi parlata. È quindi fondamentale ribadire che i termini dialettali siciliani riportati nell’analisi sotto la voce “sic.“ non hanno la pretesa di essere riconosciuti come rappresentativi di un ipotetico siciliano standard: essi sono forme e termini facenti invece parte della varietà di siciliano parlata nel paese di Galati Mamertino, alla quale ci rifacciamo.
Sono aspetti questi che ben conosciamo, in quanto a noi raccontati in prima persona più e più volte nel corso degli anni.
Da diversi anni, la moglie di Peppino è a letto, a causa della demenza senile. Ella non parla, né pare recepire le parole dei familiari. Ciononostante, Peppino le porta ogni giorno un fiore raccolto nel giardino di casa, parlandole e rassicurandola sul bene che le vuole.
<<Siccome sono una persona che vuole sempre lavorare, scrivo ancora e mi piace tanto e per questo non mi non voglio smettere di scrivere, e così passa il tempo senza che ce ne si accorga, se no mi potrei mettere a dormire [il pomeriggio], però poi la notte non dormirei. Ed è per questo che non voglio dormire durante la bella giornata, e poi ve lo leggerò, questo bello scritto>>.
E ancora, durante i quotidiani colloqui con la famiglia, Peppino declama di essere, metaforicamente parlando, un professore, tanto è il suo sapere.
Sebbene le scuse per la propria scrittura siano presenti nella produzione di Peppino, abbiamo notato come queste vadano nel tempo via via scemando, rivelando la sicurezza dell’uomo, sviluppatasi con l’esercizio della stessa, nei confronti del testo scritto.
È qui inoltre interessante notare come, durante la lettura ad alta voce delle lettere e dei pensieri scritti, se da un lato Peppino legge effettivamente quanto trascritto, dall’altro va un po‘ a memoria, iniziando a pronunciare le prime sillabe, saltando alcuni caratteri o direttamente alcune parole, ma completando ugualmente la frase ed il pensiero ricordando quanto scritto, in quanto gli episodi narrati da Peppino nel nostro corpus costituiscono in gran parte una sorta di repertorio di eventi e narrazioni che l’uomo ha sempre condiviso oralmente con le figlie e la famiglia nel corso della sua vita. Avendo usufruito „in anteprima“ delle eventuali spiegazioni fornite da Peppino sulle proprie produzioni, le figlie dell’uomo hanno potuto aiutarci a sciogliere alcuni punti per noi di difficile comprensione o generalmente oscuri.
Data la distanza fisica che intercorre tra chi scrive e Peppino, non è stato possibile inoltrare il questionario di persona a Peppino; esso è stato bensì inviato alle figlie dell’uomo, le quali si sono occupate di raccogliere ed inviarci la risposta. Anche a motivo di ciò, non è stato possibile seguire passaggio per passaggio il processo di risposta al questionario, che non potremo perciò descrivere nel dettaglio.
<<Io Sono Nato a Galati Mamertino nel 1931 e sono nato il 24 e mi hanno dichiarato [all’anagrafe] il 25. Io ho fatto solo la terza elementare e avevo circa 9 o 10 anni, e poi a 14 o 15 mi sono fatto la scuola serale e [il maestro] ci faceva fare anche le lettere per la fidanzata. Io a 16 anni sono andato a zappare [sic. zappuliare] il grano e poi io, per evitare di venire a Galati sono rimasto ad aiutare le mie zie a Troina. E Io ho fatto sempre il contadino, come i miei cari genitori, tranne quando ho fatto il militare a Casale Monferrato e poi sono andato ad Alessandria. C’è stato un soldato che mi ha chiesto: «Fazio, ma tu come hai imparato a parlare italiano?» e Io gli ho detto: «Così come mi parlano, io rispondo. Se no, se io parlassi loro come [parlo] nel mio paese nessuno mi potrebbe capire». E poi quando sono tornato a  casa, dopo dieci mesi, mi rallegravo di parlare in italiano e adesso posso parlare con tutti come mi piace. E quando scrivevo a casa, scrivevo in italiano e io quando nella busta mettevo cinquecento lire, la mia cara mamma era analfabeta e correva per aprire la busta e mio padre, che sapeva scrivere e leggere, le diceva: «perché corri se non sai leggere?». Il mio caro papà ha trovato tre soldi e si è comprato il quaderno e con un solo soldo una matita [sic. lapis] e se n’è andato a scuola e il suo caro papà ha detto [parlando con il maestro]: «a mio figlio non c’è bisogno che gli insegni [le varie cose che si insegnano a] scuola. Gli deve solo insegnare [sic. imparari] l’educazione». E allora il mio caro padre ha pensato: «ma allora io che cosa sono? Un animale?» e allora, da allora [sic. di tannu] in avanti è diventato un bravo bambino e poi anche una bravissima persona e diceva che le persone brave possono stare in tutte le società civili. Io parlo come mi piace però, quanto allo scrivere non si può scrivere in dialetto: si deve scrivere per forza in italiano>>.
Utilizzando le domande del questionario come una griglia da cui partire per costruire una produzione, eludendo, però, diverse delle stesse.
Pur non preoccupandosi però di spedirle: esse sono infatti serenamente conservate nei quaderni e solo qualora si presenti l’occasione, vengono mostrate agli interessati. In ogni caso, però, bisogna notare come Peppino non ponga mai all’interlocutore delle domande che prevedano delle risposte dal destinatario, come a segnalare, a livello inconscio, di sapere già che questi non riceverà la lettera.
A proposito del genere epistolare, Fresu (2008) ritiene, inoltre, che la “dialogicità a distanza“, tratto proprio del genere della lettera vada a giustificare “i cedimenti verso una pianificazione arcorata all’oralità e sfumata in toni familiari e informali“, nelle scritture semicolte.
A tal proposito si segnala la presenza di cosiddetti “doppioni“ nei nuclei tematici, come accade nelle produzioni di Tommaso Bordonaro, siciliano semicolto classe 1909, emigrato in America; come spiega Amenta (2012, 737), con il passare del tempo, Bordonaro pare avere dimenticato di avere scritto ed inviato le proprie produzioni al professore che ne curava le edizioni, creando, così, nuove produzioni sugli stessi temi già trattati. Anche le produzioni di Peppino presentano, come detto, più volte gli stessi argomenti; tuttavia, pare che questo sia non tanto da ricondurre alla memoria dell’uomo, che pure certamente potrebbe giocare dei brutti scherzi; quanto all’importanza che per lui queste tematiche rivestono. Per quanto riguarda, al contrario, l’inserimento di veri e propri doppioni di racconti, canzoni e poesie, simili nella forma oltre che nel contenuto, è lì possibile che ciò sia da attribuire al fatto che l’uomo non ricordi di averle già “immortalate“ per iscritto. In ogni caso, la presenza dei doppioni ha talvolta reso più leggero il processo di ricostruzione e traduzione dei testi, spesso a tratti criptici.
Non deve qui stupire la convergenza tra tali discipline, apparentemente lontane tra loro: come fa notare Spina, infatti, uno dei tanti elementi di contatto tra le due sarebbe costituito dal fatto che entrambe si occupano dello “studio di diverse modalità di comunicazione che, in entrambi i casi, avvengono mediante l’uso di codici“ (codifica e decodifica del codice nel passaggio tra parlante-mittente e parlante-ricevente, nel caso delle lingue naturali; codifica in “linguaggio macchina“ delle istruzioni ricevute dall’utente, e codifica della risposta della macchina in un linguaggio comprensibile per l’utente, nel caso degli elaboratori elettronici) per la trasmissione dell’informazione (Spina 2001, 9). Strumenti e metodi visceralmente propri dell’informatica vengono inoltre serenamente utilizzati dalla linguistica: uno su tutti, il parametro della composizione/scomposizione tramite il quale essa opera la segmentazione del continuum linguistico, parametro caro all’informatica che è “per sua natura, basata su tecnologie che permettono di atomizzare oggetti diversi (testi scritti e parlati, immagini fisse e in movimento, suoni), [ e ] di scomporli nella catena di zero e di uno su cui si fonda il codice binario che essa utilizza“ (Ivi: 10). Per un approfondimento sugli ulteriori punti di convergenza e punti di scambio tra linguistica ed informatica, si veda Spina (2001, 9-12).
Come spiega Spina (2001, 7)l’esponenziale evoluzione delle tecnologie informatiche ha permesso di passare dai primi rudimentali “calcolatori elettronici“ diffusisi negli anni Quaranta-Cinquanta ai personal computer sviluppati trent’anni dopo, passando da un iniziale dominio contestualmente ristretto quale quello prettamente scientifico (si pesi a discipline basate sul calcolo quali matematica e fisica) ad una funzionalità eclettica (general purpose) che potesse aprire a diverse operazioni, tra cui spiccano, tra le altre, la conservazione ed il trattamento di informazioni attraverso lo strumento dell‘elaboratore elettronico. Spina individua inoltre le origini teoriche della disciplina nelle menti di filosofi e matematici quali Leibniz, Boole, Pascal e Russell, in quanto lo sviluppo delle nuove tecnologie sarebbe derivato proprio dall’intersezione tra studi di logica e studi matematici (Spina 2001, 8).
Per un approfondimento diacronico sullo sviluppo delle iniziative più rilevanti nel campo degli studi linguistici assistiti da computer, cfr. Spina (2001, 17-29).
È interessante vedere come l’ambito linguistico in cui la linguistica dei corpora trova maggiore applicazione sia quello lessicografico, ambito in cui è possibile operare un celere confronto digitale dei dati; nel caso della sintassi, al contrario, l’analisi linguistica del dato testuale fornito dal corpus non è sufficiente, in quanto è necessario contestualizzare le connessioni sintattiche tramite l’aggiunta di ulteriori informazioni ad opera dell’uomo stesso (Spina 2001).
A tal proposito è bene sottolineare la presenza di alcune annotazioni trascritte dalle curatrici del materiale sulle copie originali delle produzioni dell’uomo, circa la data di stesura delle stesse (prevedendo di spedirle o tentando, talvolta, di ordinarle cronologicamente), o sotto forma di delucidazioni rispetto al pensiero – o alla scrittura stessa – a tratti poco cristallino del padre, nella previsione, nel caso delle lettere, di farle leggere con più scorrevolezza agli interessati. Si potrebbe pensare che queste vadano a confondersi con le note apposte dallo stesso scrivente e a compromettere il lavoro di ricerca, ma in realtà gli interventi da parte di terzi sull’originale si distinguono sensibilmente dalle annotazioni dello stesso Peppino: le due tipologie di correzione o intervento sono infatti visibilmente diverse e ben riconoscibili per calligrafia, colore dell’inchiostro e carattere impiegato, in quanto Peppino non sembra conoscere altro carattere che il corsivo minuscolo, mentre le figlie impiegano di norma lo stampatello maiuscolo o, al limite, un corsivo minuscolo con una calligrafia comunque inequivocabilmente non attribuibile a Peppino.
In tal senso si è fatto riferimento alla metodologia di raggruppamento per tema seguita da Leo Spitzer nell’edizione delle Lettere di prigionieri di guerra italiani (1915-1918), nella quale il linguista analizzò le specificità delle lettere raccolte in 23 diversi capitoli a cui aveva dedicato una specifica tematica ricorrente nelle produzioni: la lontananza, l’attesa della pace, le richieste di denaro e vestiario sono solo alcuni dei diversi temi che più si riproponevano nello scambio epistolare contenuto in questa edizione.
Si è qui reso necessario impiegare una tripla barra obliqua al fine di distinguerla sia dalla singola barra obliqua da noi regolarmente inserita nei testi riportati per segnalare il tornare a capo di Peppino, sia e dall’effettivo inserimento operato dall’uomo di una sbarra obliqua nel riportare una data, in 8.3.1-VIII: “11//12//2182018“.
La lettera che presenta questo fenomeno è difatti quella che aveva più possibilità di essere realmente recapitata al destinatario o, se non propriamente recapitata, quantomeno mostrata alla diretta interessata: stiamo parlando della lettera 8.2-XVI, indirizzata alla parrucchiera del paese. La produzione potrebbe avere subito delle lievi correzioni non solo per volontà di Peppino durante la sua personale rilettura, ma da parte delle figlie. Di conseguenza pare qui corretto sottolineare la possibile non piena attendibilità della specifica correzione effettuata tramite < / >.
Tramite il lavoro di lettura, trascrizione e analisi eseguito in questi mesi sulle produzioni di Peppino, si è avuto modo di sviluppare una comprensione del modus operandi dell’uomo rispetto alla scrittura e alla sistematicità delle soluzioni da lui adottate. Questo ragionamento non vuole dunque avere la deterministica pretesa di conoscere come egli si sarebbe potuto approcciare alla risoluzione del problema dell’inserimento, tra due parole precedentemente univerbate quali sono avoluto <<hai voluto>>, del grafema i dimenticato durante la stesura. È tuttavia opportuno ritenere, data la frequente occorrenza del fenomeno, che in casi come questo Peppino avrebbe inserito il grafema tra le due parole, non curandosi di separarle, come da noi riportato durante la trascrizione su DH.
<<Gli uomini si dividono in quattro categorie: uomini, mezzi uomini, ominicchi e quaquaraquà. Mi diceva la buonanima di mio papà, ’nzanitàte: “un uomo vale per quello che sa. Se non sa niente, che cos’è? Un ceppo [sic. zuccu] di castagno [sic. castagnera]“; e mio padrino mi diceva: “chi è buono, è buono per tutti. Chi è cattivo [sic. tintu], è cattivo per se stesso“; era fratello di mia mamma: questa è la mia intelligenza!>>.
Anche in tal senso, in questo specifico esempio, sembra poco probabile che questi siano stati inseriti dalle figlie, le quali godono di un’istruzione tale da consentire loro di poter distinguere i corretti usi della punteggiatura; siccome, inoltre, questo passaggio non interessa terzi se non Peppino stesso, escludiamo che sia stato “maneggiato“ e corretto dalle figlie dell’uomo, come invece avviene nel biglietto d’auguri per la laurea della nipote Alessia o in altre lettere, le quali, essendo rivolte ad altri, sono spesso state riviste dalle due donne, al fine di rendere, come più volte detto, la lettura più scorrevole.
A proposito dell’impiego della virgola, si segnalano la lettera 8.2-XXII in cui essa separa, in un’elencazione di nomi, un elemento dall’altro, per poi assumere infine il valore del punto fermo a chiusura della frase e ad apertura della successiva: “la strata che saliva della turre labiamo / ziaia quattro Io, Calogero Conte, la / Signora Gina mmanna e famoso / chognato Antonino pinitto, u bonanima / di nostro fratello Antonino mia detto / stai atento“ <<la strada che saliva dalla torre l’abbiamo percorsa per la prima volta [sic. nsaiata, da nsaiari, lett. provarsi un abito nuovo, cfr.  Giarrizzo (1989, 232)] in quattro: io, Calogero Conte, la Signora Gina mmanna e il famoso cognato Antonino pinitto. La buonanima di nostro fratello Antonino mi ha detto “stai attento!“>>; ed il pensiero 8.3.1-VIII, in cui le virgole compaiono – sebbene non sistematicamente – con la stessa funzione nell’elenco dei fratelli e delle sorelle di Peppino: “eravamo quatro / fratelli e tresorelle. Langhiu / si grande si chiamava Concettina / laseconda Giuseppina poi cera / un fratello che si chiamava / Salvatore, Io, poi Antonino, / Lina é Paolino.“.
Segnalando la citazione di parole pronunciate da terzi tramite l’inserimento dei due punti, Peppino si porrebbe su un diverso livello del discorso narrativo, rivelando la propria competenza metacomunicativa. Tuttavia, vista l’assenza di questo atteggiamento nella restante produzione dell’uomo, dove, al contrario, come vedremo, egli passa con nonchalance da un piano all’altro, dobbiamo concludere che questo segno d’interpunzione sia stato inserito dalle figlie.
Sul perché del doppio inserimento della barra obliqua nella nostra trascrizione delle lettere, cfr. il capitolo 5.3.2 della nostra trattazione.
Non è men che meno pensabile che Peppino sia a conoscenza dell’opposizione tra le varianti standard /e/ ed /ε/, così come quella tra /o/ ed /ɔ/, e che tenti di riprodurla, a motivo della difficoltà regionale di distinzione tra l’opposizione di queste ultime due varianti aperte e chiuse, le quali nel sistema vocalico siciliano vengono neutralizzate, lasciando spazio alle varianti aperte /ε/ ed /ɔ/ (D'Achille 2003, 184) .
Ricordiamo, infatti, che durante il periodo militare trascorso a Casale Monferrato, all’età di vent’anni circa, Peppino soleva inviare delle lettere ai genitori rimasti in Sicilia.
Non prenderemo qui in esame il primissimo testo scritto di Peppino risalente al 2016, il biglietto d’auguri per la laurea della nipote Alessia, in quanto, presentando una notevole quantità di punti fermi estranei alle successive produzioni, è grande la possibilità che il testo ottenuto sia stato il risultato finale di suggerimenti, correzioni e manipolazioni apportate, per l’occasione, dalle figlie di Peppino allo scheletro del testo da lui elaborato.
Sulla particolare resa grafica della parola, cfr. § 5.3.4.
Cfr., a tal proposito, Ruffino (2001, 77-78).
A tal proposito è interessante notare, come spiega Spitzer, che i termini geografici estranei alla coscienza popolare vengono storpiati sul piano del significante, venendo paretimologicamente “assimilati alla meglio a parole italiane note, anche se prive di senso“ (Spitzer 1976, 38), costituendo una sorta di malapropismo, come vedremo in 5.5; la parola “Jugoslavia“ doveva certamente rientrare tra la serie di termini “esotici“ di difficile assimilazione e riproduzione per una persona dalla bassa istruzione quale Peppino, come dimostra altresì un secondo inserimento della stessa, “avicusgrauria“ (8.3.4-III), nel quale la storpiatura è ancora più evidente.
Parlando della nascita della seconda figlia in 8.2-XXIV, ad esempio, di fondamentale importanza per l’uomo paiono le parole: “Dottora“ <<dottori>>; allo Spetale“ <<all’ospedale>>; Lasignora Lucia Lavitrice“ <<la signora Lucia, la levatrice>> ossia la donna che assisteva la moglie durante la gravidanza; l’aggettivo Poveretta“, espresso compassionevolmente nei riguardi della moglie sofferente per i dolori del parto e alla quale è indirizzata la lettera.
<<Spero che la presente lettera venga a trovare a te. Io ti voglio tanto bene come tu vuoi bene a me e alla nonna, che ti vuole bene. Tu sei intelligente […] mi ricordo quando, ’nsanitate, è venuta a mancare la tua nonna Nunzia, gli hai chiesto alla nonna Nina se si era dispiaciuta e lei ti ha risposto “certo, gioia“. Adesso ti salutiamo, io e la nonna che anche lei ti vuole tanto bene e ci dico presto ci vieni a trovare tu. Ti abbracciamo baciandoti>>.
Le maiuscole sono, infine, impiegate pressoché regolarmente per i nomi dei mesi dell’anno, che di norma dovrebbero essere scritti in minuscolo: “gennaio Febraio Marzo A Prili Magio Giugno Luglio A_gosto Settenbre Ottobre Novebre ĕ Dicenbre: “, 8.3.2-V; e con le lingue (parola anch’essa riportata in maiuscolo), come si nota nel frammento precedentemente analizzato (8.3.1-VII): “Inglse Tedec Te Tedesco è Fra / è Francese Italiano / Inglese Tedesco é Francese? / Mia Nipote Parla queste / l Lio Lingue“.
Allo stesso modo, si potrebbe ipotizzare una certa difficoltà nella resa grafica della lettera <j> riscontrata nella scrittura della parola “Jugoslavia“; in questo caso, però, sembra più plausibile credere che Peppino non fosse a conoscenza di come si scrivesse questa parola e che la conoscesse avendola sentita nominare a qualcuno, possibilmente durante il suo soggiorno militare in Piemonte; non avendo dunque idea dell’implicazione della <j> nella denominazione di questa nazione, Peppino la riporta graficamente realizzando quello che si caratterizza come un malapropismo, come precedentemente accennato e come vedremo più approfonditamente nel capitolo 6.3
Per quanto riguarda il nesso <gh> – presente in “ora voghio finire“, ora voglio finire (8.2-IV) – si nota come esso rifletta l’interferenza dialettale del verbo sic. vogghiu, il quale viene trasposto all’italiano voglio, e come la forma risultante rifletta una commistione di elementi da entrambe le lingue. Il nesso viene altresì trascritto in “Langhiu / si grande“, la più grande (8.3.1-VIII): è evidente l’interferenza con il siciliano a cchiù ranni, forma che qui appare, però, ipercorretta o risultante da un’assimilazione della <g> ad una possibile nasale velare sonora /ŋ/ che la precede.
È bene qui precisare, però, che non si tratta di un fenomeno sistematico nel corpus: più volte Peppino va a capo dimenticando di segnalare il procedimento apponendo il segno ( = ), come, ad esempio, in in 8.2-XX: “cimancha / va un ferro“ <<gli mancava un ferro [allo zoccolo]>>.
Si notano, inoltre, dei casi in cui l’uomo va a capo, magari rispettando anche la corretta divisione in sillabe e segnalando l’evento tramite il segno ( = ), dimenticando, però, di scrivere nel rigo successivo la sillaba da riportare, come in 8.3.3-II: “e mipia= / tanto“ <<e mi piace tanto>>; o in 8.2-XX: “u banani= / di donturigu“ <<la buonanima di Don Turiddu>>; fenomeno di distrazione dovuto forse alla fretta e alla foga di Peppino nello scrivere.
Per rendere maggiormente l’idea, essa potrebbe ricordare il suono che in inglese viene reso con la vocale breve /ɪ/, di will, rabbit, Latin ecc.
<<Cara Alessia, ti scrivo queste due parole per dirti che sto bene di salute e così spero che stai bene anche tu e i tuoi amici e ti voglio tanto bene come tu vuoi bene a me. Ti saluto e ti dico che mentre dormivo, ti ho sognato, ho sognato che mi abbracciavi. Non posso scordarmi mai di te, tu sei una ragazza tanto intelligente, ed è per questo che mi vuoi tanto bene, perché perché vedi che io ti voglio assai bene. Non mi prolungo più. Ciao, a presto. Intanto allungo ancora: la mamma è uscita fuori con la zia. I saluti ti mando di nuovo, ciao, e ti saluta anche papà>>.
Con il passare del tempo e con l’esercizio della scrittura, tuttavia, Peppino pare acquisire maggiore confidenza con la forma “tuoi“, che appare trascritta correttamente più volte nel corpus, sebbene non sia esente da problemi relativi all’accordo, come vediamo in una lettera scritta nel 2018 alla nipote minore, in cui si legge: “timeriti tanto ririspetto di tutte Noi le Nonne ele Tuoigenitore“, <<ti meriti tanto rispetto (da parte) di tutti noi, (dal)le nonne e (da)i tuoi genitori>> (8.2-XIX); in questo passo notiamo ancora la tendenza di Peppino a rendere la -i finale indistinta con -e (tutte Noi, <<tutti noi>>; genitore, <<genitori>>) e ad accordare le desinenze dei relativi articoli impiegati sulla base di queste (leTuoigenitore).
<<Carissima nipote Alessia, ti scrivo questa lettera per dirti che sto bene di salute e così spero che stai bene anche tu e ti dico che la nonna sta anche bene e io dico che certamente ti vuole vedere. A lei piacerebbe che tu le stessi sempre vicino e ti dico che quest’oggi tuo papà e tua mamma ci hanno fatto una sorpresa. Io non li aspettavo perché sapevo che sarebbero venuti per il santo Natale e invece sono venuti quest’oggi! La badante mi ha detto che c’era Carolina e invece c’erano tuo papà e tua mamma. Non mi prolungo tanto e ti dico ciao a presto, tantissimi saluti e baci. Ciao. E adesso, carissima nipote Alessia, ti scrivo un racconto antico, per esempio, tanto per farti capire: c’erano tre fratelli, come, per esempio, nella nostra campagna a Milè (noi la chiamiamo Milè, però sulla mappa si chiama Liazzo) e lavoravano, questi tre fratelli. È passato un signore, ha salutato ed ha continuato ad andare avanti per la via e siccome [i tre fratelli] erano indietro di senno [stupidi], si stavano impasticciando [azzuffando], dicendo: “Quel signore ha salutato me!“. Tutti [e tre] dicevano così. Uno dei tre ha detto: “Andiamogli a domandare a chi ha salutato“, allora quel signore ha risposto: “Ho salutato quello [più] fesso che c’è“ e domandava loro a chi fosse successa la cosa più stupida [per decretarlo]!>>.
Di particolare interesse in quanto presente nell’unica lettera in cui Peppino si rivolge dando del Lei al destinatario, esprimendo intenzionalmente una dovuta distanza diafasica: “levogliono tutti Bene perche Lei / vole Bene a laltri quindi quindi ci dico / che ciá una buona fama“ <<Le vogliono tutti bene perché Lei vuole bene agli altri, quindi Le dico che Lei ha una buona reputazione>> (8.2-XVI).
Un fenomeno similare potrebbe essere riscontrato anche nella formula di chiusura della lettera, in cui Peppino scrive Tantismi Salute é Baci“ <<tantissimi saluti e baci>>, fenomeno che potrebbe all’apparenza essere letto come esempio di un mancato accordo tra un aggettivo ed un sostantivo, fenomeno tipico dell’italiano dei semicolti (Mocciaro 1991, 35): se infatti la desinenza plurale di tantissimi è correttamente accordata con quella di baci,  essa non lo è rispetto a quella di saluti, sostantivo che nella resa di Peppino presenta una -e finale. In questo caso, però, pare probabile che lo scambio tra il sostantivo femminile singolare salute e il maschile singolare saluto (al plurale saluti) sia causato dalla riproduzione su carta del continuum fonico parlato, il quale prevedrebbe un’assimilazione tra la -i siciliana indistinta in fine di parola (che, come detto poc’anzi, facilmente assume in ogni caso nella produzione dell’uomo il carattere di una -e finale) e la congiunzione “e“, risultando nella desinenza -e del sostantivo saluti.
Si noti, inoltre, che questa frase resa all’imperfetto in siciliano può anche essere tradotta in italiano con il passato prossimo: quel signore ha salutato me.
Se si volesse creare una frase marcata in siciliano, basterebbe infatti spostare il verbo dall’ultima posizione; nel nostro caso, una frase sintatticamente marcata sarebbe: quel signore salutava a mìa; o ancora: a mìa salutava quel signore.
Sebbene si segnali la presenza di alcune frasi secondarie introdotte da “che“: “ti scrivo perdirti che sto Bene di Salute“; “spero che stai Bene Anche Tu“; “Tidi_cho chela Nonna sta Anche bene“ ecc.
Si noti, tra l’altro, l’impiego di una struttura analitica come “indietro di senno“ anziché di una sintetica come “stupidi“, fenomeno caratteristico degli italiano dei semicolti (D'Achille 1994, 73).
<<Carissima campagna, io Fazio Peppino Rocco vorrei stare sempre con te però non lo posso fare e mi dispiace ma devo essere paziente perché le (mie) figlie non mi hanno fatto prendere la patente e devo dipendere da loro [sic. grammizio, termine arcaico riportato in Giarrizzo (1989, 169) come grammizzi‘, loc. avv. <<molte grazie>> dal fr. grand merci <<mille grazie>>; da questa locuzione avverbiale proverrebbe il modo di dire stari in grammizio ri carcunu, ossia, <<essere alla mercè di qualcuno, dipendere dal suo volere ed essere dunque in obbligo di ringraziarlo per la sua benevolenza]. Se io me ne vado [sic. pàrtiri] da solo, a piedi, la gente mi prende per stupido, a me e alle mie figlie. Però io una volta buona sono andato (da solo). Prima che arrivassi in campagna, c’era un signore con sua moglie; mi è arrivato da dietro e mi ha detto: “Dove va?“ – “Vado a raccogliere[sic. cògghiri] un po‘ di fichi“ – “E le sue figlie?“ – “Loro, quando vedono che non ci sono più gli stivali [sic. scarpuna], lo capiscono che sono andato in campagna“. Infatti mia figlia Antonietta se l’è pensata e mi è venuta a prendere. Io sono Fazio Peppino Rocco, Galati Mamertino 29 Dicembre 2018>>.
Un altro esempio dello stesso fenomeno è offerto nella prima lettera: “Luei cipiacesse che stavi Tu senpre / vicino a Lui“, sebbene esso sia riferito alla moglie, dunque coniugato alla III persona singolare.
Facciamo qui riferimento alla specifica varietà galatese, in quanto, se è vero che la costruzione dialettale siciliana più diffusa per esprimere il periodo ipotetico dell’irrealtà è quella, come detto sopra, del cong. imperf. + cong. imperf., è altrettanto vero che in altre zone dell’isola esistono forme al condizionale come vurrìa <<vorrei>> e farrìa <<farei>> (cfr. Ruffino 2001, 62), diffuse ad esempio a Messina e, per continuità spaziale, nella vicina Calabria (cfr. Krefeld 2019).
Si noti che questo costrutto assume sì primariamente il valore della forma modale italiana dovere+infinito, ma esso può anche assumere il valore di futuro: a differenza dell’italiano, infatti, il sistema verbale siciliano non presenta delle forme sintetiche per esprimere il futuro, il quale viene invece reso o tramite l’impiego del presente indicativo, o, appunto, tramite l’impiego di forme perifrastiche quali il costrutto àiu a + infinito, spesso seguito da un complemento di tempo come dumani <<domani>> o doppudumani, <<dopodomani>> (per un ulteriore approfondimento, cfr. almeno Ruffino 2001, 62).
Si noti qui l’interferenza, nella resa del sostantivo italiano figlie, con il sostantivo sic. fìgghi, valido ad indicare sia il maschile che il femminile.
Frase in cui spicca, per altro, l’uso anch’esso tipico del parlato informale del dativo etico, indicante un particolare coinvolgimento anche affettivo del parlante nell’azione espressa dal verbo, in questo caso tramite l’inserimento del pronome “mi“ (cfr. Cignetti 2010).
<<[…] Io mi ricordo quando mi prendevi le scarpe, non lo dimentico mai, e quando eravamo in campagna, [quando] ti ho detto di porgermi l’accetta [sic. ccittuni] [e appena me l’hai] porto sei andato a trovare la mamma. Io, siccome non ti trovavo più, sono sceso dall’albero pensando che andavi nella cisterna [sic. gèbbia], mentre invece eri con la mamma e me ne sono ritornato sull’albero, l’accetta me la sono messa alla cintura [sic. cintu] e così è come andò la faccenda. Io mi ricordo anche che passavi nel canaletto dell’acqua [sic. saia] […]>>.
<<Io ricordo quando tu dicevi alla buonanima della mamma (nzanitate): “mamma, ’sta botola [sic. catarrattu] aperta con la tenda abbassata è pericolosa per la figlia Natalina!“ (o per la figlia Antonietta, non me lo ricordo) finché la figlia Natalina non è caduta di sotto, in cantina [sic. suttano]. Tu eri incinta e dallo spavento hai abortito e allora io, che lavoravo alla casa di sopra di Lina, qualcuno mi è venuto a chiamare che dovevamo andare all’ospedale a Sant’Agata di Militello e mi ha accompagnato la buonanima di Gino Serio (nzanitate) e con noi c’era la signora levatrice. L’autista le ha detto: “a quantu ama iri? [a quanto dobbiamo andare?]“ e la signora Lucia, la levatrice, ha risposto: “volare!“ e allora l’autista ci ha detto “mettete un fazzoletto fuori dallo sportello“ [lett. “uscite fuori un fazzoletto fuori dallo sportello“] e ricordo che i dottori pensavano che avessi abortito apposta e tu, poveretta, gridavi dal dolore>>.
Cortellazzo spiega, infatti, come questo italiano si riveli “del tutto inadatto ad esprimere concetti estranei alla minuta, anche se ricca, esperienza popolare. Quando lo fa, diventa goffo e confuso, dovendo ricorrere ad un complesso terminologico non suo, ma calato dall’alto e male assimilato“ (Cortellazzo 1972, 16-17).
Dal verbo abburtìri, derivato dal sostantivo sic. abbortu, dal lat. abortus, intempestivus ortus (Pasqualino 1987).
<<Carissima Alessia, ti scrivo questa letterina per dirti che sto bene di salute e così spero che stai bene anche tu e ti dico che sei un’ottima nipote, tanto intelligente, ed è per questo che mi ha dato tanto piacere che ti sei laureata, anche a tuo papà e a tua mamma, e hai dato tanto piacere anche alla zia Antonietta. “La persona vale per quello che sa“, diceva (nzanitate) il tuo bisnonno[sic. catananno], “un uomo vale per quello che sa, se non sa niente è un ceppo di castagno“. E tu non hai bisogno che te lo dica io quello che devi fare. E speriamo che trovi un lavoro che ti piace a te. A me, personalmente, il lavoro mi è piaciuto sempre, da quando prendevo 15 lire al giorno e avevo circa dodici, tredici anni e mietevo il fieno nel comune di Troina. La prima volta che ho mietuto il grano, mi sono fatto un piccolo taglio [sic. tagliatina] al dito e il principale mi ha detto: “cammina“ [sic. camìna, ‚vieni‘]; mi ha portato a mettere le balle di fieno [sic. zegne] a dieci a dieci, io ce la facevo perché erano piccole. I grandi prendevano ottanta lire al giorno, mentre a me me ne ha date cento lire, per dieci giorni. Io non vedevo l’ora di finire per vedere com’era la piana che c’era più avanti. Mentre avevamo l’asinella incinta del cavallo, si ritornava. Siamo andati a Bronte. Per la strada ci incontrarono tre, quattro signorine che cantavano “vincere, vincere! In cielo, in terra, in mare. Le nostre labbra giurano: vincere o morire!“ e il tuo bisnonno ha detto “Figlie di buona mamma!“, perché erano imponenti. Mentre tu, carissima Alessia, hai tanto studiato e ti trovi bene. Tantissimi auguri. Se non ci penso io, chi ci deve pensare! Tuo papà con l’età è diventato bravo, tanti saluti. Tuo nonno  Peppino Rocco Fazio 24-11 2018>>
Non doveva certo essere uno spettacolo usuale per un uomo siciliano di paese vedere delle giovani ragazze cantare allegramente per la strada, tanto più se da sole.
<<20.18. Carissima Nipotina Marika, io sono tuo nonno Peppino Rocco Fazio. Ti scrivo questa letterina per dirti che sei bravissima, anche [se] sei stata un pochettino sfortunata precedentemente, quando vivevi a San Marco, perché pagavate tanti soldi per l’affitto e non potevi comprare tutto il necessario, mentre ora, per grazia di Dio, certamente ti senti meglio perché la fortuna, credo, che si è svegliata e hai preso un po‘ di respiro, per grazia di Dio. E questo, come immagini, a me mi fa il più grande piacere e adesso, parlando in italiano: tu certamente ti dai da fare certamente per quello che puoi e ti dico che si dice “chi vole fare una buona anzianità, deve fare un po‘ di propri sforzi“ e si dice che la persona vale per quello che sa, se non sa fare niente, diceva il tuo bisnonno, che cosa è? Un ceppo di castagno. E con le buone maniere devi dire alla tua mamma di mettere qualcosa da parte (soldi, intendo), perché le devi dire “al più presto mi devo sposare“; “le cose lunghe“, dicevano gli antichi, “diventano serpenti“ e tua mamma certamente questo lo deve fare presente a tuo papà e comunque spero che mi sono spiegato per bene, non mi dilungo tanto perché si dice “a buoni intenditori, poche parole“ ciao, tuo affezionatissimo nonno>>.
Il discorso s’ingarbuglia ulteriormente nella lettera 8.2-XXI, in cui Peppino cerca di incoraggiare il destinatario della stessa riportando un dialogo avvenuto anni addietro con il padre, nel quale, come in un meccanismo a scatola, è presente un ulteriore discorso diretto pronunciato in un altro meta-racconto inserito nel dialogo di primo livello. Anche e soprattutto in questo caso, di fondamentale aiuto si sono rivelate le figlie dell’uomo, oltre che la lettura ad alta voce, la quale ha talvolta permesso di ricostruire (tramite il tentativo di dare una certa intonazione alle parole) il senso dei dialoghi.
<<E io ti dico che quest’oggi tuo papà e tua mamma ci hanno fatto una sorpresa. Io non li aspettavo perché sapevo che venivano per il santo Natale e invece sono venuti quest’oggi. La badante mi ha detto che c’era Carolina e invece c’era tuo papà e tua mamma>>.
<<Carissima Signora Cettina, Lei è una brava signora ed è per questo che Le vogliono bene tutti, perché lei vuole bene agli altri. E Le dico che ha una buona reputazione presso tutte le persone. È questo che ci vuole, come Lei ben sa. Io non mi stanco mai di dire che è una signora per bene ed è giustissimo. Un fratello di mia mamma mi diceva: «chi è buono, è buono per tutti; chi è cattivo, è cattivo per se stesso» […] un uomo che ha due mila lire e le tiene tutte e due per domani, non è un uomo: bisogna essere previdenti per oggi e per domani. Così dicendo io finisco di scrivere perché si dice “ai buoni intenditori, poche parole“. Scusi se ci sono errori e profondamente ciao. E io più di tanto non so fare […] tanti saluti, il Suo amico Peppino Rocco. Grazie tante per avere tagliato i capelli a mia moglie Nina. Sono fatti benissimo e lei stava [buona] perché si accorgeva che Lei le voleva tanto bene. Ora dimostra vent’anni di meno. Lei, cara Signora Cettina, è assai brava. Io Le faccio tanti auguri, a Lei e alla sua famiglia. Tanti saluti, suo amico Peppino Rocco e tanti saluti da mia moglie Antonina. Grazie, ciao>>.
<<Io Peppino Rocco sono intelligente e quindi non ho bisogno della guida delle figlie. Siete voi che avete la guida da me. Tanti saluti a tutte e due, ai generi e anche ai nipoti che sono sicuro mi voglio bene come io voglio bene a loro. Grazie tante. E voglio che anche [voi] figlie siate intelligenti>>.
<<Io voglio andare in campagna per lavorare e i miei figli non mi [ci] vogliono portare. La campagna dice “dammi che ti do“ e l’aria della campagna fa bene alle persone e le persone fanno bene alla campagna. E si dice chi vuole bene a Dio deve rispettare i Santi. Le persone intelligenti capiscono bene quello che mi sforzo di dire io>>.
<<Carissima campagna, io Fazio Peppino Rocco vorrei stare sempre con te però non lo posso fare e mi dispiace ma devo essere paziente perché le (mie) figlie non mi hanno fatto prendere la patente e devo dipendere da loro [sic. grammizio, termine arcaico riportato in Giarrizzo (1989, 169) come grammizzi‘, loc. avv. <<molte grazie>> dal fr. grand merci <<mille grazie>>; da questa locuzione avverbiale proverrebbe il modo di dire stari in grammizio ri carcunu, ossia, <<essere alla mercè di qualcuno, dipendere dal suo volere ed essere dunque in obbligo di ringraziarlo per la sua benevolenza]. Se io me ne vado [sic. pàrtiri] da solo, a piedi, la gente mi prende per stupido, a me e alle mie figlie>>.
<<E ora che devo fare? Devo andarmene a piedi. Però il fatto è che la gente che mi vede prende per babbo a me e a tutta la famiglia: i generi, le figlie e i nipoti, tranne Paolo e pure un po‘ Marika. E si dice: “quando i parenti non possono soddisfare le proprie richieste [sic. serviri], bisogna rivolgersi agli estranei“. Tanti saluti Ciao>>.
Sebbene questo comportamento non sia stato sinora direttamente osservato, si potrebbe anche ipotizzare che Peppino abbia creato questi contenuti per la donna nell’intenzione di condividerli oralmente con lei, così come è solito fare con le sue altre produzioni lette ad alta voce di fronte al pubblico familiare.

7. Conclusioni

La nostra trattazione si proponeva di analizzare in modo esemplare la produzione di Peppino Rocco Fazio da noi raccolta in un corpus consultabile online, al fine di comprendere se questa potesse essere assimilabile alle scritture semicolte di cui i linguisti, come ampiamente discusso, si sono occupati e si occupano tuttora da settant’anni a questa parte.

Sebbene la nostra analisi linguistica non sia stata effettuata in forma comparatistica con queste ultime e non abbia avuto neanche la pretesa di risultare totalmente esaustiva, si è potuto constatare, sia dal punto di vista fonetico-grafico, che morfosintattico, così come anche dal punto di vista lessicale, come vi siano delle similarità tra le forme marcate riportate dagli studiosi nelle loro trattazioni sull’italiano dei semicolti e quelle rilevate durante l’analisi nella produzione di Peppino. Anche nel suo caso, infatti, la dimensione orale e quella scrittoria si intrecciano, dando origine a produzioni che egli si propone di scrivere in italiano (come anche testimoniato dalle risposte date al questionario autovalutativo propostogli) e che, essendo connotate da una spiccata componente orale, – dimensione nella quale egli impiega solitamente il dialetto – sono intrise di elementi dialettali dovuti alle interferenze con il siciliano, in quella che abbiamo potuto interpretare come una forma di continuità ibrida tra le due lingue. Ciononostante, ancora da un punto di vista strettamente linguistico, si sono similmente riscontrate delle differenze, seppur minime, tra gli scritti semicolti di cui sopra e gli scritti di Peppino: a motivo della sua tensione all’autocorrezione dovuta ad una riflessione sulla lingua, che egli opera sia durante il processo di scrittura, sia durante la rilettura dei testi prodotti, infatti, l’ammontare delle forme marcate rispetto allo standard è risultato, nei suoi scritti, in una certa misura minore rispetto a quanto ci si potesse aspettare di fronte ad un testo semicolto. 

Allo stesso tempo, abbiamo visto nella nostra trattazione come le produzioni di Peppino si distanzino dall’etichetta dell’italiano dei semicolti, soprattutto per quanto riguarda le motivazioni che lo hanno spinto a mettere nero su bianco i propri ricordi ed i racconti relativi al proprio vissuto, oltre che per gli effetti pragmatici che egli vuole suscitare nel lettore tramite questi: le ragioni che potevano muovere, ad esempio, i prigionieri di guerra, di cui il linguista Leo Spitzer si occupò ampiamente, riflettevano la drammatica urgenza della comunicazione tra mittente e destinatario, oltre che la necessità concreta di fornire delle informazioni ai propri cari circa la propria condizione di reclusione durante la prima guerra mondiale; in Peppino non riscontriamo, ovviamente, nulla di tutto ciò, in quanto il benessere storico nel quale egli vive giustifica la relativa serenità con la quale egli si approccia alla scrittura rispetto alle esigenze dei propri omonimi spitzeriani.

Egli non scrive dunque per necessità comparabili a quelle vissute dai semicolti di Spitzer. Le sue produzioni si configurano, invece, anzitutto come un tentativo di evasione dalla quotidianità in cui la sua vita attuale si svolge, un’esistenza tediosa per l’uomo, che non si confà allo stile di vita che egli soleva condurre un tempo, dinamica e vivace, all’insegna del duro ma soddisfacente lavoro nei campi. Con il tempo, però, la scrittura assume anche un carattere dilettevole: Peppino è mosso dal piacere dello scrivere, il quale si collega ancora alla gioia ch’egli trae, come visto nel capitolo 4, dalla condivisione dei propri scritti con i familiari e, più in generale, con un potenziale lettore, nella volontà di essere riconosciuto ed ammirato per le proprie elevate capacità scrittorie di cui è estremamente fiero. Questo aspetto si ricollega direttamente al carattere brioso dell’uomo, che, come visto, tende spesso nei propri scritti, in modo particolaree nei pensieri, all’autocelebrazione, riportando una buona immagine di sé da cui gli altri possano prendere esempio. Al piacere della scrittura, si unisce, infatti, anche l’intenzione didattica dell’uomo, in quanto, come si evince dalla nostra analisi, Peppino si propone di insegnare e fornire dei consigli sulla vita ai propri cari, ergendosi a saggio padre di famiglia, tramite le proprie produzioni. In ultima istanza, abbiamo riscontrato come Peppino sembri impiegare la scrittura anche per altri fini pragmatici, ossia come mezzo per convincere il lettore ad assecondarlo nelle proprie richieste, quali quella ricorrente indiretta di essere accompagnato in campagna.

Se, dunque, la storia sociolinguistica di Peppino, insieme ai tratti strettamente linguistici rilevati nei suoi scritti, può valere a fare rientrare le sue produzioni sotto la categoria dell’italiano dei semilcolti, possiamo concludere però, da un punto di vista delle motivazioni rispetto alla scrittura e delle intenzioni pragmatiche da essa espletate, che egli si possa effettivamente considerare come un semicolto dalle elevate ambizioni rispetto alla propria scrittura, come ipotizzato all’inizio della nostra trattazione.

Malgrado le nostre generali conclusioni, però, la presente tesi può aprire ancora ad ulteriori riflessioni, come, ad esempio, il processo di miglioramento della scrittura che Peppino opera nell’arco temporale che va dal 2016 al 2019, processo che sarebbe possibile studiare tramite un’analisi dei dati di ricerca operata a livello quantitativo, e non qualitativo, come si è scelto di fare in questa sede; o ancora, si potrebbe andare a calcolare, in termini matematici, l’occorrenza dei termini dialettali nella produzione dell’uomo. Ulteriori ricerche che andassero in questa direzione saranno, in ogni caso, effettuabili in futuro, anche grazie all’inserimento del materiale analizzato nella bancadati online MyAdmin (operazione da noi già effettuata).

La presente tesi non vuole, infine, avere la pretesa di configurarsi come esaustiva guida esemplare per l’analisi di ulteriori testi semicolti. Al contrario, siamo ben consapevoli del fatto che molto si sarebbe ancora potuto realizzare, così come molti sono gli aspetti, anche linguistici, sui quali non ci siamo soffermati. Tuttavia crediamo che questo contributo possa rivelarsi utile ai fini della ricerca, fornendo ulteriori spunti di riflessione nello studio dell’italiano dei semicolti. 

Sulla complessità del tema, dovuta sia alla relativa libertà da parte dei linguisti di area germanofona nell’attribuire a questa etichetta valori spesso differenti, sia ad una questione prettamente terminologica (accanto alla Varietätenlinguistik convive, infatti, in ambito germanofono la “Variationslinguistik“ o “linguistica della variazione“), oltre che per una più approfondita disamina sugli studi condotti sulla variazione linguistica, (cfr. Sinner 2014).
Per un approfondimento sul carattere sociale dell’uso del linguaggio, cfr. Lepschy 1996, 139-143.
L‚influenza sociale sulla realtà linguistica si riflette ad esempio sia nello status attribuito dai parlanti a determinate varianti che in quello attribuito dalla società stessa a determinate varietà di lingua o lingue (Krefeld 2016, 262); sul ruolo attivo dei parlanti in quanto agenti sociali nella standardizzazione dell’italiano, come esempio di influenza sociale sulla lingua, invece, cfr. Serianni 2006 e Berruto 2007.
Non presentando alcuna differenza strutturale rispetto alla ‚lingua italiana‘ (D'Agostino 2007, 69), i dialetti presenti sul territorio italiano non devono essere considerati come “varietà locali della lingua nazionale, né tantomeno [come] deformazioni o correzioni di questa [in quanto] proprio come l’italiano letterario – costituitosi anch’esso sulla base di un dialetto (il fiorentino trecentesco) – e come le altre lingue e i dialetti romanzi, [essi] derivano dal latino volgare e hanno dunque, dal punto di vista storico-linguistico, la stessa dignità della lingua“ (D'Achille 2003, 13). La distinzione operata tra dialetto e lingua sarà allora di tipo esclusivamente sociale e dipenderà dal prestigio linguistico di cui i due sistemi godono presso i parlanti (D'Agostino 2007, 69).
Per un ampio approfondimento sulla situazione italo-romanza pre-unitaria, si rimanda qui al fondamentale “Storia linguistica dell’Italia unita“ di Tullio De Mauro (1986), oltre che a Bruni (1984, 81-172); tuttavia, vale la pena ricordare qui brevemente che “prima dell’Unità, l’italiano al di fuori della Toscana (dove lingua e dialetto sono sempre stati in rapporto di contiguità), era una lingua nota a un numero di persone alquanto ridotto [in quanto] la stragrande maggioranza della popolazione parlava […] uno dei dialetti che si erano formati nella nostra penisola dopo il crollo dell’Impero romano“ (D'Achille 2003, 23).
Uno dei principali fenomeni che portarono gli italiani ad avvicinarsi ad una lingua nazionale è certamente costituito dal processo di alfabetizzazione legato all’obbligo scolastico introdotto dalla legge Casati già nel 1859 (sebbene il tasso d’evasione all’obbligo sia rimasto molto alto almeno sino agli anni Trenta); ma a giocare un altrettanto rilevante ruolo nella diffusione della lingua nazionale furono altresì la crescente industrializzazione e l’urbanizzazione ad essa relativa, fenomeni per i quali le grandi masse contadine si spostarono dalle zone rurali alle città, provocando tra i nuovi e i vecchi cittadini l’esigenza di intendersi in una lingua comune; la successiva promozione della lingua unitaria avvenne parimenti grazie ai mezzi di comunicazione di massa quali i giornali, la radio e, a partire dagli anni Cinquanta, la televisione, “scuola di lingua e di cultura“ grazie alla quale “i ceti diseredati relegati in posizione subalterna dalla scarsa cultura […] imparano a parlare l’italiano e, con l’italiano, imparano com’è fatta la cultura dei cittadini, delle classi dominanti“ (De Mauro 1994, 128). Per un esaustivo e dettagliato approfondimento sul tema, si rimanda al sopracitato De Mauro (1986).
Non per negligenza, ma poiché il focus verte qui sul rapporto tra i due diasistemi maggiori, non affronteremo in questa sede la questione delle minoranze linguistiche presenti sul territorio italiano e delle relative altre lingue ivi parlate. Per una  descrizione sociolinguistica del complesso repertorio italiano plurilingue relativo ad antiche e nuove minoranze, si rimanda a Francescato (1993), D’Agostino (2007) e Krefeld (2016), il quale distingue in tal senso due tipologie di sociolinguistica: quella degli idiomi, la quale comprenderebbe lo studio delle lingue minoritarie e i dialetti; e quella della variazione, inerente, come vedremo, allo studio di specifiche varianti avvertite come marcate dai parlanti, e propria della varietistica (Krefeld 2016, 263).
Con la nozione di ‚repertorio‘ si intende “l’insieme delle lingue, o le varietà di una stessa lingua, e delle loro norme d’uso, impiegate in una comunità“ (D'Agostino 2007, 109); a tal proposito, Berruto definiva il repertorio linguistico italiano medio come un diasistema (lingua nazionale-dialetto) il cui rapporto (sino ad allora definito ‚diglossico, in cui alla varietà alta era rigidamente riservato l’uso scritto e formale; mentre a quella bassa, anche impiegata per la socializzazione primaria e dunque una L1, l’uso parlato informale) rifletteva una situazione di “bilinguismo endogeno a bassa distanza strutturale con dilalìa“, indicando così la compresenza di due lingue e delle loro relative varietà, non strutturalmente troppo diverse tra loro, e non più rigidamente separate rispetto all’ambito d’uso informale, ma “impiegabili nella conversazione quotidiana e con uno spazio relativamente ampio di sovrapposizione“ (Berruto 1993, 5-6).
Al glottologo Giovan Battista  Pellegrini è infatti dovuta la prima basilare quadripartizione delle varietà presenti nel repertorio italiano; essa comprendeva l‘ ‚italiano standard o comune‘, l‘ ‚italiano regionale‘, la ‚koinè dialettale o dialetto regionale‘, ed il ‚dialetto locale‘; da questa quadripartizione presero successivamente il via altri fondamentali approfondimenti ed ampliamenti sociolinguistici alla struttura del repertorio linguistico italiano, caratterizzato dalla dialettica tra italiano e dialetti delle diverse regioni italiane da un lato e la coesistenza tra le “diverse norme di realizzazione di un medesimo idioma“ dall’altro (De Mauro 1977, 124). Per un ampio commento sulle varietà italiane e sulle relative denominazioni offerte dagli studiosi dal 1960 sino al 1987, si veda Berruto (1987); per una tavola sinottica delle diverse classificazioni delle stesse, invece, si rimanda a Berruto (1993, 18;26).
Sebbene essa non goda di uno “statuto teorico autonomo, [e si configuri anzi] come ambito di lavoro orientato in senso empirico, con scopi prevalentemente descrittivi“ (Berretta 1988, 762), Holtus-Radtke sottolineano però in ogni caso la specificità della linguistica delle varietà rispetto alla sociolinguistica: a differenza della sua matrice, infatti, la linguistica delle varietà si occuperebbe di indagare e descrivere anche dei tipi di “Varietäten [,] die nicht [nur] von der Sozialen Determination der Sprache und ihrer Sprecher abhängen“ (Holtus/Radtke 1983, 16).
Come notato da Holtus-Radtke (1983), il termine ‚varietà‘ non era tra l’altro di recente coniazione: Benvenuto Terracini se ne era infatti già avanguardisticamente occupato nei suoi lavori pre-sociolinguistici sulla dialettologia nei primi anni del Novecento, sebbene questi non si concentrassero ancora sul problema della “Systematizität“ del fenomeno, né vi fosse una “fundierte Grundlegung des Varietätenbegriffs“ (Holtus/Radtke 1983, 13-14).
Relativo, dunque, sia ad un intero sistema di lingua che solo ad alcuni tratti specifici presenti all’interno dei sistemi linguistici.
I due sistemi di base sui quali, come sostiene Dardano (1994, 344), si costruisce tutto il repertorio linguistico italiano.
Sui sempre più evidenti limiti della terminologia adottata dalla tradizione germanofona risalente alla quadripartizione delle dimensioni di variazione offerta da Koch/Oesterreicher (1985; 1990), basata sui parametri di ‚immediatezza‘ (o ‚vicinanza‘) e ‚distanza‘ – oltre che sulle conseguenti implicazioni metodologiche rispetto alla linguistica percezionale ad essa connessa – si veda il contributo “Varietà ibride? Che cosa ne pensa la linguistica variazionale“ disponibile sulla piattaforma Lehre in den Digital Humanities (Krefeld 2018).
E in tal senso, reale attuazione della linguistica della parole preannunciata da Ferdinand de Saussure (sul tema, cfr. Raimondi 2009, 15-18; Krefeld 2015).
Iannàccaro spiega, infatti, che “è proprio attraverso la constatazione della variazione linguistica (di qualunque tipo) che il parlante viene a contatto con varietà diverse rispetto al proprio idioletto […] ed è indotto a rifletterci sopra“ (Iannàccaro 2015, 23).
O, nel caso specifico dei test percettivi, nel sapere linguistico dei cosiddetti ‚informanti‘, soggetti sottoposti, ad esempio, all’ascolto di stimoli uditivi registrati dai ricercatori sul campo.
Un elemento “marcato“ è dunque un elemento “provvisto di una marca che lo contraddistingue rispetto alla sua manifestazione considerata, per motivi qualitativi e/o quantitativi, come basica, o normale, o canonica“ (Ferrari 2012, 17); la proprietà di marcatezza/non marcatezza può essere applicata a tutti i livelli dell’analisi linguistica (Ferrari 2012, 17) ed è inoltre spesso messa in relazione con i principi di naturalezza elaborati dalle teorie di morfologia naturale e sintassi naturale, secondo le quali si riterranno non marcati i tratti “cognitivamente più accessibili – ossia più naturali -, che favoriscono la processabilità dell’informazione e la corrispondenza tra la percezione della realtà e la sua rappresentazione linguistica“ (Cerruti 2009, 254).
Per un approfondimento sul tema, si rimanda al volume “Perzeptive Variatätenlinguistik“, a cura di Krefeld-Pustka (2010); oltre che a Krefeld(2015).
Simone (1990) spiega che “le lingue verbali vivono in diacronia, nel senso che si modificano nel tempo […] le manifestazioni di questo mutamento [riguardano ad esempio] la dotazione di suoni di una lingua [,] i significati e le forme delle parole [,] l’organizzazione grammaticale, e così via“ (Simone 1990, 77-78).
Sulla denominazione possibilmente fuorviante di questa varietà – la nozione di “regionale“ non va infatti pensata come corrispondente all’effettiva estensione amministrativa delle regioni d’Italia – cfr. Sobrero (2012, 129-130).
Per un più chiaro approfondimento sul ruolo delle componenti della situazione comunicativa, quali i partecipanti, gli atti comunicativi, i risultati, la cosiddetta localizzazione ecc., si veda Grassi-Sobrero-Telmon (2012, 204-211).
In senso sociolinguistico, il concetto di ‚continuum‘ indica usualmente un insieme composto da un ventaglio di varietà (tra cui si distinguono una varietà alta ed una bassa, ai due poli), i cui confini, nebulosi ed indefiniti, possono sovrapporsi e dissolversi l’uno nell’altro, impedendo una precisa identificazione delle stesse, specie se contigue, da parte della sociolinguistica (Berruto 1987, 27-28); per un approfondimento sul tema, anche rispetto alle obiezioni sollevate sulle implicazioni di questa definizione, si veda Berruto (1987, 27-42).
È ragionevole credere allora che le possibili varianti di una specifica variabile siano riscontrabili ed ascrivibili a diverse dimensioni, e che vadano a costituire – insieme alle altre – quelle che Krefeld (2018) definisce come “varietà ibride“, smentendo, nello specifico, il ragionamento di Koch/Oesterreicher (1990) il cui schema prevedeva che ad ogni dimensione della variazione corrispondesse un numero definito di varietà, a loro volta composte da un preciso numero di varianti.
Entrambi caratterizzati da fenomeni epilettici dai quali la donna era afflitta sin da giovane e a causa dei quali veniva rapportata, secondo la cultura popolare salentina, ad una realtà magica. Nonostante la loro medesima natura, inoltre, la donna ne distingueva superstiziosamente e religiosamente le manifestazioni: ella raccontava infatti di avere voglia di ballare prima di una crisi di tarantismo, e di avere la tendenza a dimenarsi per terra durante le crisi epilettiche di San Donato (Rossi 1994, 80-85).
“La scrittura parla di sé insieme a qualunque altra cosa di cui parla: essa si costituisce su proprie peculiarità di codificazione dell’esperienza, di forma di rappresentazione, di lingua, di temporalità e spazialità, di costruzione dell’interlocutore“ (Apolito 1994, 13).
“La donna ha frequentato solo la prima elementare, ma è in grado di esprimere per iscritto quanto vuole comunicare; le sue lettere presentano grossolani errori di grammatica, e sono quasi totalmente sprovviste di punteggiatura“ (Rossi 1994, 79).
Circa questo termine, D’Achille precisa che l’aggettivo semicolto (successivamente adottato, come vedremo, per indicare i soggetti interessati dal fenomeno linguistico scritto dell’italiano dei semicolti) rifletteva sia una chiara differenziazione rispetto ai termini colto ed incolto, sia una maggiore specificità rispetto alla serie terminologica assieme alla quale esso sarebbe potuto essere semplicisticamente associato: semianalfabeta, semialfabeta, semincolto; secondo D’Achille, infatti, questi ultimi sarebbero stati da collocare in un gradino più in basso rispetto al semicolto propriamente detto, in quanto “[in]capaci di servirsi dello scritto [né] per usi funzionali e pratici […], [né] per fini latamente espressivi“ e, al limite, in grado di “apporre la propria firma o poco più“ (D'Achille 1994, 42-43). Accanto alla designazione di semicolto, il linguista propone invece di apporre i termini poco colto, mediocolto, o semiletterato, in ogni caso da collocare su gradini intermediamente diversi, data la differente e non rigida caratterizzazione culturale dei soggetti semicolti (D'Achille 1994, 42-43).
Per un’approfondita, diversa argomentazione, ovvero sulle debolezze dell’originaria visione unitaria dell’italiano popolare, almeno per quanto riguarda gli elementi linguistici e non contenutistici espressi in questo tipo di lingua, si rinvia almeno a Berruto (1987, 108-110).
Basti pensare che a distanza di ottant’anni, ancora tra il 1951 ed il 1955, solo il 18% della popolazione italiana impiegava l’italiano, sebbene in forma ancora artificiosa e pomposa, poco spontanea; il 20% era invece dialettofono, mentre la restante percentuale si muoveva in un limbo linguistico diglossico, impiegando la lingua italiana in situazioni estremamente formali ed il dialetto nella quotidianità, data la sua “efficacia espressiva“ (De Mauro 1994, 117).
La necessità delle masse di “mettere da parte i rispettivi dialetti, cominciando ad usare, per intendersi, gli elementi di lingua italiana a loro noti“ si manifesta inoltre con le prime associazioni di lavoratori postunitarie e con lo svilupparsi dei primi canti sindacali e di protesta, come ad esempio il Canto degli scariolanti: questi erano infatti caratterizzati da un vocabolario semplice, in cui affioravano anche degli elementi dialettali, unito ad una certa “oscurità sintattica“, e, a livello grafico, ad un abuso delle maiuscole; altro elemento evidenziato dal linguista è la “brusca rottura stilistica“ o l’alternanza tra forme popolari e forme auliche, allora ancora persistenti a causa della forte influenza dell’opera lirica ancora sentita, il cui influsso viene paragonato da De Mauro con quello esercitato dalla televisione negli anni Cinquanta e Sessanta (De Mauro 1994, 118-121).
Il primo conflitto mondiale costrinse i soldati a misurarsi con una dimensione del tutto nuova: come spiega Glauco Sanga, infatti, i contadini non avevano mai avuto sino ad allora la necessità di avvicinarsi allo strumento culturale della scrittura, in quanto “la diffusione dell’italiano avveniva per via orale o, al più, attraverso la lettura [e] tradizionalmente in paese c’era sempre qualcuno delegato a scrivere: il parroco o il segretario comunale o un paesano colto(Sanga 1984, 173) tutt’altra situazione si presentava invece in trincea, in cui i contadini ormai soldati dovevano necessariamente confrontarsi a tu per tu con penna e carta. Tra le motivazioni che spinsero alla scrittura, ricordiamo infatti la necessità di rassicurare le famiglie sulle proprie condizioni di salute, oltre che la possibilità, nel caso dei prigionieri di guerra, di “allontanare l’incubo del rientro al fronte e della possibile morte in trincea; [di] esprimere un’autentica sofferenza psichica; [di] sottrarsi allo stigma della follia e all’istituzione, fortemente autoritaria, del manicomio; [di] tentare di rimediare a una situazione angosciante con la richiesta (nelle lettere al direttore) di ottenere la documentazione necessaria per un sicuro rientro a casa“ (Testa 2014, 101).
Come spiega Cortellazzo, una rivalutazione delle testimonianze “dal basso“ poté avvenire solamente nel secondo dopoguerra, con una rinnovata volontà politica d’opposizione alla “cultura egemonica fra le due guerre [la quale] non tollerava che, accanto alla cronaca ufficiale, linda nella forma, spesso retorica e falsa, trovasse posto la cronaca degli altri, dei protagonisti sottoposti e, infine, sopportanti il maggior peso di ogni avventura sociale“ (Cortellazzo 1972, 19).
Come spiega Lorenzo Renzi nell’introduzione alla raccolta epistolare di Leo Spitzer, questo lavoro era sino ad allora sconosciuto ai più ed i “i filologi e gli studiosi di italiano popolare ne parlavano, ma più per sentito dire che per conoscenza diretta“ (Renzi 1976, VII)).
Diversi sono i capitoli dedicati nell’opera ai dissimulati tentativi di richiesta di provviste e viveri da parte dei prigionieri a parenti e familiari. Se le lamentele sulle misere condizioni dei prigionieri avessero raggiunto l’Italia, questo avrebbe potuto costituire un ulteriore possibile movente per la continuazione dell’offensiva nel conflitto mondiale, e i prigionieri ne erano consapevoli. Sugli originali espedienti linguistici da questi ultimi adoperati per descrivere il concetto di “fame“ al fine di sfuggire all’occhio pressante della censura austriaca, si veda inoltre l’importante lavoro linguistico del filologo Spitzer sulla lingua popolare, Die Umschreibungen des Hungers im Italienischen[Le circonlocuzioni impiegate per esprimere la fame in italiano] (supplemento alla “Zeitschrift fuer romanische Philologie“, Niemeyer, Halle 1920), pubblicato un anno prima delle Lettere, lavoro in cui lo studioso mette in luce le diverse colorite strategie linguistiche impiegate per aggirare l’ostacolo della censura, il cui sguardo si era “acuito per le lamentele causate dalla fame“ e aveva comportato un “raffinamento dei metodi d’indagine impiegati“ dai censori (Spitzer 1976, 10).
Facciamo qui riferimento a tre atteggiamenti linguistici riguardanti l’alternanza del codice tra italiano e dialetto, possibili in un contesto bilingue qual era e qual è tuttora quello italiano: il code-switching o commutazione di codice, il code-mixing o enunciato mistilingue, e il tag-switching anche conosciuto come commutazione extrafrasale (D'Agostino 2007, 144; D'Achille 2003, 179). Il code-switching, ossia il passaggio funzionale da un idioma ad un altro nello stesso enunciato, viene operato consapevolmente dal parlante in base alla situazione comunicativa in cui egli si trova ed è altresì condizionato da motivazioni sociali e “identitarie“: esso dipende, infatti, sia dal prestigio sociale che lo standard riveste nella situazione comunicativa rispetto al dialetto, percepito come varietà diastraticamente “bassa“ (D'Agostino 2007, 118), sia dalla forza identitaria delle diverse varietà, in questo caso di quella dialettale, come fattore attivo di riconoscimento dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale e linguistico (D'Agostino 2007, 118); nel caso delle lettere analizzate da Spitzer, però, l’impiego del dialetto assume spesso il valore di “codice dell’intimità“ dovuto alla necessità di sfuggire agli occhi attenti della pressante censura operata dai censori sulle missive (Spitzer 1976, 107). Il code-mixing, ovvero il mescolamento non funzionale di più idiomi all’interno di una stessa frase, è, al contrario, un fenomeno non intenzionale, dovuto alle incertezze del parlante dialettofono e in particolare alla sua approssimativa conoscenza della lingua italiana (D'Achille 2003, 179). Il tag-switching, invece, si caratterizza per l’inserimento di elementi isolati quali interiezioni, riempitivi ecc. all’interno dell’enunciato (si pensi, ad esempio, alla funzione ludica del dialetto espletata tramite l’inserimento di questi ultimi elementi nella comunicazione colloquiale, specie giovanile).
È bene, tuttavia, sottolineare che per questioni legate alla censura, lo stesso Spitzer non fornì informazioni sugli scriventi, di cui non si conoscono certo i nomi, ma neppure l’età, né l’effettivo grado d’istruzione (si noti, inoltre, che non tutte le lettere raccolte dal linguista presentano lo stesso grado di competenza linguistica: alcuni mittenti risultano essere nettamente più colti di altri, o per meglio dire, meno “incolti“ di altri, nonostante lo sforzo dello studioso di creare un corpus il più possibile omogeneo a livello socio-culturale); in base al contesto, nondimeno, è spesso possibile rintracciare alcuni indizi che aiutino, pur limitatamente, a ricomporre il puzzle diastratico dello scrivente.
Qui De Mauro faceva sarcasticamente riferimento all’azione soffocante del “greve rullo dell’italiano scolastico“ (De Mauro 1994, 134), che a poco servì – a suo avviso – nell’educazione al “pieno e libero possesso della lingua italiana“, e che invece, “per la debolezza delle sue strutture, anzitutto, poi per l’impreparazione linguistica del personale insegnante […] ha svolto un’azione di indebolimento dei dialetti [esercitando] un’azione di repressione del parlato piuttosto che di addestramento all’uso e scritto e parlato e colloquiale e formale della lingua“ (De Mauro 1994, 136).
Come spiega Berruto, anche Tatiana Alisova si era per esempio già occupata nel 1965 della struttura della frase relativa del cosiddetto “italiano popolare“ sovrapponendo, tuttavia, questa definizione alla dimensione parlata e colloquiale della lingua, e creando così una prima ambiguità tra la definizione di “italiano popolare“ e quella di “italiano parlato colloquiale“ (Berruto 1987, 105).
Oltre a Lettere di una tarantata (1970) di Annabella Rossi, infatti, si ricordano, ad esempio, il romanzo autobiografico Una donna di Ragusa (1957), di Maria Occhipinti, donna siciliana di umili origini; Quaderno (1958), diario di Alfonso Muscillo, usciere di una biblioteca romana; il Diario della grande guerra (1961) di Francesco Giuliani, pastore abruzzese. Per un ulteriore approfondimento sui testi semicolti pubblicati in questo periodo e su quelli presi in esame dagli studiosi, si rimanda a Sobrero (1975, 108, note 5 e 6); D’Achille (D'Achille 1994, 43-45, note 18-24; 28).
Le difficili circostanze storiche presenti nella storia linguistica italiana hanno influito, secondo Fresu (2016), sulla tipologia testuale in cui i testi semicolti si sono sviluppati nel tempo, tra cui si annoverano: “testimonianze provenienti dal o indirizzate al fronte“, sotto forma di lettere, ma anche nelle urgenti espressioni del sé riscontrabili in diari, memorie, taccuini di guerra; anche il fenomeno migratorio ha prodotto diverse produzioni epistolari, oltre che produzioni su cartolina o lettere indirizzate dai migranti ai giornali (Fresu 2016, 335-336). Per un approfondimento sugli ulteriori generi testuali interessati dalla scrittura dei semicolti, cfr. Fresu (2016, 335-339).
Radtke fa qui però notare come questa definizione non sia sufficientemente caratterizzante o esclusiva di questa varietà, in quanto parimenti applicabile all’italiano regionale (Radtke 1979, 44).
“In questa chiave possono quindi essere letti anche i pesanti tratti di interferenza del substrato dialettale che svolgono il ruolo della lingua materna nella varietà di apprendimento“ (D'Agostino 2007, 127).
Si parla di fossilizzazione quando la conoscenza della lingua di un individuo si blocca ad un determinato stadio senza possibilità di progressione (D'Agostino 2007, 83).
D’Agostino fa inoltre notare come questa varietà non sia allo stesso modo accostabile neanche all’italiano tipico delle produzioni dei bambini appartenenti alle prime classi delle elementari, nonostante esse presentino sovente caratteristiche simili a quelle dei testi semicolti. Parrebbe infatti poco ragionevole far rientrare queste ultime sotto l’etichetta dell’italiano popolare, in quanto gli specifici tratti di cui sopra vengono presto superati dai bambini nelle successive fasi di apprendimento scolastico, cosa che, come detto, non avviene nei parlanti di italiano popolare (D'Agostino 2007, 127).
Tra le fonti andate poi a creare il corpus analizzato da Cortellazzo vi erano: lettere di soldati e prigionieri di guerra durante il primo conflitto mondiale, caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale; lettere di altra provenienza quali quelle di emigrati friulani, o esempi come quello di Anna del Salento; memorie autobiografiche di diversa provenienza, quali ad esempio memorie di contadini lucani, di sottoproletari lombardi, o di banditi siciliani; testimonianze di diversa natura e di diversa provenienza, quali documenti di soldati processati durante la prima guerra mondiale,  o di emigrati a Milano; compiti scolastici di diversa provenienza (Cortellazzo 1972, 19-20)
Oltre a suggerire l’idea di “una varietà sovraindividuale“ (Krefeld 2016, 267).
Con la nozione di diglossia (Ferguson 1959) si intende la compresenza su un determinato territorio linguistico di due sistemi di lingua ai quali la comunità di parlanti attribuisce un diverso prestigio sociale, tale per cui uno dei due idiomi sarà considerato come varietà ‚alta‘ e di maggiore prestigio; mentre l’altro verrà connotato come varietà bassa, più informale e non adatta a contesti “alti“. È importante notare che i contesti d’uso dei due idiomi saranno rigidamente separati: alla varietà alta spetteranno i contesti formali, mentre quella bassa sarà impiegata per domini ordinari, propri della vita quotidiana (D'Agostino 2007, 77-78). Come visto in capitolo 3, però, la situazione italiana non è più ascrivibile a questo concetto: si parla oggi infatti di dilalìa ossia una condizione in cui i contesti d’uso delle due varietà A e B sono mutati: in un contesto dilalico quale quello odierno, infatti, entrambi gli idiomi, dunque sia quello “alto“ che quello “basso“, possono essere impiegati in contesti informali e colloquiali (D'Agostino 2007, 79).
Anche i due studiosi notavano, nella loro analisi, la forte influenza del dialetto su questa varietà, ed individuavano le maggiori interferenze tra parlato e scritto sul piano grafico, il cui uso non ha “riscontro sul piano del parlato, ma è insegnato a scuola“ (Sobrero 1975, 110): si segnalava dunque la presenza di doppie o scempie, là dove non sarebbero state previste, così come la poca padronanza delle regole relative all’interpunzione, agli accenti, agli apostrofi, all’uso di lettere maiuscole o minuscole, oltre che una difficoltà nella percezione dello spazio tra le parole, con i conseguenti fenomeni di agglutinazione o deglutinazione (in contro); dal punto di vista morfosintattico, frequente era l’errato accordo tra soggetto e verbo o tra sostantivo e aggettivo, dipeso dal fatto che lo scrivente si basasse su concordanze ad sensum (Sobrero 1975, 113), e ancora pleonasmi nell’uso dei pronomi (alla mamma le era piaciuta) così come l’uso di gli nelle forme oblique del femminile e del plurale, l’uso del ‚che polivalente‘, la coordinazione preferita alla subordinazione (Sobrero 1975, 113). Il  ‚modello‘ scolastico avrebbe operato meno, invece, a livello lessicale il quale, però, essendo connesso alla nuova realtà del mondo sociale, del lavoro, della televisione, portava ad una riduzione della presenza di termini dialettali; allorquando ve ne fossero stati, Sobrero parlava di una “consapevole scelta linguistica“ facendo riferimento a fenomeni rapportabili al bilinguismo, quali il commutamento di codice, oggi conosciuto come code-switching (Sobrero 1975, 115).
“Se si badasse solo alla morfosintassi, l’italiano popolare sarebbe fondamentalmente unitario“ (Berruto 1987, 109, nota 7), in quanto livello di analisi in generale meno soggetto alla differenziazione da area ad area (Berruto 1987, 109). Su questa tesi non concorda Mengaldo (1994) il quale, prendendo ad esempio l’accusativo preposizionale preceduto da a, spiega che tale fenomeno sarà sempre e solo fenomeno meridionale e mai settentrionale, se non eventualmente per motivi altri dall’affioramento dialettale. Per questa ed altre tesi contro l’unitarietà morfosintattica dell’italiano popolare, cfr. Mengaldo (1994, 109-110).
Bisogna altresì tenere presente, come ricorda Cerruti (2009), che ‚‚l’univocità di risultati a cui conduce in certi casi l’azione del sistema dialettale in regioni differenti è tale o perché, semplicemente, sono consimili le forme o le strutture di sostrato trasposte in italiano o perché l’effetto del contatto tra due codici è analogo in quanto rispondente allo stesso tipo di meccanismi“ (Cerruti 2009, 35); i tratti sovraregionali dell’italiano popolare, invece, possono essere riconducibili o a tratti tipici della testualità del parlato, o appunto a “tendenze e possibilità panromanze latenti in italiano“, tratti che facilmente si riflettono anche nell’italiano regionale (Cerruti 2009, 35), come ad esempio quello della ’semplificazione‘,  un meccanismo linguistico che avviene quando “a una certa forma (o struttura) di una lingua si contrappone una forma o una struttura più semplice, cioè più facile da realizzare, meno complessa, che può sostituire la prima senza che si perdano le informazioni essenziali contenute nel messaggio“ (Sobrero/Miglietta 2011, 175).
“Statisticamente, l’insieme di tratti che caratterizza in maniera più o meno netta e ‚densa‘ questa varietà tende a presentarsi presso parlanti diseredati culturalmente, presso le cosiddette classi subalterne scarsamente scolarizzate e poco/non colte [;] il carattere di ’sociale‘ è insomma netto se lo inquadriamo nei parametri di classificazione di varietà della lingua […], ma, come del resto è da supporre in generale per quanto riguarda le relazioni tra varietà di lingua e utenti, non è affatto deterministico“ (Berruto 1983, 87).
Non è del tutto facile distinguere con chiarezza “ciò che è popolare da ciò che è meramente informale e colloquiale“ (Lepschy 1989, 30); dal punto di vista morfologico e sintattico, ad esempio, sono diversi i tratti che le due varietà condividono: concordanze devianti, ridondanze pronominali, impiego del che polivalente, concordanze ad sensum; topicalizzazioni e riprese enfatiche (Berruto 1983, 93).
Parliamo qui dunque di eventuali tratti appartenenti a varietà diatopiche e diastratiche marcati anche diafasicamente, e non delle varietà in toto, le quali difficilmente possono “rappresentare esse stesse varietà marcate in diafasia“ (Cerruti 2009, 35).
Incertezza continuamente “soggetta a pressioni d’ogni tipo: dall’italiano aulico ai linguaggi settoriali al dialetto“ (Sanga 1984, 15). Sulla funzione dell’incertezza della norma, si noti, inoltre, come questa contribuisca “alla formazione di un uso instabile e fluttuante, al cui interno si vanno comunque delineando delle cristallizzazioni (sempre soggette a possibili regressioni) che, per ampiezza di diffusione, tendono ad imporsi agli italiani regionali ( e di qui allo standard)“; secondo Sanga, e successivamente Berruto, l’italiano popolare risulta come il “maggiore centro di innovazione linguistica della lingua italiana“.
Si rimanda qui al modello delle varietà di italiano proposto da Sabatini (1985), in cui si propone un italiano standard in opposizione all‘italiano comune, così come la coppia italiano regionale delle classi istruite e italiano regionale delle classi popolari (o semplicemente italiano popolare). Una simile suddivisione varrebbe inoltre anche per il sistema linguistico dialettale, nel quale si riconoscerebbero un dialetto regionale/provinciale ed un dialetto locale (Sabatini 1985).
Berruto propone inoltre di vedere all’interno dell’italiano popolare stesso una “piccola gamma di sottovarietà“, facendo distinzione tra un italiano popolare ‚basso‘ e un italiano popolare ‚medio‘, meno marcato e con minori interferenze dialettali (Berruto 1987, 114-115).
Usi in cui “vengono specialmente in primo piano tratti che in una corrispondente formulazione orale sarebbero del tutto inosservati, anzi invisibili“ (Berruto 2014, 280).
L’italiano popolare orale si caratterizza manifestamente nella pronuncia regionale “marcata verso il basso“ (Sobrero/Miglietta 2011, 101), ma anche per le false partenze, per le frequenti riformulazioni, per i generali cambi di progettazione nell’organizzazione testuale con le conseguenti correzioni e ripetizioni, e ancora, per i passaggi dal discorso diretto all’indiretto e per l’uso improprio delle forme al congiuntivo e al condizionale, oltre che per gli anacoluti e le topicalizzazioni; come ancora indicato da Sobrero-Miglietta, dal punto di vista morfologico, esso è caratterizzato dalle concordanze a senso e dalle ridondanze pronominali (tratti, come visto, spesso presenti nell’italiano colloquiale), ma anche da semplificazioni nominali e verbali, scambi di preposizione ecc; il lessico, invece, è ricco di termini generici (affare, cosa, coso, roba), ed è forte la tendenza ad inserire nel discorso espressioni e termini appartenenti alla sfera della burocrazia o termini aulici e tecnici, finendo però per storpiarli sul piano del significante, e risultando nei cosiddetti malapropismi, come vedremo nel capitolo 6 (Sobrero/Miglietta 2011, 100-101). Tutti questi fenomeni tipici dell’oralità si rivelano importanti per la nostra trattazione in quanto coerentemente trasposti nello scritto (Sobrero/Miglietta 2011, 100).
Sulla questione della possibile collocazione temporale dell“’Ur-italiano popolare“ e sulla nascita delle prime scritture semicolte propriamente dette rispetto alla normalizzazione grammaticale bembiana Cinquecentesca e pre-cinquecentesca, oltre che sulla separazione tra scritture proprie della varietà “alta“ e scritture riconducibili alla varietà “medio-bassa“, si vedano i critici lavori di Berruto (1987, 112-113) e Testa (2014, 21-24), oltre che il fondamentale lavoro di D’Achille (1994, 49-52; 57-65) ed i lavori di Valenti riguardanti questa varietà nel contesto cinquecentesco specificatamente siciliano (Valenti 2015, 533-542). A tal proposito, data la cospicua presenza di una parte dei tratti sub-standard nell’italiano popolare, concordemente con Bruni, Berruto sostiene che l’italiano popolare abbia offerto “una gamma di possibilità presente nell’italiano degli inizi, poi esclusa dalla codificazione bembiana della norma letteraria [e ricomparsa] con vigore quando una massa prima inesistente di parlanti non colti si è appropriata di una varietà di italiano“ (Berruto 1987, 113).
Dall‘Appendix Probi, una lista contenente 227 “errori di lingua“ evidentemente ben radicati nell’ambiente romano del primo secolo, che il grammatico Marco Valerio Probo tentò di correggere, al Satiricon di Petronio, testo contenente la nota Cena di Trimalchione, passaggio rappresentativo della compresenza di diversi stili impiegati dall’autore per distinguere socialmente i propri personaggi e volutamente rivelatore di una lingua “altra“, non rientrante nelle categorie normative imposte dal latino classico, fino ad arrivare all‘Itinerarium Egeriae, testo autobiografico ben lontano dal latino classico e improntato sul parlato dell’autrice, la pellegrina romana Egeria (Bruni 1984, 175-189).
Sulle drammatiche dinamiche che mossero gli scriventi semicolti alla scrittura durante la prima guerra mondiale, cfr. (Fresu 2015).
Cogliamo qui l’occasione per una dovuta precisazione sulle modalità di traduzione adottate nella nostra trattazione: le traduzioni da noi proposte vogliono anzitutto essere strumento per la globale comprensione semantica dei testi analizzati. Nonostante si sia tentato, infatti, in un primo momento, di mantenere almeno una certa aderenza morfologica e sintattica al testo originale, si è reso subito chiaro come ciò avrebbe inevitabilmente portato ad incomprensioni e malintesi, già presenti negli originali, anche all’interno delle traduzioni stesse. Di conseguenza, si è scelto di tradurre le intere lettere ed i frammenti presi in esame rendendoli il più possibile coesi e coerenti, laddove possibile, ai fini del nostro lavoro. Nostre sono anche le traduzioni in italiano dei singoli termini dialettali riportati nelle traduzioni, eccetto dove diversamente specificato; e a tal proposito, è doveroso ricordare che siamo consapevoli del fatto che altri studiosi, specie se di origine siciliana e provenienti da zone dell’isola diverse rispetto alla nostra, potrebbero riscontrare delle incongruenze (fonetiche, morfologiche, lessicali) tra la varietà qui riportata e la varietà da loro stessi parlata. È quindi fondamentale ribadire che i termini dialettali siciliani riportati nell’analisi sotto la voce “sic.“ non hanno la pretesa di essere riconosciuti come rappresentativi di un ipotetico siciliano standard: essi sono forme e termini facenti invece parte della varietà di siciliano parlata nel paese di Galati Mamertino, alla quale ci rifacciamo.
Sono aspetti questi che ben conosciamo, in quanto a noi raccontati in prima persona più e più volte nel corso degli anni.
Da diversi anni, la moglie di Peppino è a letto, a causa della demenza senile. Ella non parla, né pare recepire le parole dei familiari. Ciononostante, Peppino le porta ogni giorno un fiore raccolto nel giardino di casa, parlandole e rassicurandola sul bene che le vuole.
<<Siccome sono una persona che vuole sempre lavorare, scrivo ancora e mi piace tanto e per questo non mi non voglio smettere di scrivere, e così passa il tempo senza che ce ne si accorga, se no mi potrei mettere a dormire [il pomeriggio], però poi la notte non dormirei. Ed è per questo che non voglio dormire durante la bella giornata, e poi ve lo leggerò, questo bello scritto>>.
E ancora, durante i quotidiani colloqui con la famiglia, Peppino declama di essere, metaforicamente parlando, un professore, tanto è il suo sapere.
Sebbene le scuse per la propria scrittura siano presenti nella produzione di Peppino, abbiamo notato come queste vadano nel tempo via via scemando, rivelando la sicurezza dell’uomo, sviluppatasi con l’esercizio della stessa, nei confronti del testo scritto.
È qui inoltre interessante notare come, durante la lettura ad alta voce delle lettere e dei pensieri scritti, se da un lato Peppino legge effettivamente quanto trascritto, dall’altro va un po‘ a memoria, iniziando a pronunciare le prime sillabe, saltando alcuni caratteri o direttamente alcune parole, ma completando ugualmente la frase ed il pensiero ricordando quanto scritto, in quanto gli episodi narrati da Peppino nel nostro corpus costituiscono in gran parte una sorta di repertorio di eventi e narrazioni che l’uomo ha sempre condiviso oralmente con le figlie e la famiglia nel corso della sua vita. Avendo usufruito „in anteprima“ delle eventuali spiegazioni fornite da Peppino sulle proprie produzioni, le figlie dell’uomo hanno potuto aiutarci a sciogliere alcuni punti per noi di difficile comprensione o generalmente oscuri.
Data la distanza fisica che intercorre tra chi scrive e Peppino, non è stato possibile inoltrare il questionario di persona a Peppino; esso è stato bensì inviato alle figlie dell’uomo, le quali si sono occupate di raccogliere ed inviarci la risposta. Anche a motivo di ciò, non è stato possibile seguire passaggio per passaggio il processo di risposta al questionario, che non potremo perciò descrivere nel dettaglio.
<<Io Sono Nato a Galati Mamertino nel 1931 e sono nato il 24 e mi hanno dichiarato [all’anagrafe] il 25. Io ho fatto solo la terza elementare e avevo circa 9 o 10 anni, e poi a 14 o 15 mi sono fatto la scuola serale e [il maestro] ci faceva fare anche le lettere per la fidanzata. Io a 16 anni sono andato a zappare [sic. zappuliare] il grano e poi io, per evitare di venire a Galati sono rimasto ad aiutare le mie zie a Troina. E Io ho fatto sempre il contadino, come i miei cari genitori, tranne quando ho fatto il militare a Casale Monferrato e poi sono andato ad Alessandria. C’è stato un soldato che mi ha chiesto: «Fazio, ma tu come hai imparato a parlare italiano?» e Io gli ho detto: «Così come mi parlano, io rispondo. Se no, se io parlassi loro come [parlo] nel mio paese nessuno mi potrebbe capire». E poi quando sono tornato a  casa, dopo dieci mesi, mi rallegravo di parlare in italiano e adesso posso parlare con tutti come mi piace. E quando scrivevo a casa, scrivevo in italiano e io quando nella busta mettevo cinquecento lire, la mia cara mamma era analfabeta e correva per aprire la busta e mio padre, che sapeva scrivere e leggere, le diceva: «perché corri se non sai leggere?». Il mio caro papà ha trovato tre soldi e si è comprato il quaderno e con un solo soldo una matita [sic. lapis] e se n’è andato a scuola e il suo caro papà ha detto [parlando con il maestro]: «a mio figlio non c’è bisogno che gli insegni [le varie cose che si insegnano a] scuola. Gli deve solo insegnare [sic. imparari] l’educazione». E allora il mio caro padre ha pensato: «ma allora io che cosa sono? Un animale?» e allora, da allora [sic. di tannu] in avanti è diventato un bravo bambino e poi anche una bravissima persona e diceva che le persone brave possono stare in tutte le società civili. Io parlo come mi piace però, quanto allo scrivere non si può scrivere in dialetto: si deve scrivere per forza in italiano>>.
Utilizzando le domande del questionario come una griglia da cui partire per costruire una produzione, eludendo, però, diverse delle stesse.
Pur non preoccupandosi però di spedirle: esse sono infatti serenamente conservate nei quaderni e solo qualora si presenti l’occasione, vengono mostrate agli interessati. In ogni caso, però, bisogna notare come Peppino non ponga mai all’interlocutore delle domande che prevedano delle risposte dal destinatario, come a segnalare, a livello inconscio, di sapere già che questi non riceverà la lettera.
A proposito del genere epistolare, Fresu (2008) ritiene, inoltre, che la “dialogicità a distanza“, tratto proprio del genere della lettera vada a giustificare “i cedimenti verso una pianificazione arcorata all’oralità e sfumata in toni familiari e informali“, nelle scritture semicolte.
A tal proposito si segnala la presenza di cosiddetti “doppioni“ nei nuclei tematici, come accade nelle produzioni di Tommaso Bordonaro, siciliano semicolto classe 1909, emigrato in America; come spiega Amenta (2012, 737), con il passare del tempo, Bordonaro pare avere dimenticato di avere scritto ed inviato le proprie produzioni al professore che ne curava le edizioni, creando, così, nuove produzioni sugli stessi temi già trattati. Anche le produzioni di Peppino presentano, come detto, più volte gli stessi argomenti; tuttavia, pare che questo sia non tanto da ricondurre alla memoria dell’uomo, che pure certamente potrebbe giocare dei brutti scherzi; quanto all’importanza che per lui queste tematiche rivestono. Per quanto riguarda, al contrario, l’inserimento di veri e propri doppioni di racconti, canzoni e poesie, simili nella forma oltre che nel contenuto, è lì possibile che ciò sia da attribuire al fatto che l’uomo non ricordi di averle già “immortalate“ per iscritto. In ogni caso, la presenza dei doppioni ha talvolta reso più leggero il processo di ricostruzione e traduzione dei testi, spesso a tratti criptici.
Non deve qui stupire la convergenza tra tali discipline, apparentemente lontane tra loro: come fa notare Spina, infatti, uno dei tanti elementi di contatto tra le due sarebbe costituito dal fatto che entrambe si occupano dello “studio di diverse modalità di comunicazione che, in entrambi i casi, avvengono mediante l’uso di codici“ (codifica e decodifica del codice nel passaggio tra parlante-mittente e parlante-ricevente, nel caso delle lingue naturali; codifica in “linguaggio macchina“ delle istruzioni ricevute dall’utente, e codifica della risposta della macchina in un linguaggio comprensibile per l’utente, nel caso degli elaboratori elettronici) per la trasmissione dell’informazione (Spina 2001, 9). Strumenti e metodi visceralmente propri dell’informatica vengono inoltre serenamente utilizzati dalla linguistica: uno su tutti, il parametro della composizione/scomposizione tramite il quale essa opera la segmentazione del continuum linguistico, parametro caro all’informatica che è “per sua natura, basata su tecnologie che permettono di atomizzare oggetti diversi (testi scritti e parlati, immagini fisse e in movimento, suoni), [ e ] di scomporli nella catena di zero e di uno su cui si fonda il codice binario che essa utilizza“ (Ivi: 10). Per un approfondimento sugli ulteriori punti di convergenza e punti di scambio tra linguistica ed informatica, si veda Spina (2001, 9-12).
Come spiega Spina (2001, 7)l’esponenziale evoluzione delle tecnologie informatiche ha permesso di passare dai primi rudimentali “calcolatori elettronici“ diffusisi negli anni Quaranta-Cinquanta ai personal computer sviluppati trent’anni dopo, passando da un iniziale dominio contestualmente ristretto quale quello prettamente scientifico (si pesi a discipline basate sul calcolo quali matematica e fisica) ad una funzionalità eclettica (general purpose) che potesse aprire a diverse operazioni, tra cui spiccano, tra le altre, la conservazione ed il trattamento di informazioni attraverso lo strumento dell‘elaboratore elettronico. Spina individua inoltre le origini teoriche della disciplina nelle menti di filosofi e matematici quali Leibniz, Boole, Pascal e Russell, in quanto lo sviluppo delle nuove tecnologie sarebbe derivato proprio dall’intersezione tra studi di logica e studi matematici (Spina 2001, 8).
Per un approfondimento diacronico sullo sviluppo delle iniziative più rilevanti nel campo degli studi linguistici assistiti da computer, cfr. Spina (2001, 17-29).
È interessante vedere come l’ambito linguistico in cui la linguistica dei corpora trova maggiore applicazione sia quello lessicografico, ambito in cui è possibile operare un celere confronto digitale dei dati; nel caso della sintassi, al contrario, l’analisi linguistica del dato testuale fornito dal corpus non è sufficiente, in quanto è necessario contestualizzare le connessioni sintattiche tramite l’aggiunta di ulteriori informazioni ad opera dell’uomo stesso (Spina 2001).
A tal proposito è bene sottolineare la presenza di alcune annotazioni trascritte dalle curatrici del materiale sulle copie originali delle produzioni dell’uomo, circa la data di stesura delle stesse (prevedendo di spedirle o tentando, talvolta, di ordinarle cronologicamente), o sotto forma di delucidazioni rispetto al pensiero – o alla scrittura stessa – a tratti poco cristallino del padre, nella previsione, nel caso delle lettere, di farle leggere con più scorrevolezza agli interessati. Si potrebbe pensare che queste vadano a confondersi con le note apposte dallo stesso scrivente e a compromettere il lavoro di ricerca, ma in realtà gli interventi da parte di terzi sull’originale si distinguono sensibilmente dalle annotazioni dello stesso Peppino: le due tipologie di correzione o intervento sono infatti visibilmente diverse e ben riconoscibili per calligrafia, colore dell’inchiostro e carattere impiegato, in quanto Peppino non sembra conoscere altro carattere che il corsivo minuscolo, mentre le figlie impiegano di norma lo stampatello maiuscolo o, al limite, un corsivo minuscolo con una calligrafia comunque inequivocabilmente non attribuibile a Peppino.
In tal senso si è fatto riferimento alla metodologia di raggruppamento per tema seguita da Leo Spitzer nell’edizione delle Lettere di prigionieri di guerra italiani (1915-1918), nella quale il linguista analizzò le specificità delle lettere raccolte in 23 diversi capitoli a cui aveva dedicato una specifica tematica ricorrente nelle produzioni: la lontananza, l’attesa della pace, le richieste di denaro e vestiario sono solo alcuni dei diversi temi che più si riproponevano nello scambio epistolare contenuto in questa edizione.
Si è qui reso necessario impiegare una tripla barra obliqua al fine di distinguerla sia dalla singola barra obliqua da noi regolarmente inserita nei testi riportati per segnalare il tornare a capo di Peppino, sia e dall’effettivo inserimento operato dall’uomo di una sbarra obliqua nel riportare una data, in 8.3.1-VIII: “11//12//2182018“.
La lettera che presenta questo fenomeno è difatti quella che aveva più possibilità di essere realmente recapitata al destinatario o, se non propriamente recapitata, quantomeno mostrata alla diretta interessata: stiamo parlando della lettera 8.2-XVI, indirizzata alla parrucchiera del paese. La produzione potrebbe avere subito delle lievi correzioni non solo per volontà di Peppino durante la sua personale rilettura, ma da parte delle figlie. Di conseguenza pare qui corretto sottolineare la possibile non piena attendibilità della specifica correzione effettuata tramite < / >.
Tramite il lavoro di lettura, trascrizione e analisi eseguito in questi mesi sulle produzioni di Peppino, si è avuto modo di sviluppare una comprensione del modus operandi dell’uomo rispetto alla scrittura e alla sistematicità delle soluzioni da lui adottate. Questo ragionamento non vuole dunque avere la deterministica pretesa di conoscere come egli si sarebbe potuto approcciare alla risoluzione del problema dell’inserimento, tra due parole precedentemente univerbate quali sono avoluto <<hai voluto>>, del grafema i dimenticato durante la stesura. È tuttavia opportuno ritenere, data la frequente occorrenza del fenomeno, che in casi come questo Peppino avrebbe inserito il grafema tra le due parole, non curandosi di separarle, come da noi riportato durante la trascrizione su DH.
<<Gli uomini si dividono in quattro categorie: uomini, mezzi uomini, ominicchi e quaquaraquà. Mi diceva la buonanima di mio papà, ’nzanitàte: “un uomo vale per quello che sa. Se non sa niente, che cos’è? Un ceppo [sic. zuccu] di castagno [sic. castagnera]“; e mio padrino mi diceva: “chi è buono, è buono per tutti. Chi è cattivo [sic. tintu], è cattivo per se stesso“; era fratello di mia mamma: questa è la mia intelligenza!>>.
Anche in tal senso, in questo specifico esempio, sembra poco probabile che questi siano stati inseriti dalle figlie, le quali godono di un’istruzione tale da consentire loro di poter distinguere i corretti usi della punteggiatura; siccome, inoltre, questo passaggio non interessa terzi se non Peppino stesso, escludiamo che sia stato “maneggiato“ e corretto dalle figlie dell’uomo, come invece avviene nel biglietto d’auguri per la laurea della nipote Alessia o in altre lettere, le quali, essendo rivolte ad altri, sono spesso state riviste dalle due donne, al fine di rendere, come più volte detto, la lettura più scorrevole.
A proposito dell’impiego della virgola, si segnalano la lettera 8.2-XXII in cui essa separa, in un’elencazione di nomi, un elemento dall’altro, per poi assumere infine il valore del punto fermo a chiusura della frase e ad apertura della successiva: “la strata che saliva della turre labiamo / ziaia quattro Io, Calogero Conte, la / Signora Gina mmanna e famoso / chognato Antonino pinitto, u bonanima / di nostro fratello Antonino mia detto / stai atento“ <<la strada che saliva dalla torre l’abbiamo percorsa per la prima volta [sic. nsaiata, da nsaiari, lett. provarsi un abito nuovo, cfr.  Giarrizzo (1989, 232)] in quattro: io, Calogero Conte, la Signora Gina mmanna e il famoso cognato Antonino pinitto. La buonanima di nostro fratello Antonino mi ha detto “stai attento!“>>; ed il pensiero 8.3.1-VIII, in cui le virgole compaiono – sebbene non sistematicamente – con la stessa funzione nell’elenco dei fratelli e delle sorelle di Peppino: “eravamo quatro / fratelli e tresorelle. Langhiu / si grande si chiamava Concettina / laseconda Giuseppina poi cera / un fratello che si chiamava / Salvatore, Io, poi Antonino, / Lina é Paolino.“.
Segnalando la citazione di parole pronunciate da terzi tramite l’inserimento dei due punti, Peppino si porrebbe su un diverso livello del discorso narrativo, rivelando la propria competenza metacomunicativa. Tuttavia, vista l’assenza di questo atteggiamento nella restante produzione dell’uomo, dove, al contrario, come vedremo, egli passa con nonchalance da un piano all’altro, dobbiamo concludere che questo segno d’interpunzione sia stato inserito dalle figlie.
Sul perché del doppio inserimento della barra obliqua nella nostra trascrizione delle lettere, cfr. il capitolo 5.3.2 della nostra trattazione.
Non è men che meno pensabile che Peppino sia a conoscenza dell’opposizione tra le varianti standard /e/ ed /ε/, così come quella tra /o/ ed /ɔ/, e che tenti di riprodurla, a motivo della difficoltà regionale di distinzione tra l’opposizione di queste ultime due varianti aperte e chiuse, le quali nel sistema vocalico siciliano vengono neutralizzate, lasciando spazio alle varianti aperte /ε/ ed /ɔ/ (D'Achille 2003, 184) .
Ricordiamo, infatti, che durante il periodo militare trascorso a Casale Monferrato, all’età di vent’anni circa, Peppino soleva inviare delle lettere ai genitori rimasti in Sicilia.
Non prenderemo qui in esame il primissimo testo scritto di Peppino risalente al 2016, il biglietto d’auguri per la laurea della nipote Alessia, in quanto, presentando una notevole quantità di punti fermi estranei alle successive produzioni, è grande la possibilità che il testo ottenuto sia stato il risultato finale di suggerimenti, correzioni e manipolazioni apportate, per l’occasione, dalle figlie di Peppino allo scheletro del testo da lui elaborato.
Sulla particolare resa grafica della parola, cfr. § 5.3.4.
Cfr., a tal proposito, Ruffino (2001, 77-78).
A tal proposito è interessante notare, come spiega Spitzer, che i termini geografici estranei alla coscienza popolare vengono storpiati sul piano del significante, venendo paretimologicamente “assimilati alla meglio a parole italiane note, anche se prive di senso“ (Spitzer 1976, 38), costituendo una sorta di malapropismo, come vedremo in 5.5; la parola “Jugoslavia“ doveva certamente rientrare tra la serie di termini “esotici“ di difficile assimilazione e riproduzione per una persona dalla bassa istruzione quale Peppino, come dimostra altresì un secondo inserimento della stessa, “avicusgrauria“ (8.3.4-III), nel quale la storpiatura è ancora più evidente.
Parlando della nascita della seconda figlia in 8.2-XXIV, ad esempio, di fondamentale importanza per l’uomo paiono le parole: “Dottora“ <<dottori>>; allo Spetale“ <<all’ospedale>>; Lasignora Lucia Lavitrice“ <<la signora Lucia, la levatrice>> ossia la donna che assisteva la moglie durante la gravidanza; l’aggettivo Poveretta“, espresso compassionevolmente nei riguardi della moglie sofferente per i dolori del parto e alla quale è indirizzata la lettera.
<<Spero che la presente lettera venga a trovare a te. Io ti voglio tanto bene come tu vuoi bene a me e alla nonna, che ti vuole bene. Tu sei intelligente […] mi ricordo quando, ’nsanitate, è venuta a mancare la tua nonna Nunzia, gli hai chiesto alla nonna Nina se si era dispiaciuta e lei ti ha risposto “certo, gioia“. Adesso ti salutiamo, io e la nonna che anche lei ti vuole tanto bene e ci dico presto ci vieni a trovare tu. Ti abbracciamo baciandoti>>.
Le maiuscole sono, infine, impiegate pressoché regolarmente per i nomi dei mesi dell’anno, che di norma dovrebbero essere scritti in minuscolo: “gennaio Febraio Marzo A Prili Magio Giugno Luglio A_gosto Settenbre Ottobre Novebre ĕ Dicenbre: “, 8.3.2-V; e con le lingue (parola anch’essa riportata in maiuscolo), come si nota nel frammento precedentemente analizzato (8.3.1-VII): “Inglse Tedec Te Tedesco è Fra / è Francese Italiano / Inglese Tedesco é Francese? / Mia Nipote Parla queste / l Lio Lingue“.
Allo stesso modo, si potrebbe ipotizzare una certa difficoltà nella resa grafica della lettera <j> riscontrata nella scrittura della parola “Jugoslavia“; in questo caso, però, sembra più plausibile credere che Peppino non fosse a conoscenza di come si scrivesse questa parola e che la conoscesse avendola sentita nominare a qualcuno, possibilmente durante il suo soggiorno militare in Piemonte; non avendo dunque idea dell’implicazione della <j> nella denominazione di questa nazione, Peppino la riporta graficamente realizzando quello che si caratterizza come un malapropismo, come precedentemente accennato e come vedremo più approfonditamente nel capitolo 6.3
Per quanto riguarda il nesso <gh> – presente in “ora voghio finire“, ora voglio finire (8.2-IV) – si nota come esso rifletta l’interferenza dialettale del verbo sic. vogghiu, il quale viene trasposto all’italiano voglio, e come la forma risultante rifletta una commistione di elementi da entrambe le lingue. Il nesso viene altresì trascritto in “Langhiu / si grande“, la più grande (8.3.1-VIII): è evidente l’interferenza con il siciliano a cchiù ranni, forma che qui appare, però, ipercorretta o risultante da un’assimilazione della <g> ad una possibile nasale velare sonora /ŋ/ che la precede.
È bene qui precisare, però, che non si tratta di un fenomeno sistematico nel corpus: più volte Peppino va a capo dimenticando di segnalare il procedimento apponendo il segno ( = ), come, ad esempio, in in 8.2-XX: “cimancha / va un ferro“ <<gli mancava un ferro [allo zoccolo]>>.
Si notano, inoltre, dei casi in cui l’uomo va a capo, magari rispettando anche la corretta divisione in sillabe e segnalando l’evento tramite il segno ( = ), dimenticando, però, di scrivere nel rigo successivo la sillaba da riportare, come in 8.3.3-II: “e mipia= / tanto“ <<e mi piace tanto>>; o in 8.2-XX: “u banani= / di donturigu“ <<la buonanima di Don Turiddu>>; fenomeno di distrazione dovuto forse alla fretta e alla foga di Peppino nello scrivere.
Per rendere maggiormente l’idea, essa potrebbe ricordare il suono che in inglese viene reso con la vocale breve /ɪ/, di will, rabbit, Latin ecc.
<<Cara Alessia, ti scrivo queste due parole per dirti che sto bene di salute e così spero che stai bene anche tu e i tuoi amici e ti voglio tanto bene come tu vuoi bene a me. Ti saluto e ti dico che mentre dormivo, ti ho sognato, ho sognato che mi abbracciavi. Non posso scordarmi mai di te, tu sei una ragazza tanto intelligente, ed è per questo che mi vuoi tanto bene, perché perché vedi che io ti voglio assai bene. Non mi prolungo più. Ciao, a presto. Intanto allungo ancora: la mamma è uscita fuori con la zia. I saluti ti mando di nuovo, ciao, e ti saluta anche papà>>.
Con il passare del tempo e con l’esercizio della scrittura, tuttavia, Peppino pare acquisire maggiore confidenza con la forma “tuoi“, che appare trascritta correttamente più volte nel corpus, sebbene non sia esente da problemi relativi all’accordo, come vediamo in una lettera scritta nel 2018 alla nipote minore, in cui si legge: “timeriti tanto ririspetto di tutte Noi le Nonne ele Tuoigenitore“, <<ti meriti tanto rispetto (da parte) di tutti noi, (dal)le nonne e (da)i tuoi genitori>> (8.2-XIX); in questo passo notiamo ancora la tendenza di Peppino a rendere la -i finale indistinta con -e (tutte Noi, <<tutti noi>>; genitore, <<genitori>>) e ad accordare le desinenze dei relativi articoli impiegati sulla base di queste (leTuoigenitore).
<<Carissima nipote Alessia, ti scrivo questa lettera per dirti che sto bene di salute e così spero che stai bene anche tu e ti dico che la nonna sta anche bene e io dico che certamente ti vuole vedere. A lei piacerebbe che tu le stessi sempre vicino e ti dico che quest’oggi tuo papà e tua mamma ci hanno fatto una sorpresa. Io non li aspettavo perché sapevo che sarebbero venuti per il santo Natale e invece sono venuti quest’oggi! La badante mi ha detto che c’era Carolina e invece c’erano tuo papà e tua mamma. Non mi prolungo tanto e ti dico ciao a presto, tantissimi saluti e baci. Ciao. E adesso, carissima nipote Alessia, ti scrivo un racconto antico, per esempio, tanto per farti capire: c’erano tre fratelli, come, per esempio, nella nostra campagna a Milè (noi la chiamiamo Milè, però sulla mappa si chiama Liazzo) e lavoravano, questi tre fratelli. È passato un signore, ha salutato ed ha continuato ad andare avanti per la via e siccome [i tre fratelli] erano indietro di senno [stupidi], si stavano impasticciando [azzuffando], dicendo: “Quel signore ha salutato me!“. Tutti [e tre] dicevano così. Uno dei tre ha detto: “Andiamogli a domandare a chi ha salutato“, allora quel signore ha risposto: “Ho salutato quello [più] fesso che c’è“ e domandava loro a chi fosse successa la cosa più stupida [per decretarlo]!>>.
Di particolare interesse in quanto presente nell’unica lettera in cui Peppino si rivolge dando del Lei al destinatario, esprimendo intenzionalmente una dovuta distanza diafasica: “levogliono tutti Bene perche Lei / vole Bene a laltri quindi quindi ci dico / che ciá una buona fama“ <<Le vogliono tutti bene perché Lei vuole bene agli altri, quindi Le dico che Lei ha una buona reputazione>> (8.2-XVI).
Un fenomeno similare potrebbe essere riscontrato anche nella formula di chiusura della lettera, in cui Peppino scrive Tantismi Salute é Baci“ <<tantissimi saluti e baci>>, fenomeno che potrebbe all’apparenza essere letto come esempio di un mancato accordo tra un aggettivo ed un sostantivo, fenomeno tipico dell’italiano dei semicolti (Mocciaro 1991, 35): se infatti la desinenza plurale di tantissimi è correttamente accordata con quella di baci,  essa non lo è rispetto a quella di saluti, sostantivo che nella resa di Peppino presenta una -e finale. In questo caso, però, pare probabile che lo scambio tra il sostantivo femminile singolare salute e il maschile singolare saluto (al plurale saluti) sia causato dalla riproduzione su carta del continuum fonico parlato, il quale prevedrebbe un’assimilazione tra la -i siciliana indistinta in fine di parola (che, come detto poc’anzi, facilmente assume in ogni caso nella produzione dell’uomo il carattere di una -e finale) e la congiunzione “e“, risultando nella desinenza -e del sostantivo saluti.
Si noti, inoltre, che questa frase resa all’imperfetto in siciliano può anche essere tradotta in italiano con il passato prossimo: quel signore ha salutato me.
Se si volesse creare una frase marcata in siciliano, basterebbe infatti spostare il verbo dall’ultima posizione; nel nostro caso, una frase sintatticamente marcata sarebbe: quel signore salutava a mìa; o ancora: a mìa salutava quel signore.
Sebbene si segnali la presenza di alcune frasi secondarie introdotte da “che“: “ti scrivo perdirti che sto Bene di Salute“; “spero che stai Bene Anche Tu“; “Tidi_cho chela Nonna sta Anche bene“ ecc.
Si noti, tra l’altro, l’impiego di una struttura analitica come “indietro di senno“ anziché di una sintetica come “stupidi“, fenomeno caratteristico degli italiano dei semicolti (D'Achille 1994, 73).
<<Carissima campagna, io Fazio Peppino Rocco vorrei stare sempre con te però non lo posso fare e mi dispiace ma devo essere paziente perché le (mie) figlie non mi hanno fatto prendere la patente e devo dipendere da loro [sic. grammizio, termine arcaico riportato in Giarrizzo (1989, 169) come grammizzi‘, loc. avv. <<molte grazie>> dal fr. grand merci <<mille grazie>>; da questa locuzione avverbiale proverrebbe il modo di dire stari in grammizio ri carcunu, ossia, <<essere alla mercè di qualcuno, dipendere dal suo volere ed essere dunque in obbligo di ringraziarlo per la sua benevolenza]. Se io me ne vado [sic. pàrtiri] da solo, a piedi, la gente mi prende per stupido, a me e alle mie figlie. Però io una volta buona sono andato (da solo). Prima che arrivassi in campagna, c’era un signore con sua moglie; mi è arrivato da dietro e mi ha detto: “Dove va?“ – “Vado a raccogliere[sic. cògghiri] un po‘ di fichi“ – “E le sue figlie?“ – “Loro, quando vedono che non ci sono più gli stivali [sic. scarpuna], lo capiscono che sono andato in campagna“. Infatti mia figlia Antonietta se l’è pensata e mi è venuta a prendere. Io sono Fazio Peppino Rocco, Galati Mamertino 29 Dicembre 2018>>.
Un altro esempio dello stesso fenomeno è offerto nella prima lettera: “Luei cipiacesse che stavi Tu senpre / vicino a Lui“, sebbene esso sia riferito alla moglie, dunque coniugato alla III persona singolare.
Facciamo qui riferimento alla specifica varietà galatese, in quanto, se è vero che la costruzione dialettale siciliana più diffusa per esprimere il periodo ipotetico dell’irrealtà è quella, come detto sopra, del cong. imperf. + cong. imperf., è altrettanto vero che in altre zone dell’isola esistono forme al condizionale come vurrìa <<vorrei>> e farrìa <<farei>> (cfr. Ruffino 2001, 62), diffuse ad esempio a Messina e, per continuità spaziale, nella vicina Calabria (cfr. Krefeld 2019).
Si noti che questo costrutto assume sì primariamente il valore della forma modale italiana dovere+infinito, ma esso può anche assumere il valore di futuro: a differenza dell’italiano, infatti, il sistema verbale siciliano non presenta delle forme sintetiche per esprimere il futuro, il quale viene invece reso o tramite l’impiego del presente indicativo, o, appunto, tramite l’impiego di forme perifrastiche quali il costrutto àiu a + infinito, spesso seguito da un complemento di tempo come dumani <<domani>> o doppudumani, <<dopodomani>> (per un ulteriore approfondimento, cfr. almeno Ruffino 2001, 62).
Si noti qui l’interferenza, nella resa del sostantivo italiano figlie, con il sostantivo sic. fìgghi, valido ad indicare sia il maschile che il femminile.
Frase in cui spicca, per altro, l’uso anch’esso tipico del parlato informale del dativo etico, indicante un particolare coinvolgimento anche affettivo del parlante nell’azione espressa dal verbo, in questo caso tramite l’inserimento del pronome “mi“ (cfr. Cignetti 2010).
<<[…] Io mi ricordo quando mi prendevi le scarpe, non lo dimentico mai, e quando eravamo in campagna, [quando] ti ho detto di porgermi l’accetta [sic. ccittuni] [e appena me l’hai] porto sei andato a trovare la mamma. Io, siccome non ti trovavo più, sono sceso dall’albero pensando che andavi nella cisterna [sic. gèbbia], mentre invece eri con la mamma e me ne sono ritornato sull’albero, l’accetta me la sono messa alla cintura [sic. cintu] e così è come andò la faccenda. Io mi ricordo anche che passavi nel canaletto dell’acqua [sic. saia] […]>>.
<<Io ricordo quando tu dicevi alla buonanima della mamma (nzanitate): “mamma, ’sta botola [sic. catarrattu] aperta con la tenda abbassata è pericolosa per la figlia Natalina!“ (o per la figlia Antonietta, non me lo ricordo) finché la figlia Natalina non è caduta di sotto, in cantina [sic. suttano]. Tu eri incinta e dallo spavento hai abortito e allora io, che lavoravo alla casa di sopra di Lina, qualcuno mi è venuto a chiamare che dovevamo andare all’ospedale a Sant’Agata di Militello e mi ha accompagnato la buonanima di Gino Serio (nzanitate) e con noi c’era la signora levatrice. L’autista le ha detto: “a quantu ama iri? [a quanto dobbiamo andare?]“ e la signora Lucia, la levatrice, ha risposto: “volare!“ e allora l’autista ci ha detto “mettete un fazzoletto fuori dallo sportello“ [lett. “uscite fuori un fazzoletto fuori dallo sportello“] e ricordo che i dottori pensavano che avessi abortito apposta e tu, poveretta, gridavi dal dolore>>.
Cortellazzo spiega, infatti, come questo italiano si riveli “del tutto inadatto ad esprimere concetti estranei alla minuta, anche se ricca, esperienza popolare. Quando lo fa, diventa goffo e confuso, dovendo ricorrere ad un complesso terminologico non suo, ma calato dall’alto e male assimilato“ (Cortellazzo 1972, 16-17).
Dal verbo abburtìri, derivato dal sostantivo sic. abbortu, dal lat. abortus, intempestivus ortus (Pasqualino 1987).
<<Carissima Alessia, ti scrivo questa letterina per dirti che sto bene di salute e così spero che stai bene anche tu e ti dico che sei un’ottima nipote, tanto intelligente, ed è per questo che mi ha dato tanto piacere che ti sei laureata, anche a tuo papà e a tua mamma, e hai dato tanto piacere anche alla zia Antonietta. “La persona vale per quello che sa“, diceva (nzanitate) il tuo bisnonno[sic. catananno], “un uomo vale per quello che sa, se non sa niente è un ceppo di castagno“. E tu non hai bisogno che te lo dica io quello che devi fare. E speriamo che trovi un lavoro che ti piace a te. A me, personalmente, il lavoro mi è piaciuto sempre, da quando prendevo 15 lire al giorno e avevo circa dodici, tredici anni e mietevo il fieno nel comune di Troina. La prima volta che ho mietuto il grano, mi sono fatto un piccolo taglio [sic. tagliatina] al dito e il principale mi ha detto: “cammina“ [sic. camìna, ‚vieni‘]; mi ha portato a mettere le balle di fieno [sic. zegne] a dieci a dieci, io ce la facevo perché erano piccole. I grandi prendevano ottanta lire al giorno, mentre a me me ne ha date cento lire, per dieci giorni. Io non vedevo l’ora di finire per vedere com’era la piana che c’era più avanti. Mentre avevamo l’asinella incinta del cavallo, si ritornava. Siamo andati a Bronte. Per la strada ci incontrarono tre, quattro signorine che cantavano “vincere, vincere! In cielo, in terra, in mare. Le nostre labbra giurano: vincere o morire!“ e il tuo bisnonno ha detto “Figlie di buona mamma!“, perché erano imponenti. Mentre tu, carissima Alessia, hai tanto studiato e ti trovi bene. Tantissimi auguri. Se non ci penso io, chi ci deve pensare! Tuo papà con l’età è diventato bravo, tanti saluti. Tuo nonno  Peppino Rocco Fazio 24-11 2018>>
Non doveva certo essere uno spettacolo usuale per un uomo siciliano di paese vedere delle giovani ragazze cantare allegramente per la strada, tanto più se da sole.
<<20.18. Carissima Nipotina Marika, io sono tuo nonno Peppino Rocco Fazio. Ti scrivo questa letterina per dirti che sei bravissima, anche [se] sei stata un pochettino sfortunata precedentemente, quando vivevi a San Marco, perché pagavate tanti soldi per l’affitto e non potevi comprare tutto il necessario, mentre ora, per grazia di Dio, certamente ti senti meglio perché la fortuna, credo, che si è svegliata e hai preso un po‘ di respiro, per grazia di Dio. E questo, come immagini, a me mi fa il più grande piacere e adesso, parlando in italiano: tu certamente ti dai da fare certamente per quello che puoi e ti dico che si dice “chi vole fare una buona anzianità, deve fare un po‘ di propri sforzi“ e si dice che la persona vale per quello che sa, se non sa fare niente, diceva il tuo bisnonno, che cosa è? Un ceppo di castagno. E con le buone maniere devi dire alla tua mamma di mettere qualcosa da parte (soldi, intendo), perché le devi dire “al più presto mi devo sposare“; “le cose lunghe“, dicevano gli antichi, “diventano serpenti“ e tua mamma certamente questo lo deve fare presente a tuo papà e comunque spero che mi sono spiegato per bene, non mi dilungo tanto perché si dice “a buoni intenditori, poche parole“ ciao, tuo affezionatissimo nonno>>.
Il discorso s’ingarbuglia ulteriormente nella lettera 8.2-XXI, in cui Peppino cerca di incoraggiare il destinatario della stessa riportando un dialogo avvenuto anni addietro con il padre, nel quale, come in un meccanismo a scatola, è presente un ulteriore discorso diretto pronunciato in un altro meta-racconto inserito nel dialogo di primo livello. Anche e soprattutto in questo caso, di fondamentale aiuto si sono rivelate le figlie dell’uomo, oltre che la lettura ad alta voce, la quale ha talvolta permesso di ricostruire (tramite il tentativo di dare una certa intonazione alle parole) il senso dei dialoghi.
<<E io ti dico che quest’oggi tuo papà e tua mamma ci hanno fatto una sorpresa. Io non li aspettavo perché sapevo che venivano per il santo Natale e invece sono venuti quest’oggi. La badante mi ha detto che c’era Carolina e invece c’era tuo papà e tua mamma>>.
<<Carissima Signora Cettina, Lei è una brava signora ed è per questo che Le vogliono bene tutti, perché lei vuole bene agli altri. E Le dico che ha una buona reputazione presso tutte le persone. È questo che ci vuole, come Lei ben sa. Io non mi stanco mai di dire che è una signora per bene ed è giustissimo. Un fratello di mia mamma mi diceva: «chi è buono, è buono per tutti; chi è cattivo, è cattivo per se stesso» […] un uomo che ha due mila lire e le tiene tutte e due per domani, non è un uomo: bisogna essere previdenti per oggi e per domani. Così dicendo io finisco di scrivere perché si dice “ai buoni intenditori, poche parole“. Scusi se ci sono errori e profondamente ciao. E io più di tanto non so fare […] tanti saluti, il Suo amico Peppino Rocco. Grazie tante per avere tagliato i capelli a mia moglie Nina. Sono fatti benissimo e lei stava [buona] perché si accorgeva che Lei le voleva tanto bene. Ora dimostra vent’anni di meno. Lei, cara Signora Cettina, è assai brava. Io Le faccio tanti auguri, a Lei e alla sua famiglia. Tanti saluti, suo amico Peppino Rocco e tanti saluti da mia moglie Antonina. Grazie, ciao>>.
<<Io Peppino Rocco sono intelligente e quindi non ho bisogno della guida delle figlie. Siete voi che avete la guida da me. Tanti saluti a tutte e due, ai generi e anche ai nipoti che sono sicuro mi voglio bene come io voglio bene a loro. Grazie tante. E voglio che anche [voi] figlie siate intelligenti>>.
<<Io voglio andare in campagna per lavorare e i miei figli non mi [ci] vogliono portare. La campagna dice “dammi che ti do“ e l’aria della campagna fa bene alle persone e le persone fanno bene alla campagna. E si dice chi vuole bene a Dio deve rispettare i Santi. Le persone intelligenti capiscono bene quello che mi sforzo di dire io>>.
<<Carissima campagna, io Fazio Peppino Rocco vorrei stare sempre con te però non lo posso fare e mi dispiace ma devo essere paziente perché le (mie) figlie non mi hanno fatto prendere la patente e devo dipendere da loro [sic. grammizio, termine arcaico riportato in Giarrizzo (1989, 169) come grammizzi‘, loc. avv. <<molte grazie>> dal fr. grand merci <<mille grazie>>; da questa locuzione avverbiale proverrebbe il modo di dire stari in grammizio ri carcunu, ossia, <<essere alla mercè di qualcuno, dipendere dal suo volere ed essere dunque in obbligo di ringraziarlo per la sua benevolenza]. Se io me ne vado [sic. pàrtiri] da solo, a piedi, la gente mi prende per stupido, a me e alle mie figlie>>.
<<E ora che devo fare? Devo andarmene a piedi. Però il fatto è che la gente che mi vede prende per babbo a me e a tutta la famiglia: i generi, le figlie e i nipoti, tranne Paolo e pure un po‘ Marika. E si dice: “quando i parenti non possono soddisfare le proprie richieste [sic. serviri], bisogna rivolgersi agli estranei“. Tanti saluti Ciao>>.
Sebbene questo comportamento non sia stato sinora direttamente osservato, si potrebbe anche ipotizzare che Peppino abbia creato questi contenuti per la donna nell’intenzione di condividerli oralmente con lei, così come è solito fare con le sue altre produzioni lette ad alta voce di fronte al pubblico familiare.

8. Appendice

8.1. Biglietto di auguri per laurea nipote e lettere varie

I. 2016 “Io sono il Nonno Peppino. / tivoglio tanto bene. e tu lo sai. / perchĕ sei intelligiente per / questo seiaffezionata. Tiagoro / di trovare la strata giusta / e che piace sopraatutto a Te. / come spera il tuo cuore.. e di / chi tivobene, tanto, Mamma / Papà, e la Nonna Nina che ti / chiamava Regina / quando eri piccolina. / Tu non pui credere quanto / sono contento. Io perŏ credo / che Tu losai. / Aguri per la Tua Laurea. / Dottoressa Alessia. / Un bacio e a abbracci da Mame / e la Nonna. che non vedimo / l’ore di vederti. / Nonno e Nanna.“.

II. (2016) “Cara Alessia Tiscrivo queste due paro= / fle perdirte che stobene disalute / ĕ chosi spero chestai Bene an che / Tu e i Tuo Tue amice ĕ Ti voglio / Tanto Bene chome Tu voi Bene / A Mé Tisaluto ē Tidico che / mentre che dormivo Tío sognoto / che mia Braciavi non posso / scordta Mai di Te Tusei una / Racaza tanta inteligente / e pequesto chemivoi tanto bene / perce perce vedi che Io ti voglio / assai bene non miprollugo piu / Ciao apresto intanto allungo ancora / la Mamma e uscita fori conla / Zia lesalute te mando Io dinovo Ciao

eTi saluta ance Papa [scritto in verticale, a lato, su bordo della lettera]“.

III. (2016) “Carim Carissimo Gianni Tusei un / grande lavoratore lamattina ti arzi / amattina_ta per andare alla_voro / perŏ poi arrive stancho e ea Me non / mipoi portare in chanpagna o maguando / vieni lavori abbastanza tanto che / volevi la mia zappa e io To detto che mi / volevo passare il tenpo e Tu maidetto / che an_che Tu ti volevi passare il tenpo / e de e Io to detto telo chonpre° mentre / Nino non tanto lo ama il zappune / e perŏ mia detto che Tu ti ai scelto dove / facevi lorto a Me dove dai Io cio detto / Tu telo deve sceglire ĕ Lui sié scelto / al barro che e_ra piu vicino. Macho= / mungue cia an che Lui le parte / bone perche credo che il lavoró / telo fatto trovare Lui / e chonquesto ti dico che se mi porti / in Canpagna ti dico cho me si puta / lavigna e si dice chi zappa zappa nella / sua vigna chi bona zappa bona / la vinni_gna e si dice ti saluto bella / vi_gna ti o trova piena / di ramigna lavigna cia rrisposto / ti saluto bon patrune tio preso per / un granfissune se voi tenevai / toiaguni [nto iadduni, un rivolo d’acqua] e Io sono Tuo affeziona / tissimo Sogero ti voglio bene chome / Tu voi bene a Me Tu sei bravo chome / Pavolo e an che Marica è brava / ĕ quando Tua Nipote Maria ci di_ceva / andamo a chasa Lei ci diva la e chasa / cindica la chasotta dove Tu mia detto / convince Tonietta difare lacasa / la ē Pavolo tia detto si pero la / la mchi non passa pe che la di scesa / de lla non cho perta e Io mino fatto / mara viglia peche credovo che / Lui non apprendeva quello che dicevomo Noi […]“.

IV. (2016) “Io Pepio ieri sera non o mangiato / sta mattina misono sveglia presto / la lintigna melo mangiata ĕ pie mie piaciuta perche / era fatta bera bene se cene anco= / ra é la voi é poi farĕ la fai / gracie Tu sei una bavissima / casalinga bene bene bene cosi si / fă grazie vera mente. e basta / é fagiole con la pasta cosi dindo / fini sco di scrivere sequalche / derri comiciare rricamicio / tanti Salute senpre di Tuo / affeziona Papa chenon si stacha / mi srivere e neache dilavorare / basta cosi., ciao / di mencha didirte che sono una / perffeta pefetta ordina é Tulosai / per chei veeramente iteligentima / cio ĕ grazie dinovo Io spe chi / Diotida senpre questa bella / mamir Mamoria é costai  ăutare / te tuo sposo ituafigli inzomma / tutta la famiglia ĕ qua puoi / altre a Gente ora voghio finire / vera menta mentĕ ĕ pero mirroco / miraccomdo talefana  ā / Paolo Tuo figlio che meritevole /  ē melo salute e glidatanti bacione /  ē se Dio vole diventerà quello che / spera il Suo core é senpre cio dinovo“.

V. (2016) “27 febraio Io sono Tuo affeziona= / tissimo Papa chome Tu sei affezionati / ssima Figlia é ti scrivo questa / lettera per dirte che ti voglio / assai bene tanto che quando eri / piccola aivoluto che ti doveva portare / in chanpagna e ti offatto chonte / nta ti o porta ta a_biamo portato / la Mamma a chasa e siamo ritorna / te i Canpagna Tu a bastanza a feziona= / ta della Canpagna tanto che ti sei / fatta segretaria di zienda e questo / mi fa tanto piacere si tanta inteli= / gente charrigivi a Banna di ziao antoni= / no za nitate ĕ Io melo sono sognato / questa notte é misono sognato a che / la Nonna che cediceva che si doveva / spare e ricordo ti ceva di fare il coso / di ifirmera e tie in testata la chasa / e secome se stata senpre brava / ciai dato la metta atu Sorella / e Tua sorella ĕ tanto brava tanto / che mi portava i Canpagna quando / gli altri ritornavono mentre ora / sene andata e quindi non mipoportare / propia Nati non vada incanpagna / perce non é tanta affezionata peró / una volta e venuta cho Sarino unaltro / svelte tutte due anno stese le tende strata / e Sarino mie piaciuto chome cho / tolava lolive perce cho tulava chome / me in quel piede diolive saleva / Io salo / mentre poi salito Sarino e a scato lanca / e mie venuto da Me e ciodetto: didove sei / venuto“.

VI. (2017) “27 febr febraio Io sono Tuo / afeziona tissimo Papa Tu sei brava / e anche Patrizia e brava tanto / che Tua Sorella tela lasciata per / chonpagna e chorrege bene la / Mamma ti saluto dicendoti / che ai trovato unottima / chonpagna e ogni tanto porta / a Lu cha chee pia cevole / quando arriva mi bacia / non ti di cho altro ciavo“. 

VII. (2017) “Iio sono Peppino Rocco o beno amale / sono uno scienziato perquindi ŏ piaciere / discrivere una prossamitiva distudiosită / à Mia Figlia Natalina fai faciŏ guel / che posso ē glidico che framarito ē / moflie civole una bella conpresione / ē cosi entrerà una bella bna buna / bonavelenza per quindi bisogna / sforzarzi un poco ē cosi solo si puō / andare avanti ē nello stesso tenpo / cidāti invidia a qualcuno che forse / vivole male ĕ sidevano scrivere / questi parole sugnu paza diciarasi / lacqua scinca in mia passica ittatorri / restà aconllo a chilafa ĕ casolo cosisolo potete / starami amice ē serene Fra Marito e Moglie / ē gli date tanto piciri alla / Cara Figliolă. / questo ē perte ē tuo / o tuo spo omarito come lovole chima= / re [a lato su spazio trovato disponibile]/ é cosisolo potete stare amice / ē glidatetanto alla piacere alla / Figlia che permē to vivole tanto / ē tanto bene ē chi volessere volutu / bene deve vobebeni aglitri altri chemondo / sarebe se non sivolebene / dovere ēidiritti scusate secisono ērrore / ē grai tanti ē tanta lamiainteligenza / è cosi piu ditanto non posso / ē chi vole bene a Dio rispetta a Santi / Io voglio bene il Patre Iovogliu bena / Ama Figlia a Figlia chelo sposato / é Patre che chimmo cheacomesso laretă Io / voglio beni atutta la Famiglia conziglia conziglia pirchi / pihi ĕ pirchi é cosi bastă“.

VIII. (2017) “Caro genoero Branchatelli Tu sei / una persona inteligente ĕ déperquesto / che tideve inpegnare difare perte / é tuvamoglie ĕ certamente pertua / Figlia chee tanta brava / è cosi solo mipoi tanto piacere / Amme e Io cercherò difare / qualchosa per Te ĕ sidicenelomondo / una Mano lava allaltra / ĕ tutte due lavono labella / facce grazie ē scusa le orrore […] e deve cerchere di sforziatisi no / fino aliti alimite del possibile.“.

IX. (2017) “Io sono un uomo Forte e lafortezza viene / della inteligeza li intelinza viene anche / del mangiare sopra alli atutto ĕ senza / Mangiare non sipuò lavorare e senza / lavorare non sipuò mangiarĕ sono / due cose unite la persona devessere uteile / persé é per tutta la famiglia ĕ anche per / altre si deve fare tutto quello che si può senò / sará una persona inutele, ĕ per quindi / tutti ci dobiamo dare da fare ĕ cho si / si pundare senpre avante°. Mussoline° cidiva ai suoi collaburatore°se vado avanti seqguitemi setorno / in_dietro sparatemi simiuccidono / vendivr ede per questo che civole / propio choragiŏ parlo chonte charissima / f Figlia Natalina che ciai ilnome / del Santonatale Tuononno diceva / civole choragio ĕ vino forté esenpre / chome di si deve penzare pesĕ ĕ / tutti il Mondo la desso parndo / initaliano cidevemandare tanti Salute / Tua figlia Alessia é tanti baci di / di Te ĕ di Mĕ enche al Tuo sposo / che sta facendo qualcosa per Lui ĕ pertutte / ci deve mandare tanti Salute ebaci / datutte lafa_Miglia Io penzo che Lui / leapprezerà tanto assai ciao Tuo / affezionato Ia Ia [papà] é scusa qualche orrore; / più di tanto non posso; ĕ stai tanta / T Tranquilla; novamente ti bacio é ciavŏ; / dimentichovo una chosa sideve rrispettare / osi operforzza; però se rispettono di volontà sua ē / la chosa migliore Io non mistacho / mai didirti ciao perŏ basta fagiole° / chonla pasta; perŏ cenna chosa / Io tivoglio vedere a cha più spesso / masono sicuro che questo lopenzi / anche Tū Tisaluto dinovo.“.

X. (2018) “Carissima Nipote Alessia tiscrivo questa / lettera perdirti che sto Bene di Salute / ē chosi spero che stai Bene Anche Tu / ĕ Tidi_cho chela Nonna sta Anche bene / ĕ Io di_cho che certamente ti vole vedere / Luei cipiacesse che stavi Tu senpre / vicino a Lui. e tidoco che questogi / Tuo Papá e Tua Mamma cié fatto una / sopresa Io non le aspettava per= / ché sapeva che venivano per il / Santo Natale ĕ invece anno venuti / questo gi la badtante miadetto che / cera Carolina é ivece cera Tuo / Papà é Tua Mamma nontanto miprollo= / go e Ti di_cho Ciaŏ apresto / Tantismi Salute é Baci Ciavo / é desso charima Nipote a Lessia / ti scrivo un ra choto anticho / peresenpio tanto pe farti chapire / cerano Tre Fatelle chome pesenpio / nella nostra chanpagna a mele / noi la chiamamo milé perō nella / mappa esce Liazo ē lavoravono / questi Trefratelli apasato un / Signore e a Salutato esene prolugato / perla vio ĕ si cho erana inditro / diseno si stavono ipasticcionno / dicen quel Signore mie Salutata tutti diceno chosi uno detre adetto / ci andamo addomandare a chi a salu= / tato aloro quesignore ci risposto o / Salutato quella fesso che ce e cidomanda= / va quello che piŭ ciera suceso di stupitagine“.

XI. 2018 “Carissimo Paolo Io sono Tuo Nonno / Peppino Rocco ti scrivo questa lettera per / dirti che sto tanto bene chomevoglio che / stai tanto bene anche Tu ĕ dirte sei / una ba bravissima Persona che sei / tanto affezionato ă tutta la Famiglia / é questo sară perché sei tanto in_telligente / e Io mirrichordo quando mi prendevi / le scarpe non lo dimenticho mai ē quando / eravomo in chanpagna tiho detto che porgesse / cittune porgiuto sei andato a trovare / la Mamma Io seicchome non tovi / o più o scieso dellabero penzando che andavi nella / giebbia mentre eri chonla Mama e mensono / ritonato sullalbero il cettune millo messo al / cinto ē chosi comedo la facenda / Io mirichordo anche passavi nella saia / ciai detto alla Mamma che cera la le gna / e lui ta detto dopo dopo ē poi eri gia / grande Iio todetto che civoleva falce / e Tu in unattima andato ăprenderla / ē in zomma sei tanto bravissimo / Io anche se non eri bravo tivolevo bene / lo stesso ma ē sendo bravo certo dipiù / ē voglio che viene presto macertamente / nei limiti del possibele. tantissimi / Salute° Tuo affezionato Nonno tivoglio / tanto bene chome Tu voibenea amē / scusa se ci sono orrori Ciao / 9 Febraio 2018 dinovo tanti Salute Ciao“.

XII. (2018) “20.18 Carima Nipoti Marka / Io Sono Tuo Nonno Peppino Rocco Fazio / Tiscrivo questa letterina perdirte che / sei Bravissima an che sei stata unpo / chettino sfortunata precidementa mente / quando eri a Sammarco perche pa= / cha vavo tanti soldi perlafitto ede / priva di chonprarti tutto il necessa= / rio mentre ora per razia di Dio / certamente ti senti Meglio per che / la fortuna credo che sie svegliata / e a i preso unpo dirrispiro per razia / di Dio e questo chome Tu telo ficuri / e Me mi fa il piū grande piacere / é a desso parlando initalino Tu certa= / mente tidai dafare certamente per / quello che poi e tidico che sidice / chivofare labuona anzianita deve fare / un po di propi sforzi e si dice che la / Persona va le per quello che sa senon / sa fare niente diceva il Tuo chatanonno / chicosa e un zu cho di chastagnera / e cholle boni maneri cideve dire alla / Mamma Tua di mette qua cho di soldi / daparte per che cidevedire al piu presto / mi de Sposa le chose longe dicevono / glianti diventono serpe e Tua Mamma / certamente questo lodefare pre sente / a Tu Papa e cho monque spero che / mi sono tanto spiecato non / miprolugo tanto per che sidice ai / Boni intennitore po che parole / ciao Tu afezionatimo Nonno“.

XIII. (2018) “Carissimo Melo Io sono Tuo zio Peppino Rocco / e ti scrivo questa lettera per dirti / che sto di ottima Salute e chosispero che / lapresente venga a trovare a Te che sei / tanto piu giovane da Me e le mando / tanti Salute atutte i Parenti e anchean mene cho_nzolo quando state bene / di Salute chome Me non mi prolungo / tanto per_che sidice ai boni intenditori / poche parole ti Saluto, quanto prima / ti voglio vedere perche sei un bravo / Nipote scusa secisono errori perché Io / piuditanto non sòfare e non mi stanco / mai di Salutarti per_ché sei tanto intelige= / nte e si dice chiébono se é bono per tuttei / mentre chié tinto é tinto per lui stesso conque= / sto ti Saluto. Ciao apre_sto.“ .

XIV. (2018) [Peppino credeva sarebbe stata spedita, la lettera era piegata in tre parti per fare in modo che entrasse dentro una busta]

“per la Lessia Brancatelli / Ale ssia / 2018 Galati Mamertino / Io sono Peppino Rocco Fazio / Carissima Nipote Alessia / ti scrivo questa lettera per / dirte che sto bene di Salute o cosi / spero che la presente lettera[inserito da figlia] venga atrovare / a Te. Io ti voglio tanto bene / come Tu voi bene a Me e la / Nonna che ti vole bene / Tu sei inteligente cho me tutta la Famiglia e an_che bella, / mi richordo quando / (zanitate) ē venuta a manchare / la Tua Nonna Nunnzia / gli hai chiesto alla Nonna / Nina se si era dispiaciuta / e Lei ti rrispota certo / gioia. adesso ti Salotu Io / e N e la Nonna che an_che / Luei ti vole tanto bene e ci di_co / presto ci venga atrovare tu / ti abbracciomo baciandoti / Ciavo apresto, e schusa se / ci sono errore. Nonno Peppino Rocco“.

XV. (2018) [Peppino credeva sarebbe stata spedita, la lettera era piegata in tre parti per fare in modo che entrasse dentro una busta]

“ Brancatelli Nntonino./ 2018. 11 Febraio / Caro Antonino ti scrivo questa / lettera perdirti che stobene cosi / spero anche tu. Timando tante / salute per dirte che tivoglio / tanto bene a Te e pure / Alessia che sono sicuro che / anchevoi mivolete bene a Me / Salute e baci ciao a Giugno ci / vediamo. Io sono tuo Sogero / Peppino Rocco Fazio.“.

XVI. (2018) “Carima Signora Cettina Lei ē / una brava Signora ē deper///questo / che levogliono tutti Bene perche Lei / vole Bene a laltri quindi ci dico / che ciá una buona fama di / tutte le persone questo che civole chome bene / lo sa Lei Io non mistanco mai / di dire che ē una Signora perbene / e de giustissimo. Un Fratello di / Mia Mamma midiceva chi / bono lei ē bono per Tutte mentre chi / ĕ tinto ĕ tinto per se Sestesso / il Bonanima di MioPadre midiceva / unomo vale per quello che sa se non / saniente che cosa ē un zucco dica= / stagnera ē midiceva a Me gli / omini si dividono in quattro chate= / gorie un uomini, menzi omini, umi= / ni gni ē quaqua ra quá Mio Patre / ē stato due volte ina_Merica / e con suo chognato e quando / prendevono la paga lemettevano / in sieme e la mandavono / una volta a chasa di Suo chongna= / to e una volta a chasa dilui / se///nó per fina che prendevono laltra / piga quella se la sprecavono perché sidice il / denaro non ciá lepiede e fugge / poi parlando parlando diceva / che unomo che [ha] Lire due mila / lire e le [tiene] tutte due mila per doma= / ni non ē omo si penza peroggi / e perdomani e chosidicendo / Io finisco discrivere perché sidice / ai bonintenditori poche parole / scusa se cisono errore e profonda / mente Ciao; e Io piú ditanto / non so fare quando Io andava / a scola chome potevo cheveniva / ladomenicha per menanda in chanpa / gna e quando Mia Sorella mia mandato / per scrivemi a scola mia detto / non ci deve dire che tichami Peppino / ci deve dire che tichiami Giuseppe / niente sapendo che al mucipio cera / Peppino Rocco Io ciò due nome uno / Rocco perce sono Nato per Santo / Rocco e Peppino perché Mio Nonno / si chiamava Giuseppe eadesso / parlando Iita_lino basta / chosi e mentre vado scrivendo vado / penzando Io ci facevo due giorni dilavoro / al mese a zappuliare il grano in / monta. Tanti Salute il Suo amico Peppino / Rocco / grazie tanto che ciha tagliato / i capelli a mia molglie Nina / sono fatti benissimo e lei stava / brava per ché siaccorgeva che / Lei lavoleva tanto bene ora / dimostra ventanni meno. / Lei cara signora Cettina / e assai brava Io cifaccio / tanti ag auguri allei ĕ alla sua Famiglia tanti saluti / suo amico Peppino Rocco e tanti / salute da mia moglie Antonina / grazie Ciao“.

XVII. (2018) “Carissima Alessia Tiscrivo questa / letterina perdirte che Stobene disalute. / ĕ chosispero chestai bene anche Tu e ti di= / co che sei onottima Nipote tantimo / inteligente e deperquesto chemiai / dato tanto piacere che tiselaoriata / an che a Tuo Papă e Tua Mamma / e ai dato tanto piacere anche alla / zia Antonietta. la personana vale / per quello che sa diceva zantati Tuo / chatanonno Natale un o mo vale / per quello che sa [se] non sa niente ē un / zucco di castagnera. e Tu nonai bisogno / che telo dico Io quello chedevefare. / e speriamo chetrovi un Lavoro chetipiace / a Te. Ame Personalmente il Lavoro / mie piaciuto senpre da quando prendevo [inserito in rigo sopra] 15 lire al giorno e / avevo circa dodici tredicianni è / metevo il fieno nel comune di Troina / la prima volta che mitevo il grano / mino fatta una picola tagliatina al dito / e il Principale adetto camina mia / mia portata amettere le ze gne adeci / adece Iocela favo perchĕ erapiccole / i gnandi prendevono Lire otta [ottanta] men / agiormo mentre a Me mie dato lire cento / tutte diecigiorni Io come potevo che finimo / la per vedere chomera la piana piŭ avanti. / mentre avevomo lasinina che era / incinta del cavallo si ritornava / ē siamo andato a Bronti per lastrata / cincontro Mo tre quattro signorine / che cantavono vincere vincere in / S Cilo interramare inostri labbra giu= no [giurano] o vincere omorire. ē il tuo / ‚cata Nonna adetto [figli] di bona Mamma / perchĕ erano inponente. / mentre Tu Cass ima Carissima / Alessia ai tanto studiato etitrovi bene / tantissimi Agurii senonpenzo Io / chi cideve penzare Tuo Papă con laită ĕ / diventato bravo. Tanti Saluti tuo Nonno / Peppino Rocco Fazio 24-11 2018“.

XVIII. (2018) “Carissimo Nipote Paoluccio tiscrivo / questa letterina per dirte chesono / contento chese un bravo Giuanotto / sei tanto inteligente tanto cheai / preso borse distudio ĕ aicomprato / a Papa e Mamma la machina ĕ quando / Io ciavevo 16 anni Mio Patrino midi= / ceva chi e bono ĕ Bono prtutte / chie tinto ē tinto persestesso / ĕ allorá Tucontinuva fare del / Tuo meglio non miprollungo / che sidice ai Boni Intennitori poce / poche parole ti Saluto Tuo / Affezionatissimo chome Tu sei. / a Fezio natissimo chome ĕ tidico / che quando chapita cidevedire / a Tua Sorella che devessere / brava si deve sforzare un pocettino / perŏ ai limete delpossibile tanti / Salute Tuo afezionatissimo / Nonno Peppino Rocco i Fazio le / Fazie Siabravi il Sindo Fazio / a fatto circa cinque turne di Sindico / Suo Sogero era pure a Vocato / é cidiva se sapevifare la Vocato chome / saifare il Sindaco era buono / e quando il Nostro limitante sinparoliamo / cho Suo Cognato avoluto che Iocindava / afare il testimone ellora la Vocato / Fazio a fatto una muttetta di un / dividovo cia detto giurate didire la= / verita niente altro chelaverita / si ingino chiato ē a detto signirura / e dera la prima sciena chicosta / per questo Signore niente sacio Sognure / davabattute che Si diceva qualche / minsogna per aiutare il Suo chiliete / é mia chiesto vero é Fanchina / zappa nel chognato Suo Io chorrispo= / to Ioneancheso chi zappa tamia quando / siamo usciti dili detto attentto vedi quanto / Tu o Calogera cidivovo che Mio / chognato zappa ta Me Io vinceva / la causa certo ciodetto Io poiguello / sela pillava e Mettacavono / fare tistimoni farsi scropendolo siva / incarcere oltre che uno fa un / pechato dinovo tesaluto ē mai / fare testimoni farsi. / Senpre Tuo affezionatimo Nonno / Peppino Rocco Fazio Ciao: / 26, 11, 2018“.

XIX. 2018 “Galati Mamertino 4•12 2018 / Carisima Nipotina Maricha che sei tana brava / cheIo ti vedo che fai tutto quello che / poi percio timeriti tanto ririspetto di tutte Noi le Nonne ele Tuoigenitore / e an che delle Nonne chugine e zie / per che ti fai volere bene ditutte / e chosi Noi tutte ti dobio fare chora= / gio ĕ chosi Tu tisente meglio Tu / oltre dei Genitori cia pure un / Bel Fratello chee Bravissimo tanto / che prende Borse di studii c e cie / chonprato la Machichina chon isoi / Soldi ē Lui Pavolo Tivole tanto / bene quantu Tu voi bene a Lui chosi / sifa una mano lava allaltra / ē tutte due lavano la Facce e cho / chomunque sie te tutte due Brave / e per questo che Io e tutti siamo chon= / tente ora che Io o scritto questa lettera / mi viprego di mettermi ipunti / Iosono il vostro affezionatimo / Nonno Peppino Rocco Fazio / Ciao“.

XX. (2018) “Carissima Nina Moglie / Nina Mg Moglie Tusai che il / destino nascie prima della Persona / Io ero dafargiaro di Barcellona / ĕ ciaveva non ri chordo seera la / Mula o era il laseno che cimancha / va un ferro cio detto che dimetterlo / Lui stava preparando una porta / di queste furne moderne Io cio detto / qui civole solo menzora Lui mia rispo= / sto a mezora a mezora passa la / giornata e di ceva che faceva poi / chattiva fi chura cholcriente ĕ non / mia messo il ferro e Iosera pe il / zapune aspettava / maper lamula o lasino che era mi / chontetavo di chammina Io schelso e d glia= / animale e alloro lo la sciato e mene / sono andato daunatro forgia che / manco farloaposta e que_llo che Tie / recalato la rasta quando Tu ai chonpiuto / novantanni e li cere il Bonanima / de Cogno Petro e li sie trova u banani= / di donturigu prizitu e m°a detto se / ciandavamo a zappa la vigna e sia / mo andati poi cho bonanima del / zinta de del Cognato Petro abiamo / fatto le parole mia detto chamora / che sei sposa no e chesei fidanzato / no ci o risposto ellora tela facio cha / pitore Io una Bona e ti anche il lo cha / per farti la Casa poi Tu se chome ciave= / vi le Capelli Bianche° chome sei sciesa / de lauto Busso mia fatto lanpressione / che ciavevi otto anni ipiu mapoi / quando ti_o visto divicino misono arragnato / per la ită il bonanima ziantate del / Cognato petro mia detto venire a / CasaT Tua e li anno palato perla chasa / Io ciedetto Pretro mida il locale e allora / la Bonanimi di Bastia[na] challora il locale / ti duna allora ci deveda uno luno / checentra voiseti challura Ioora/ adetto amiFiglia la marito a Galati / Il Bonanima di Pietro mia detto ota= / parlasti non telo do Io cioriposto ē / allora la scia le chose chome stanno / Tu ti se trovata di fronte a Me é ai fatto / il mali chore eallora cio detto Io Tua / Cogna la voglio e mela prendo min / freche de Te e il Tuo lo chale pero / poi cela dato uno mugrandi di quello / per che Io mi faceva senpre rrispetare / e quando cidovemo sposare Io chantava / ora sugnu filice assa assai chi la / Mamma ammia mavoli dari /Io Cara Moglie Finisco / dicendo chosi Io ora ti Saluto divicino / e ti Bacio perche Sei bella e Brava / ora scrivo una piccola chanzona / che si chiama penza penza per Noi / quandosaremo lontani ta Trarruil / emericha su Canpo del lonorae / e quando lagu Guerra e finita / choperta digiolerea cidobiamo / la scia ritornerō ti Bacerō / Ti porterō un Bel fiore e tenetolo / persenpre nel Corĕ“.

XXI. (2018) “2018 Io sono Peppino Rocco Fazio ti scrivo / questa bella lettera a Te Patrizia per / dirte che sei Figlia di Antonino Fabio e / sei in_telligente chome Tuo Papā Io= / ti voglio tanto bene perō  Relativamente / Mia Moglie ti vobene piu di Me / perché sia chorge chela chorregi / bene. ĕ Iovoglio ben a Te ĕ i tuoi / Figli ā Tu sposo lovoglio bene / lo stesso a n che sieti divisi / forze é superbio perō la superbia vada / ă cha vallo e ritorna a pedi / ĕ chilo sa see pentito di chome sie / chonportato? é poi tidico che prima / non penza allultimo sospira /ĕ ti dico che deveesserē senpre choragiosa / Mio Padre a Me midice cenai choragio / Civile é Io ci rispondeva certamente / Mio Nonno a inpara s Te choragioso é / Tu mia inparato a Mē / é miricordo / quando Tu gliaidato un chorpo di Zappulla / a donzettimo perché lui apresa la / Mamma per il bracio dicendo / fori del mifondo poi il Cognato didon / zettimo tie diviso tie portato entra dove / neavono segnato distare noi afermato / la porta ĕ allora donzetimi sela prende= / conoi forza andate mentu cisei / lovata la firmaturo ĕ sei u scito chol / triddente in cho llo e cie fatto venire / la gialina poi passani i vicini / chasa dei Tu ovoi [tuoi] chongnati / ĕ sovenuti e ti ano dette / mentre che loro sodentro Tu / Teneviene chonoi ĕ il dottore cie dato / dodici giorne per guarire é Noi per / non ci trovare i Carabinere cene siamo / andati a mile ĕ faciavomo duecose / lavoromo énon citro vono ĕ Tu il / chorpo di za pulla glie leado ă strisciare / perce lui aveva talente [sic. lente, occhiali da vista] ĕ seciro / pevi la lente [se gli rompevi gli occhiali] prendivi penalită / di piu ti saluto Patrizia ĕ tivoglio / tanto be per che sono una / persona perbene tisaluto Ciao /Si continuva Cara Patrizia quando / Mio nonno andava ă cercare lavoro / nella salita ceserŏ sifevano un pō / di erba perlle chavarcature ĕ il / chonpere [sic. camperi <<campiere, uomo preposto alla vigilanza di un fondo>>] cie dato di chulazo difucile / e lla Mio [all’amico del nonno] cie tirata chorpodipietra / ĕ ci a fatto charcare il fucile / attera [al campiere] po sie lovato choppila [sic. còppula] ĕ / messo un facioletto rosso in Testa / ĕ dicendo che stato birbante / se lo chapito lo faccio pezizi / glialtri sono tutti scappati / me lui non lascia li lo amesso / acavallo su lasino ĕ loporto / alla sua famiglia e li annorigraziato mentre i suogni [i suoi compagni] lo anno spetta circa / treore piu lontano“.

XXII. (2018) “Galati Mamertino Dicenbre 2018 / Galati Carimo Fratello Paolino / Tu sei una persona previgente / quando Io o preso lamacchina la / prima volta il nostro fratello Antonino / zianitate mia fatto prenderla / dove cera lastrata per parrice é / o fatto la churva delcastanito senbrava / chera lasinella poi la macchina eva / chammi nando piú presto ma Ionon / guarda in basso poi per grazia / di Dio o trova il freno cera una / frana ĕ il fratello Antonino mia detto / si ferma per chē cera frano nō / cio detto Io otrovato il freno seno / frana saltava poi mia detto / chera pentito che fece porta la / ma china e ri chordo che miai detto / Tu avanti prendete sa ma china / é te ne vai ĕ miai segito credo / con la Tuma china e staviattento / chosa facevo é posiamo lasciato / di lavorare ĕ partemma per / milé e Tu stavi attento chome / portavo la ma china Io e miai detto / alesaicanzare le macchine ellora / fai tutto Tu Io quando eri al / ma chanico miai dato lanprissione / checonlepedi sonavi la fisarmonica / la strata che saliva della turre labiamo / ziaia quattro Io, Calogero Conte, la / Signora Gina mmanna e famoso / chognato Antonino pinitto, u bonanima / di nostro fratello Antonino mia detto / stai atento che qui lamacci vada / arrivare [lett. va ad arrivare] nel muro di sopra Io non / lo fatto arrivare perō si ritornama / sotto il stratale pero non a battuto / poi cera un bello banco e sie fermata / Io cio detto al fratello tiseifatto male / no ĕ allora non ti precupare lamachina / tonna chonpramo poi amo passato / dal ma chanico don Vasile e ciadetto / chosa ai fatto nente ci fa cera detto il / fratello Antonino ci favo porta / la ma china a Mio Fratello e lui / cia rrisposto bella strata per / fare scola Guida“.

XXIII (2018) “Cas Carissima Canpagna Io Fazzio / Peppino Rocco volesse stare senpre / conte perŏ non lo posso fare e mi / dispiace ma deva fare pacenzia / perche i Figli non mianno fatto / prendere la patente ĕ devao stare / ingrammio di Loro sei Io parto / solo appedi lagente miprendo per / stupito a Me e i Miei Figli perŏ / Io una bona volta sono partito / prima che stavo arrivando alla / chonpagna e cera un Signore / chon Sua Moglie mie arrivato didietro / e mia detto dove u vā ado chogliere / unpo di fico e i suoi Figli lu Lui quando vede / che non ci sono i scarpuna lo / penzono che sono andato incapa / gna infatti mia Figlia Antonietta / sela penzato e mie venuto aprende / rmi Io sono Fazzio Peppino Rocco / Galati Martino 29 Dicenbre 2018“.

XXIV (2018) “Galati Mamertino 30 Dicembre 2018 / Carissimoglie Antonina Tusei Bella /  ĕ Brava Io so il Tuosposo ĕ cia biamo / due Figli Belle e afizionati Ioricordo / quando Tu ci dicevi alla Bonarma / della Mamma zanitati Mamma / su chatarratu a vertu chon latenna / chalata ĕ pericoloso per Figlia Natalina / per la Figlia Antonietta non melo / ricordo fince la Figlia Natalina / sie buttata nel sottano éri incinta /  ĕ del scanto ti sei sbuttita e allora / Io era che lavorava nella Casa / lasopra dil di Lina e quacuno mie venuto / aciama che dovettomo andare allo Spetale / a Santacita di Militello ĕ mia portato / il Bonanima di Ginu seriu zanitati / e cho Noi ce cera Lagnora lavatrice / lautista ciadetto aquantu amairi / e cia risposto Lasignora Lucia Lavitrice / volare e allora ciadetto lau Tista / uscite un facioletto fora dello sportello e ricordo che le Dottora sipenzavono / che avevi sbuttito apposta e Tu / Povoretta bramavi dal dolore e Io / mi facevi pieta ellora penzava / di non mettere piŭ in cinta Tu piŭ brava / di quanto eri non potevi essere ance / a desso parlando in Ialiano ē / se Brava aceora sidice del panno / fina peza e de Lolio fino a Fezia / la Figlia Natalina Tia cecato una Brava / Baante chome T ulovedi cheti rrispeta / Lui lovedi che Tu tipasuvati e Tu ti fai / rispettare a Te tivogliamo tutte Bene / e Tu voi Bene laltre Io non miprollungo / ta perce sidice ai Boni intennitori poci / parole Io e i Tuoi Figli tiamamo assai / propia e nello stesso te tutti i Parente e ance / la Badante e bata cosi Io tidico ciavo quando / vado incanpagna“.

8.2. Memorie e pensieri

8.2.1. Su se stesso e la famiglia

I. SENZA DATA “gli omini sidivino inquatro chatogorie / omini menzi omini umigne ĕ quaraqua / midiceva il Bonama di Mio Papà / zanitati un omo vale per quello che / sa senon sa nente chi é nu zudi / chastagnera. é Mio Patrino midiceva / chi bono ĕ bono per tutti ĕ chi ĕ / tinto e tinto per Sesteso; era / Fratello di Mia Mamma: ? questa ĕ la Mia inteligenza?“.

II. SENZA DATA “Io sono / Peppino Rocco Fazio e misento essere / in Tenigente le Fazie siamo quasi / tutte inteligente come Il Sindico / Fazio che a ffatto circa quatro turna / di Sinduco ē poi se cho era intito / la bravo sianno messo ā racoco / rccogliere vote facendo a chapire / che le cercavono per i Sindaco / mentre le rracoglievono per una ltro / e cho si lo anno fatto perdere / ĕ poi quello che ra choglieva levote / per unaltro e andato da Lui / penzando che Lui non lo sapeva / e allora ciadetto vattene traditore“.

III. (2016) “Io una Vocato di nome Fazio / quanl ciai dibi chiama a Me / sperò che ti facio vincere la Causa / grazie ĕ però mirra chando / non chabiare a Vocato per che il / migliore sono io? tanti Salute“.

IV. (2017) “Io Peppino Rocco sono in= /teligente e quindi non ŏ / bisongno laguida dei Figli siete Voi che / avete la Guida dime Me / tanti Salute atutte due ē / ai geniri e anche a / N Nipoti che sono sichuro / mivogliono bene come Io / voglio bene allorò / Guazzie tanto / evo gio che anche i Figlie dovete / essere inteligente“.

V. (Gennaio 2017 – datazione riportata da una delle figlie) “Io Peppino Rocco sono unomo che / voglio che sista bene in tutto / il Mondo ēdecosi che siva avante° / speriamo senpre bene; ē a desso / scrivo una muttetta: na fimmina / bugiarda mia lasciato intra nubu= / carellu sineandato ē tira tira u ciucia= / relu sta charritella tirila tù; / Tumigiurasiĕterno amore ĕfedeltà / ĕ dora misfugi senza unobra di pietà / come la qua del torrente passi ĕ vai / lontano da Me él Core perduta_mente / lotrascini via con Te;“ .

VI. (2017) “Peppino Rocco Fazio ĕ sō che quando / nascieva un bin binbo o nabinma / cera una donna inziana è cio / ci diceva bello distinoto è quindi / cé il destistno Io personalmente / mi volevono ta per Fidanzato / ĕ poi Io éra al furgioro che cima / ncava un ferro non ricordo sera / lasino o era la Mula il furgiaro / non lavoluto mettere è llora Io / seera per la zappa non tanto mi / portava chaminare lasino o Mula / che era mi chontinta di chamire / senza scarpe e o chamiato furgiaro / sono anda al Signo Geche murtisario / e li cera donturi Prizutu mia detto / vo venire a zappare la vigna da / Me si cio detto e ramo in due / Io mio Cognato Petro Triscari pero / ancora non e chognati emia detto / chamora se Fidanzato no ciodetto e / Lu mia detto tela facapitare Io / una bonissima fidanzata e / pure mia detto che midava il locale / per farmi la Casa poi quando / siamo andati pe fare parllata mia / detto un Fratello dimi Moglie ĕ chasa / cio ditto Petri mida il locale farmi / la chasa e risposto chongna Mia / non po essere allora ci deve dare / uno luno che centra cio detto Io tuse / ha challora Io omi Figlia la sposo / a Galate Mio chongnato mia / detto ota parsti non te lo do ellora / ciodetto lascia le chose chome stanno / mio Moglie si trovo di fronte e / fatto il ma Core allora Ioodetto / che Mia Moglia e gia afezzionata / e allora cio detto Io Tua chognata / la voglio e me prendo mi n preno di / Te e i lachale pero pomiadato unaltro / piu ggrande di quello e Io mifacevo / volere bene. e basta faciole chon pasta“.

VII. (2018) “Inglse Tedec Te Tedesco è Fra / è Francese Italiano / Inglese Tedesco é Francese? / Mia Nipote Parla queste / l Lio Lingue: dovevo scrivolo prima / sio sichima Alessia / Brancatelli ĕ andta / andata anche in ameca / come mio Padre ĕ andato due volte / inamerica ediceva che non cerà / tanto lavorò / edera con suo Congnato ĕ quando / ĕ facevono il vaglio ĕ lo manda= / no a casa le le mettevono assi e= / me perche seno fin che prendevo= / no laltra paga quelli sele sfrica= / vano [sprecavano] il denaro non a piede é / intanto fugge“.

VIII. (2018) “Galati Mamertino 11//12//2182018 / Io mi chimo Peppino RoccoFazio / Mio Papa sichimava Natal / Fazio, mia mamma Rosalia / Smiriglia. eravamo quatro / fratelli e tresorelle. Langhiu / si grande si chiamava Concettina / laseconda Giuseppina poi cera / un fratello che si chiamava / Salvatore, Io, poi Antonino, / Lina é Paolino. era piu picco / lo e senbrava piu grande e / grande di Lani e llora io penzavo / quando venimo de canpagna io ciodetto / alme questa camina per che senbrava / piu piccola invece e ra pu grande / mio Padre miportava a lavorare / miportava allavorare al Comune / di Troina ametere ifieno non si / usava dare il vino ma siccome / ciaveva la vigna di suapropita / cipassava il vino a me seccome / e ra ragazo il bicchere melo / faceva menzo. E quando miapato / mia dato meza paga mio Padre / adetto io losapevo chetidava menza paga subichere del vino chetelo / [faceva] menzzo e poi quando siamo arri= / vato a Catinanova inon avevo / mai metutti [mietuto] i lavure [il grano] e misono / taglia il mignolo allora mi / detto il principale camina / con me mia messo ammettere / le re gni a dici a diece icila / facevo pe che le rengne [regna= covone, fascio di grano] erano / piccole e io facevo ditutto / i grandi prendevono un chilo / pane algiorno e un litro / divino e lapa  [la pasta] lasera mentre / io mancia chosi eramo / inuna chontrato che si chimava à / spara chogna ĕ afumare le man / davono sotto il ponte perce ciave / vono paura per foco io come / potevo chinivamo dila per vedere / chome e pù avante pero sicome / ciavevo lasina in cinta del / cavallo siritornata e siamo / andati a Bronte perla strata / cisono in chontrati tre o quasignine / chantavono vincere e vinceremo in Celo Terra e mare i nostri / labra giuruno o vincere / o mirire / e me per diece giorni mia dato / so [solo] cento lire poi a Bronte o / chonprato unafalce germanese / [tedesca] e meteva sola lire 25“. 

8.2.2. Sulla campagna

I. SENZA DATA “LaFiglia Natalina fale cose per / bene ma poi risurtono di spiacente / e mirta mi///porta in chanpagna / quando gli altri ritornono“.

II. SENZA DATA “il Paese prima lo chiamaero= / no terra ĕ dicevono gli / anti_che la terra che era / il paese sottarrava la / canpagna chonpa dinovo la / terra sotterra“.

III. SENZA DATA “Lacanpagna dice dammi chi ti dugnu“.

IV. SENZA DATA “Io voglio andare incanpagna per / lavorare ĕ i Miei Figli non mivo= / gliono portare la Canpagna dice dammi / che tido ĕ Laria della Canpagna fa / bene alle Persone ĕ le Persone cifacia / mobene alla Canpagna. é sidice chi / vole Bene a Dio deve Rispettare I Santi / i Persone inteligente Capiscono bene / quello che misprimo a dire [mi sforzo di dire] Io; / chontivo gli Omini sidivino in quatro chatecorie / vuUmini omini menzini equaquarà cha un Vomo / vale pr quello chesà senon sa niente e un zucco / di chastagnera / Iovoglio lavorare e nesteso tenpo voglio / inpara a glialtri Ii sono una / persona asai chon pacenzia e de / per questo / che non miarabio quando glialtri sbagliono. glidico che / seza mangiare non sipo lavorare / ĕ senza lavorare non si po / manciare sono duecosi unite / chorispondona una cholaltra / Io quando faceva il militare cera / un Tenente ĕ sordati sbagliano / Lui dicea non cisiamo non cisiamo / la siceva chome fossi chaemo inguerra / cisiamo andati dietro e biamo puntato / una mitraglia trice ĕ A detto / Iltenente a questora avevo fatto / fore la mitragliatrice e quando / faciavomo la marcia notturna / il primo guarda avante unaltra / guardava a destra laltro guarda / a sinistra lultima sidoveva / girare intorno poi una squatra / sia passati avanti cherano / siamo aranpicati sularbero quando laltra / squatro e passata non si sono / acolti che noi eramo mosuglialbere / e ci siamo fatto chu chu / ĕ mentre faciamo lamorcia / chantavomo laMarianda cheva / in chanpagna quando i Sole / tramonterà chisaquando chisaquando / riton rirne ritornerà“.

V. (2018) “Galati Mamertino 27, 2018 Iosono Peppino Rocco Fazio é cio due Genere Sono Bravi pero non tanto mi portono in chanpagna e Io so un po sofrerō per che sono abituato in cha npagna a prima il Paese lo chiamavono Terra e dicevano la Canpagna chanpa e la Terra sotterra ĕ ci cholpo Io che non mi sono prozo piū Lapante e orochora devo fare debo partire apede pero Il Fatto ĕ che lagente che mivede prende per Babbo a Me ĕ tutta la Famiglia le Generere Figlie ĕ Nipote Tranni Paolo ĕ pure unpo Marichi ĕ si dice quando i Parente non tipossono Servere uno si de rivorere alle strane tanti Salute Ciao. Pure imiei vilesogni Penza lepene soferte piage e nascho il viso frale choperte gennaio Febraio Marzo A Prili Magio Giugno Luglio A_gosto Settenbre Ottobre Novebre ĕ Dicenbre: 134“.

VI. (2018) “Galati Mamertino / Io Peppino Rocco Fazio 29 Novebre / 2018 quando Io ciaveva 16 Nni Mio / Padre a chonpro unasinella di seimese / e cie chostato Lire 15 mila pero lasinella / non voleva e sciere in cinta po mio Frate= / llo antonino sitrovava a scete appasato / Giacomino Fabio cho lasino chontatto / Bardone [sic. barduni, sella] lasinella ciaveva ce tre o quatro / anni e cedato Lasino e se chome / era sopra lastagione [erano in calore] e gia e rimasta / incinta prima trentacinqua lire / [la prima asinella nata l’hanno venduta a] Carmelo Pilere Lire 150 mila poi uncerto / sponzio una da 6mesi Lire 120 mila / una celo venduta a un certo Fazio Antoni= / no disantonino Lire 130 un altro Mulo / celo venduto a un certo Fabio unaltro / ce lo venduto à Carcione vincenzo / laltra la biamo Caminata [cambiata] alla fera / di Arcara i primo Lira trenta cinquemil Lire / unaltro Lire 120mila unaltro Lire 150mila/ Lira 130 lire“.

VII. (2019) “Galati Mamertino 20 Marzo 2019 / Io questa sera Peppino Rocco Fazio / Voglio Scrivere una Bella chosa Io / una Volta sono andato alla Gazana / e misono un po divertito perche / Pisavono il Grano le rengne chon le / Mule e Gimente e allora sicome Io / e ero gia inparato da quando era 15 o 16 / anni a Me mipiaceva tanto e cio detto / mele fate prendere a Me le Cavalcature / e mianno detto Signorsi e Io mio passoto il Tenpo a divertirmi ci chanta= / va alla Mula e Gimenta allaria / murega la Imenta Baia e Mula Murega / lassapassaa a Mia chi sugnu / gnu Be Testa chutesta la Malegai / uni metti lu peditu fana funtana chava Biviri la Nostra Patruna / a llautra“.

8.2.3. Sull’infanzia e la scuola

I. (2019) “Io Peppino Rocco Sono Nata 24.1931 / e c anni mianno mandato a sCola / i miei Cari Genitore ma si chon / chcome mia Cara Mamma era / ina ffabeta non mi poteva aiutare / le Conpite e quello chce faceva faceva / non poteva aiutare a fare le conpite [scritto a margine, a sinistra] / dasolo e I Io chcome poteva chce / veniva la Domeni chca per / andare a Mile chcome fosse chce Io ci / do veva inparare laschcola alla Capra / e chcomunque senpre arrivato nello Calse [classe] / della terza e poi ofatto lascola serale / gi da Donchcarmino busciarella / e chce chognomo e va Fazio e / facevomo due giorni al Mese a zappulia= / re i Grano solo chce che cidava / damanciare e ci facevafare le lettere / alla Fidanzata e questo ci faceva / la scola era vardia campista […] é poi mifaceva la scola il Patre del / Sinnucu cu tacanu e niparava tante / cose […] la piū tinta Maestra / e Barona comenfatte a detto scriviti / una parola chce vivene inmmente / a Voialtre e Io o scritto urbano / e lui zanitati mia detto non e siste /mentre e sisteva solo chce doveva scrivere / Vigile urbano masi chcome era / maestra solo per prendere il denaro / mala scola lasapeva nelfondo / del bummilu. / quando ala scola era da alli Polazo di / o danna chciccina andavomo a fare / latto piccolo dietro la Casa della spagno / la ma sichome eramo charusotti non / volevomo stare Sinnati ci davomo / mattuna uno chcon unaltro e Calce / e poi veniva la Signora Maestra / e nis parteva e ni metteva inginochio / cio per una rrancata e se fate ancora / le monelle ci diceva che dovevomo portare / i Genitore o Padre Madre e chcosi / ci diceva di rrinproveralle. / e Io Sono stato un Bravo Bammin= / o ero laltri inmmecille chemiface / vono arrabia apposta Io mivotava / a smelle e chcalci seno Io non / disturba allaltri masi chcome certi / Racazi e rano chcenon stavano quieti / Io certo midoveva difendere e poi per / corpa dialtri il Prefessore mimitte / in chcasti an chce ame ci mitteva / in ginoquo davante lala vagna e poi / ci faceva arzare chce e 4 o 5 e ci diceva / chce dovevomo di i Prefessore non e / male siamo no chce lo faciamo / se care e lo dobiaimo scrivere nella lavanqua seno cidiva senpre / ce apresso giorno dobiamo portare / il Papa e non cera il Papa dobiamo / portare la Mamma e cidiceva / chce noi Bimmi era sdicente ma / certuni cidiva no MioFiglio e bravo / e allora il Pressore unpo si Biliava / e ci diva ma allora chce sono il Prefesso=re chce non le so a chcalmare se / non cipiacio alloro le Vostre Fie le /portate in una altra Crassa [classe] però / certi alunni ci di cevono chce le / su Gentore a chcasa le Racomanda= / vono e ci dicevano franoi alunni / a Prefessore si deve dare ascolto / quando parla seno non tanto vi / vole bene e non vi parare chcome / si scre e si lege e poi piono piano / Noi Bimmi ci a corgevomo chce il / Prefessore avo aveva a sai bona volenza / per Noi e non loabiamo fatto disperare /più e poi quando veniva qualce / Genitore a domandare coeme Mio Figlio / e il Prefessore cidiceva caveva diventa= / to un a ffezionato a Me e ance oi / suoi conpaqni il genitore rrestava / contentissimo ora posso stare tranqui= / llo per Mio Caro Figlio però cera / qualcuno ceil senzo lo aiuta meno / ma lo aiutavono quelli chce cerano / a fianco e il Pressore e Contento / ce lalunne stavano senpre dacordio / e Io sono diventato un Bravo studente / e chcosi e tutto il Mondo uno para / con unaltro peresenpio Io onparato / con il Figlio di danna Sarina si comu / danna Sarina sapeva legere e / scrire ciparava qual cosa asu / Figlio Gaitano e propri nella scala / di tabarano chiomamo Noi per che / Lui si ciamava cosi e i Figlio donna Sarina ancora Io a quasi ottantotto / a nni a n cora miri cordo ce / mia detto 1 no 80 e zero  faceva / cento ottanta poi quindi Io ricordo / tutto di quando era piccolo miricordo / chce quando aveva 6 o 7 anni sentivadire / quello a settantanni e me miparevono / veramente assai mentre ora Io chce / ce non quas ottontotto ame mi senbra / che cho sono Nato laltro eri quindi / martedi si come Io Mangio e Lavora / va il tenpo mi passa chcorrondo e Io / non o mai fumato e io alla Bottego / de Sir Bestro cera il zio di / Pippo di Rosarva e mia detto lomo / chce non cia vizi non é o Mo / e I Cio detto Io Celo il vizio  / Cio il Vizio Manciare e Lavorare“.

II. (2019) “ora Io / scriverò qual che cosa di quando era Picco= / lo 29 Marzo 2019 […] quando era Piccolo ce faceva / qual cosa per Me eper tutta la Famiglia / e dora mivolesse Riposare un pò ma sicome Sono uno ce voglio Lavo= / rare senpre Scrivo ancora e mipia= / tanto e a posta non mivoglio fermare / di scrivere e cosi passa il Tenpo senza / a corgersi seno midoveva mettere dormire / però poi la Notte non dormo e de per / questo ce non voglio dormire durante / la Bella Giornata e poi vela le giò / questa Bella scrittura e Io Cio due / Figlie Belli e affezionati pero non mi / voglionon mi vogliono portare / in Canpaqna per chce dichcono / chce dasolo non posso stare per chce / Io o tu truppichcato inuna / lia lera chce aveva fatto le / rradichce anchce per lo cima“.

III. (2019) “Io penzava quando Ciaveva 10. o 11 anni / a massimo 12 o 13 Io mene dovessi andare / a sco ghea olive e poi quando 61 cheu / quno una mocina chce allora e / 5 nque tummino sei e chosi lolio / melo vendo e chconpro una bella / Gia chca divelluto pero non lo/ potuto fare e Io prima do circhca / aci 11 o 12 anni annoi ci tenevono / chcosi le pantalone fi al Gino chcio / e poi quando i Miei Cari Gentore / Cianno fatto le Cavose fino alle / pe_di Io mirrichcordo chce chcome  / potetva  chce mele mitteva maforse / i Mie Cari Genitori aspettavono / chce Rofrischcava laria per / mettere Be Cause lunge fino alle / Piede e mirrichcordo tutto di / quando era Pi chcolo mirrichco= / rdo an che chce il Mio Caro Padre / quondo veniva della Comune di / Troina mi dova senpre Sorti / Senpre Sordi spiciole e una bona / volta cera il battesimo e Io chcaippato / un po di sordi e ma manchco farlo / apposta i Mio Caro Papa ordire chce / non aveva questi soliti sordi e Io / Pichcolo Bammino o detto manu= / male chce quappato al Battesimo / un Pi chcolo Bammino si chcorda / tutto di quando e Picholino / abreno Io posso prendere Bono / per Me non sō se ce qual chcolo / chce non se le chcoda le chcose / di Picino e ora Ciao atutte / e Vi chcoro di avere Bella / Salute e Senzo chciaro chcome Me / non o più nente dadire e basta chcosi / e perō Io vivoglio senpre vicino alla / Cara Mamma e a Mé Io volesse / scrive senpre pe passare il tenpo / senza chce si vede passare tanti / Las Salute e Bai il vostro Caro / Papa chce senpre ve penza. / punto e Basta faciole chcon la / pasta ? “ [segue illustrazione di due cavalli].

8.2.4. Sulla vita militare

I. SENZA DATA “ Io Fazio Peppino Rocco sono stato A / Casale Monferrato é Io Fazzi Io Fazzio / poi Alessandria Peppino Rocoo Rocco era / Primo regimento se secondo / Batteglione Sesta Conpagnia f / Fanteria cremona é midicevono / tante e tante difare il Corso / di Caporale maio non ò consetito / perlo più perché mimancava due / dente° é cosi non cia veva quella / rrisponzalità maera vu voltuto / bene ditutta la conpagniacome Io / volevobene algi afa algialtri ĕ la / lavita militare la chimavono / noia mentre Io la prende di corē

Ti voglio bene assai ma / Tunon sai perché per che / lunica amore sei stata Tu / perme la nottefaciu iorno / senpre pinza a Te; non misento tanto / bene quando non vedo ā Tē?“.

II. SENZA DATA “nella vita ci sono tanti sbagli Io / doveva parte per militare giorno / ventinove é opartito giorno 19 / per che il due senbrava labialetto / a Casa é poi municipio ĕ anno / di parte il giorno 19 il 2 era perfetto 1 / pero estato utele per che i miei conpa / = di Sanmasile a Napale anno rubato / una valige ĕ fortunatame non mi / sotro sono trovato chon Lorō / comunque Io lasera leandavo atrovare / mimitte itte il Pastra e lasciava scho / perti solioche perche defredo sittasava / ĕ li mia de uno diloro che sentro / i Dottore Biancho ĕ farsi cisenbra / un signore ĕ uno che anchora / chanpa che s lui un tenpo lungo / li si arrivava afere bello grosso“.

III. (Aprile 2018) “Galati Mamertino 4 2018 Io n sono / Fazio Peppino Rocco quando andava / a scolo chome poteva che veniva / la Domenca pr poter andare inconpa= / gna é quando sono andato per scrive= / rmi ascola mio Sorella miadetto cideve= / dire che mi chimavo Giuseppe é / Peppino niente sa pendo che al / Municipio cera Peppino e poi quando / sono partito per Milata siamo partiti / di chapodorlando allando erano / le sette e menza abiamo chamminoto / tu la giornata chon il Treno acelle= / ra poi tutta la nottato e siamo / arrivati a Casale Monferra verso / le dece allora non celorario che si / chammia in somma la chiama / vano la ppello Io stonato un po del / viagio mi chiamavono Fazio / Peppino mentre Io penzavo che michi / movo Giuseppe e inprimo non ciō / rispasto poi odetto senpre chiano / a Me ciorisposto il Graduvato / mia detto perche non arispoto inprima / é cio detto Io penzava chemi chia / va Giuseppe e quando sono venuto / qui o fatto la domanda della dise / chupato non mierrivata e poi mi / lo meso in Testa che mi chiamava / Peppino Rocco cera un certo Tinente / di di Marsala Io sono arrivoli / diece giorni avanti e loro anno / detto lomettimo in forza pero / forsi per questo non mifacevano / fare lestruzione quelli invece ciface / vi fare le struzione e Lui il Tene= / nte Papaoro cifaceva battere battere / virpiange le scarpe a de vele donno / gradi [“battere, battere! Non rimpiangete le scarpe, che qua ve le danno gratis“] a Me me midiceva senpre / leva le Mani di tascha aducer= / to tenpo si e trovato di detro / e mie dato una scocia di chollo / e sono andato tre volte in prigione / la prima volta e rivato un Tenente / di prima arriva a chiamo lapello / e Io non cera cianno detto queso non / si trova mai ellari chordo che s chia / mava Tenente Sorentino poi Siamo / andati a Lessandria ora quando / avicusgrauria [Jugoslavia] voleva o chupare / Trieste e sia mo a chanpati a un / Piaino si chiamato Filetti si e la / sido veva uscire fora armati / an che se il fucile era scarico / il Caporale ganci sie preso / il Mio fucile e mianno detto Fazio non / stari inpenzero che il tuo fucile sela preso / il Coporale Gance cera il Tenente / Barbacallo avenuto chon le scarpe / senza taci e non losentito chammi= / nare e mie trovato seduto davanti / un palo della luce e cho adetto qui / ci sono Miliardi di monizione / arriva un malvivente ci butta foco / fare se ne vadentro e mia dato dieci giorni di / punizione li prigione non cenera / pero deca [paga] non mene anno dato / e quando laltri sisono choncedati / Io dovuto stare unaltri dieci giorni / e li una partita si choncedavano / e unaltra parti arri vavono ellora / miadetto i Tenente Tu s Fazio deve montare di Capo= / rale di giornata vai a prere la spesa quando la Vicasgravia [Jugoslavia] voleva achu / pare Trieste ci siamo visti chon / Don Santo Dinardo a Parmanova / ĕ chomunque Io ho stato Militare / die mese senza venire ā chasa dopo / chesono venuto ā Licenza misono / rrimasti solo unaltri cinque mesi / di fa fare il Mitare é Me mipiaceva / a fare il Militare per che qui ciavevo / la proprieta ā dieci parte [non era situata in un solo luogo, quindi dovevano spostarsi di volta in volta per andare a lavorare] per erano pi chole / parte la piu assai era a Mele ĕ / sciete ĕ le Tinuti in montagna a / Pritte e Cognuso é ilrrinzardi a / Firmisia e poi Curma che cidavono / il Beglietto pe cento chila di Carbune / fran cho ĕ pero avia disacrifici / abbiamo Conprato prima alle Musarre / poi alla Signa Parisi Speraza e / laltra“.

IV. (2018) PARTE II di 3.IV “Io o Gia visto la sveglia e ancora erano / le sei ellora per passare oncora tenpo / o chontinuato a scrivere chosa poteva / scrivere oscritto quano io sono andato / a Caserma che era nella strata longa / sotto zio Paolino quando sono uscito / misono trovate in meza tutti quelli / che e rano inmintati poi quando siamo / arivati inpiaza misono vergognato / adividere elaltre emenesono andato / dove andavono gli altri pero eromo / amice e ciodetto alla Nonna di portarci / il recha Antonino Rusolacerno / sie fatto chonvinto che non era / inmitato e mia detto Tu pippina / cha sei si sono cha e Camio argome= / to mie tocato di parte dieci giorni / [prima] doveva partere giorno 29 nove masicome / e scritto afanfaso il 2 senbrava uno / nonera chenon sapevolegere Noi tanto / che cisia trovato a Mu nipio labiamo / fatto lege allo inpiecato Donnino / Orlando e ce cia detto devepartere / giorno 19 pero laltre di Sanzamasile / anno partiti giorno 29 e Io era ta / unaltra chaserma o gnitanto le anda= / va atrovare mittiva il Pastrano / e micopriva la Face lotineva solo per / vedere la strata una volta cianno me= / so cha pare charte scoci daranci / tutto quello che cera pertera poicisiamo / sedute tastumente e passato un Corone= / lo il mio chonpagno si arza e cia fatto / i saluto mentre Io seduto e seduto sono / [rimasto] Lui mie fatto signa le chonmano / pero anda do Lui e mia detto achasa= / tu chosa facevi chifaceva lavorava / a chasa Tua lavoravi menqui [mentre qui] il pane / celai chotto e depasoto chosi [ed è passata così] e cera / cera uno chera di Marsala e ci facev= / le struzio ai Soldti e f Soldati / ci faceva battere battere vi / rinpiagete le scarpe adeso danno / gradisi [gratis] a Me non faceva fare struzione / forse perché an chora / nonera il Mio turno solo che / poi midiceva levete le Mane di / tasca e Io meleluvava però / quando Lui non cera Io mele mette / va in tasca una volta mie venuto / di dietro e mia dato una scorcia Collo / Io openzato chera ilmiconpagno / chescerzava quando misovoltato o visto / chera il Tenente e mia didetto ti sigiasti / sitisigei unaltra volta non tene dò / scrivo no non misono sigeto che / scrivere voleva dire farmi il biglieto / di punizione e non poteva andare / a libera uscita la sera allediece / menza cera la ritirata alloro non cene= / ra orario chanciato e sonavanavono / chontroma passalaronda lascia / bionda ritiriti Cappilo tutte tutte / se chosi tutte lesere chosi elamtina / facevono quando la sveglia sentite / sono chomu namola doscatto / chappella marca visita riposo ti daro / si nun ti riconscio inprigione / ti sbatero; ora e avura e Gerri / percio smetto discrivere Ciao“.

8.2.5. Sull’auto, la guida, altro

I. (2017) Patrizia è brava tanto che mia detto a Me che voleva che Su Papa lovoleva chome Me perŏ forse non ĕ possibele tanto che si dice ogni ligno ă il suo fumo ĕ vo lesse che il Suo sposo ritorna chidosi scusa“ [segue testo canzone “Vola colomba“ di Nilla Pizzi, 1952, in un altro colore]135.

II. (2018) “Galati Mamertino 29. 12. 2018 / Io sono Fazio Peppino Rocco cio ottanta / sette anni. miadetto una Persona don / Donpippino mi staci attento che questo / Agigneri e picipituso e la stava / intorricando una Signorina cheera / brava pero pingeva ellora Io cio detto per / che Lei e picipituso aposta piange lui / e strasintito acapito che ciodetto / cosa fitusa ora ciu dico Iosesono / cosa fitusa errivato lo strittore / e cia detto assavide che Io era struito / lo vedo lo vedo sbaglia tutto eallora / etto la strittore don Pippino questo / Angignere ormai la preso di mal / gusto e chisa qui viagi fafare losa / chosa deve fare ciconmene mici / da lire cento mila an naltro / angigne cela prendere subito / ecosi ofatto e ricordo chesono / andato a Capodorlando giorno / di Venneres santo mia fatto salire / sulla ma china e abiamo partiti / Io credevo che dovevo fare lastrata / che faceva lavuto busso e Luimia / detto dove va siprede dica allora / Iocio detto mideveperdona che Iosono / bituato che la mattinagnue  Lui mia detto / penzasse a guidare seno unne chu / bocio lamattina non simangia / a duntratto si ferma e mia / detto benino benino ĕ mia dato / la patente Io la ma china cia vevo / tanto chela portavo ecome sono / tonato di Capodorlando opartito / per la sciara un belgnore penzava / che Ionon cera e aveva venuto per / prendersi la gnello avisto lustro / alla porta e afatto ditro fronte / sonato e esparito poi ci pustiau / quando non ceramo e sela preso“.

III. (2018) “quando abiamo chonprato la ma china cuscere il Principale denicozio ciadetto il prezo non ricordo se ne a chiesto lire cento mila opure cento 10000 e allora Io so andato in unaltro necozio per vedere se mela passava lire 10000 meno e lui Lui mia detto lostesso prezo e Io ciodetto sono venuto da Lei per vedere sela passava lire 10000 meno mascome Lei mia detto lostesso prezo allora la vado a chonprare dove sono andato prima e Luimiadetti che aveve fatto una parte di un Puliziotto e arrivederci cio detto Io ci vediamo qua vole Dio ciao136“.

8.2.6. Sulla lingua in cui parla e scrive (risposta al questionario autovalutativo)

“Io Sono Nato a Galati Mamertino il 1931 / e sono Nato il 24 o e mianno di chciarato / il 25 Io ofatto sola la Terza elementare / e aveva circa 9 o 10 anni, e poi a 14 o 15 / miofatto fare la scola serale e ci faceva / fare ance le lettere per la Fidanzata. / Io a 16 anni sono andato a zappuliare / il Grano e poi Io per non veninre a / Galati misono stato aiutare alle Mie / zie a Troina. e Io ofatto senpre il Contadino / per Come i Miei Cari Genitore Tranni / quando e Militare a Casale Monfirrato / e poi sono andato a Alessandia. / cie stato un Soldato chce mia detto / Fazzio ma Tu chome ti sei inparato / a parlare i Taliano [? forse inserito da figlia] e Io Ciodetto Come / mi parlono Io cirrispondo seno se Io / ci parlasse. come nel Mio Paese nessuno / mi poteva capire. e poi quando sono tornato a / Casa dopo diece Mese mia contentava / di parlare Intaliano e a desso posso parlare / contutti come mipiace. e quando scriveva / a Casa scriveva in Taliano e Io quando / nella Busta mettevo Lire cinque cento / e Mia Cara Mamma era inafabeta / correva per aprire la Busta e Mio / Patre chce sapeva scrivere e legere / ci diceva per chce corre senon sai legere [? forse inserito da figlia] / Mio Caro Papá atravato 3 sordi e sie p chcon= / prato il quaterno e i un solo sordo 1 / lapese e sene andato ascola e il Suo / Caro Papa detto a Mio Figlio non ce bignogno / chce ci in para la scola cideve / in parare solo laducazione e llora / Mio Caro Padre a penzato allora / Io chce sono uno animale? e allora / di. tannu inpoi sono e diventato / un Bravo Bammino e poi / anchce una Bravissima Persona / e di cevá chce le Personoe Brave possono / stare in tutte le Soceetă Civile. / Io parlo come mipiace perŏ scrivere / non si po scrivere indialetto si deve scrivere / per forza in Taliano.“

Sulla complessità del tema, dovuta sia alla relativa libertà da parte dei linguisti di area germanofona nell’attribuire a questa etichetta valori spesso differenti, sia ad una questione prettamente terminologica (accanto alla Varietätenlinguistik convive, infatti, in ambito germanofono la “Variationslinguistik“ o “linguistica della variazione“), oltre che per una più approfondita disamina sugli studi condotti sulla variazione linguistica, (cfr. Sinner 2014).
Per un approfondimento sul carattere sociale dell’uso del linguaggio, cfr. Lepschy 1996, 139-143.
L‚influenza sociale sulla realtà linguistica si riflette ad esempio sia nello status attribuito dai parlanti a determinate varianti che in quello attribuito dalla società stessa a determinate varietà di lingua o lingue (Krefeld 2016, 262); sul ruolo attivo dei parlanti in quanto agenti sociali nella standardizzazione dell’italiano, come esempio di influenza sociale sulla lingua, invece, cfr. Serianni 2006 e Berruto 2007.
Non presentando alcuna differenza strutturale rispetto alla ‚lingua italiana‘ (D'Agostino 2007, 69), i dialetti presenti sul territorio italiano non devono essere considerati come “varietà locali della lingua nazionale, né tantomeno [come] deformazioni o correzioni di questa [in quanto] proprio come l’italiano letterario – costituitosi anch’esso sulla base di un dialetto (il fiorentino trecentesco) – e come le altre lingue e i dialetti romanzi, [essi] derivano dal latino volgare e hanno dunque, dal punto di vista storico-linguistico, la stessa dignità della lingua“ (D'Achille 2003, 13). La distinzione operata tra dialetto e lingua sarà allora di tipo esclusivamente sociale e dipenderà dal prestigio linguistico di cui i due sistemi godono presso i parlanti (D'Agostino 2007, 69).
Per un ampio approfondimento sulla situazione italo-romanza pre-unitaria, si rimanda qui al fondamentale “Storia linguistica dell’Italia unita“ di Tullio De Mauro (1986), oltre che a Bruni (1984, 81-172); tuttavia, vale la pena ricordare qui brevemente che “prima dell’Unità, l’italiano al di fuori della Toscana (dove lingua e dialetto sono sempre stati in rapporto di contiguità), era una lingua nota a un numero di persone alquanto ridotto [in quanto] la stragrande maggioranza della popolazione parlava […] uno dei dialetti che si erano formati nella nostra penisola dopo il crollo dell’Impero romano“ (D'Achille 2003, 23).
Uno dei principali fenomeni che portarono gli italiani ad avvicinarsi ad una lingua nazionale è certamente costituito dal processo di alfabetizzazione legato all’obbligo scolastico introdotto dalla legge Casati già nel 1859 (sebbene il tasso d’evasione all’obbligo sia rimasto molto alto almeno sino agli anni Trenta); ma a giocare un altrettanto rilevante ruolo nella diffusione della lingua nazionale furono altresì la crescente industrializzazione e l’urbanizzazione ad essa relativa, fenomeni per i quali le grandi masse contadine si spostarono dalle zone rurali alle città, provocando tra i nuovi e i vecchi cittadini l’esigenza di intendersi in una lingua comune; la successiva promozione della lingua unitaria avvenne parimenti grazie ai mezzi di comunicazione di massa quali i giornali, la radio e, a partire dagli anni Cinquanta, la televisione, “scuola di lingua e di cultura“ grazie alla quale “i ceti diseredati relegati in posizione subalterna dalla scarsa cultura […] imparano a parlare l’italiano e, con l’italiano, imparano com’è fatta la cultura dei cittadini, delle classi dominanti“ (De Mauro 1994, 128). Per un esaustivo e dettagliato approfondimento sul tema, si rimanda al sopracitato De Mauro (1986).
Non per negligenza, ma poiché il focus verte qui sul rapporto tra i due diasistemi maggiori, non affronteremo in questa sede la questione delle minoranze linguistiche presenti sul territorio italiano e delle relative altre lingue ivi parlate. Per una  descrizione sociolinguistica del complesso repertorio italiano plurilingue relativo ad antiche e nuove minoranze, si rimanda a Francescato (1993), D’Agostino (2007) e Krefeld (2016), il quale distingue in tal senso due tipologie di sociolinguistica: quella degli idiomi, la quale comprenderebbe lo studio delle lingue minoritarie e i dialetti; e quella della variazione, inerente, come vedremo, allo studio di specifiche varianti avvertite come marcate dai parlanti, e propria della varietistica (Krefeld 2016, 263).
Con la nozione di ‚repertorio‘ si intende “l’insieme delle lingue, o le varietà di una stessa lingua, e delle loro norme d’uso, impiegate in una comunità“ (D'Agostino 2007, 109); a tal proposito, Berruto definiva il repertorio linguistico italiano medio come un diasistema (lingua nazionale-dialetto) il cui rapporto (sino ad allora definito ‚diglossico, in cui alla varietà alta era rigidamente riservato l’uso scritto e formale; mentre a quella bassa, anche impiegata per la socializzazione primaria e dunque una L1, l’uso parlato informale) rifletteva una situazione di “bilinguismo endogeno a bassa distanza strutturale con dilalìa“, indicando così la compresenza di due lingue e delle loro relative varietà, non strutturalmente troppo diverse tra loro, e non più rigidamente separate rispetto all’ambito d’uso informale, ma “impiegabili nella conversazione quotidiana e con uno spazio relativamente ampio di sovrapposizione“ (Berruto 1993, 5-6).
Al glottologo Giovan Battista  Pellegrini è infatti dovuta la prima basilare quadripartizione delle varietà presenti nel repertorio italiano; essa comprendeva l‘ ‚italiano standard o comune‘, l‘ ‚italiano regionale‘, la ‚koinè dialettale o dialetto regionale‘, ed il ‚dialetto locale‘; da questa quadripartizione presero successivamente il via altri fondamentali approfondimenti ed ampliamenti sociolinguistici alla struttura del repertorio linguistico italiano, caratterizzato dalla dialettica tra italiano e dialetti delle diverse regioni italiane da un lato e la coesistenza tra le “diverse norme di realizzazione di un medesimo idioma“ dall’altro (De Mauro 1977, 124). Per un ampio commento sulle varietà italiane e sulle relative denominazioni offerte dagli studiosi dal 1960 sino al 1987, si veda Berruto (1987); per una tavola sinottica delle diverse classificazioni delle stesse, invece, si rimanda a Berruto (1993, 18;26).
Sebbene essa non goda di uno “statuto teorico autonomo, [e si configuri anzi] come ambito di lavoro orientato in senso empirico, con scopi prevalentemente descrittivi“ (Berretta 1988, 762), Holtus-Radtke sottolineano però in ogni caso la specificità della linguistica delle varietà rispetto alla sociolinguistica: a differenza della sua matrice, infatti, la linguistica delle varietà si occuperebbe di indagare e descrivere anche dei tipi di “Varietäten [,] die nicht [nur] von der Sozialen Determination der Sprache und ihrer Sprecher abhängen“ (Holtus/Radtke 1983, 16).
Come notato da Holtus-Radtke (1983), il termine ‚varietà‘ non era tra l’altro di recente coniazione: Benvenuto Terracini se ne era infatti già avanguardisticamente occupato nei suoi lavori pre-sociolinguistici sulla dialettologia nei primi anni del Novecento, sebbene questi non si concentrassero ancora sul problema della “Systematizität“ del fenomeno, né vi fosse una “fundierte Grundlegung des Varietätenbegriffs“ (Holtus/Radtke 1983, 13-14).
Relativo, dunque, sia ad un intero sistema di lingua che solo ad alcuni tratti specifici presenti all’interno dei sistemi linguistici.
I due sistemi di base sui quali, come sostiene Dardano (1994, 344), si costruisce tutto il repertorio linguistico italiano.
Sui sempre più evidenti limiti della terminologia adottata dalla tradizione germanofona risalente alla quadripartizione delle dimensioni di variazione offerta da Koch/Oesterreicher (1985; 1990), basata sui parametri di ‚immediatezza‘ (o ‚vicinanza‘) e ‚distanza‘ – oltre che sulle conseguenti implicazioni metodologiche rispetto alla linguistica percezionale ad essa connessa – si veda il contributo “Varietà ibride? Che cosa ne pensa la linguistica variazionale“ disponibile sulla piattaforma Lehre in den Digital Humanities (Krefeld 2018).
E in tal senso, reale attuazione della linguistica della parole preannunciata da Ferdinand de Saussure (sul tema, cfr. Raimondi 2009, 15-18; Krefeld 2015).
Iannàccaro spiega, infatti, che “è proprio attraverso la constatazione della variazione linguistica (di qualunque tipo) che il parlante viene a contatto con varietà diverse rispetto al proprio idioletto […] ed è indotto a rifletterci sopra“ (Iannàccaro 2015, 23).
O, nel caso specifico dei test percettivi, nel sapere linguistico dei cosiddetti ‚informanti‘, soggetti sottoposti, ad esempio, all’ascolto di stimoli uditivi registrati dai ricercatori sul campo.
Un elemento “marcato“ è dunque un elemento “provvisto di una marca che lo contraddistingue rispetto alla sua manifestazione considerata, per motivi qualitativi e/o quantitativi, come basica, o normale, o canonica“ (Ferrari 2012, 17); la proprietà di marcatezza/non marcatezza può essere applicata a tutti i livelli dell’analisi linguistica (Ferrari 2012, 17) ed è inoltre spesso messa in relazione con i principi di naturalezza elaborati dalle teorie di morfologia naturale e sintassi naturale, secondo le quali si riterranno non marcati i tratti “cognitivamente più accessibili – ossia più naturali -, che favoriscono la processabilità dell’informazione e la corrispondenza tra la percezione della realtà e la sua rappresentazione linguistica“ (Cerruti 2009, 254).
Per un approfondimento sul tema, si rimanda al volume “Perzeptive Variatätenlinguistik“, a cura di Krefeld-Pustka (2010); oltre che a Krefeld(2015).
Simone (1990) spiega che “le lingue verbali vivono in diacronia, nel senso che si modificano nel tempo […] le manifestazioni di questo mutamento [riguardano ad esempio] la dotazione di suoni di una lingua [,] i significati e le forme delle parole [,] l’organizzazione grammaticale, e così via“ (Simone 1990, 77-78).
Sulla denominazione possibilmente fuorviante di questa varietà – la nozione di “regionale“ non va infatti pensata come corrispondente all’effettiva estensione amministrativa delle regioni d’Italia – cfr. Sobrero (2012, 129-130).
Per un più chiaro approfondimento sul ruolo delle componenti della situazione comunicativa, quali i partecipanti, gli atti comunicativi, i risultati, la cosiddetta localizzazione ecc., si veda Grassi-Sobrero-Telmon (2012, 204-211).
In senso sociolinguistico, il concetto di ‚continuum‘ indica usualmente un insieme composto da un ventaglio di varietà (tra cui si distinguono una varietà alta ed una bassa, ai due poli), i cui confini, nebulosi ed indefiniti, possono sovrapporsi e dissolversi l’uno nell’altro, impedendo una precisa identificazione delle stesse, specie se contigue, da parte della sociolinguistica (Berruto 1987, 27-28); per un approfondimento sul tema, anche rispetto alle obiezioni sollevate sulle implicazioni di questa definizione, si veda Berruto (1987, 27-42).
È ragionevole credere allora che le possibili varianti di una specifica variabile siano riscontrabili ed ascrivibili a diverse dimensioni, e che vadano a costituire – insieme alle altre – quelle che Krefeld (2018) definisce come “varietà ibride“, smentendo, nello specifico, il ragionamento di Koch/Oesterreicher (1990) il cui schema prevedeva che ad ogni dimensione della variazione corrispondesse un numero definito di varietà, a loro volta composte da un preciso numero di varianti.
Entrambi caratterizzati da fenomeni epilettici dai quali la donna era afflitta sin da giovane e a causa dei quali veniva rapportata, secondo la cultura popolare salentina, ad una realtà magica. Nonostante la loro medesima natura, inoltre, la donna ne distingueva superstiziosamente e religiosamente le manifestazioni: ella raccontava infatti di avere voglia di ballare prima di una crisi di tarantismo, e di avere la tendenza a dimenarsi per terra durante le crisi epilettiche di San Donato (Rossi 1994, 80-85).
“La scrittura parla di sé insieme a qualunque altra cosa di cui parla: essa si costituisce su proprie peculiarità di codificazione dell’esperienza, di forma di rappresentazione, di lingua, di temporalità e spazialità, di costruzione dell’interlocutore“ (Apolito 1994, 13).
“La donna ha frequentato solo la prima elementare, ma è in grado di esprimere per iscritto quanto vuole comunicare; le sue lettere presentano grossolani errori di grammatica, e sono quasi totalmente sprovviste di punteggiatura“ (Rossi 1994, 79).
Circa questo termine, D’Achille precisa che l’aggettivo semicolto (successivamente adottato, come vedremo, per indicare i soggetti interessati dal fenomeno linguistico scritto dell’italiano dei semicolti) rifletteva sia una chiara differenziazione rispetto ai termini colto ed incolto, sia una maggiore specificità rispetto alla serie terminologica assieme alla quale esso sarebbe potuto essere semplicisticamente associato: semianalfabeta, semialfabeta, semincolto; secondo D’Achille, infatti, questi ultimi sarebbero stati da collocare in un gradino più in basso rispetto al semicolto propriamente detto, in quanto “[in]capaci di servirsi dello scritto [né] per usi funzionali e pratici […], [né] per fini latamente espressivi“ e, al limite, in grado di “apporre la propria firma o poco più“ (D'Achille 1994, 42-43). Accanto alla designazione di semicolto, il linguista propone invece di apporre i termini poco colto, mediocolto, o semiletterato, in ogni caso da collocare su gradini intermediamente diversi, data la differente e non rigida caratterizzazione culturale dei soggetti semicolti (D'Achille 1994, 42-43).
Per un’approfondita, diversa argomentazione, ovvero sulle debolezze dell’originaria visione unitaria dell’italiano popolare, almeno per quanto riguarda gli elementi linguistici e non contenutistici espressi in questo tipo di lingua, si rinvia almeno a Berruto (1987, 108-110).
Basti pensare che a distanza di ottant’anni, ancora tra il 1951 ed il 1955, solo il 18% della popolazione italiana impiegava l’italiano, sebbene in forma ancora artificiosa e pomposa, poco spontanea; il 20% era invece dialettofono, mentre la restante percentuale si muoveva in un limbo linguistico diglossico, impiegando la lingua italiana in situazioni estremamente formali ed il dialetto nella quotidianità, data la sua “efficacia espressiva“ (De Mauro 1994, 117).
La necessità delle masse di “mettere da parte i rispettivi dialetti, cominciando ad usare, per intendersi, gli elementi di lingua italiana a loro noti“ si manifesta inoltre con le prime associazioni di lavoratori postunitarie e con lo svilupparsi dei primi canti sindacali e di protesta, come ad esempio il Canto degli scariolanti: questi erano infatti caratterizzati da un vocabolario semplice, in cui affioravano anche degli elementi dialettali, unito ad una certa “oscurità sintattica“, e, a livello grafico, ad un abuso delle maiuscole; altro elemento evidenziato dal linguista è la “brusca rottura stilistica“ o l’alternanza tra forme popolari e forme auliche, allora ancora persistenti a causa della forte influenza dell’opera lirica ancora sentita, il cui influsso viene paragonato da De Mauro con quello esercitato dalla televisione negli anni Cinquanta e Sessanta (De Mauro 1994, 118-121).
Il primo conflitto mondiale costrinse i soldati a misurarsi con una dimensione del tutto nuova: come spiega Glauco Sanga, infatti, i contadini non avevano mai avuto sino ad allora la necessità di avvicinarsi allo strumento culturale della scrittura, in quanto “la diffusione dell’italiano avveniva per via orale o, al più, attraverso la lettura [e] tradizionalmente in paese c’era sempre qualcuno delegato a scrivere: il parroco o il segretario comunale o un paesano colto(Sanga 1984, 173) tutt’altra situazione si presentava invece in trincea, in cui i contadini ormai soldati dovevano necessariamente confrontarsi a tu per tu con penna e carta. Tra le motivazioni che spinsero alla scrittura, ricordiamo infatti la necessità di rassicurare le famiglie sulle proprie condizioni di salute, oltre che la possibilità, nel caso dei prigionieri di guerra, di “allontanare l’incubo del rientro al fronte e della possibile morte in trincea; [di] esprimere un’autentica sofferenza psichica; [di] sottrarsi allo stigma della follia e all’istituzione, fortemente autoritaria, del manicomio; [di] tentare di rimediare a una situazione angosciante con la richiesta (nelle lettere al direttore) di ottenere la documentazione necessaria per un sicuro rientro a casa“ (Testa 2014, 101).
Come spiega Cortellazzo, una rivalutazione delle testimonianze “dal basso“ poté avvenire solamente nel secondo dopoguerra, con una rinnovata volontà politica d’opposizione alla “cultura egemonica fra le due guerre [la quale] non tollerava che, accanto alla cronaca ufficiale, linda nella forma, spesso retorica e falsa, trovasse posto la cronaca degli altri, dei protagonisti sottoposti e, infine, sopportanti il maggior peso di ogni avventura sociale“ (Cortellazzo 1972, 19).
Come spiega Lorenzo Renzi nell’introduzione alla raccolta epistolare di Leo Spitzer, questo lavoro era sino ad allora sconosciuto ai più ed i “i filologi e gli studiosi di italiano popolare ne parlavano, ma più per sentito dire che per conoscenza diretta“ (Renzi 1976, VII)).
Diversi sono i capitoli dedicati nell’opera ai dissimulati tentativi di richiesta di provviste e viveri da parte dei prigionieri a parenti e familiari. Se le lamentele sulle misere condizioni dei prigionieri avessero raggiunto l’Italia, questo avrebbe potuto costituire un ulteriore possibile movente per la continuazione dell’offensiva nel conflitto mondiale, e i prigionieri ne erano consapevoli. Sugli originali espedienti linguistici da questi ultimi adoperati per descrivere il concetto di “fame“ al fine di sfuggire all’occhio pressante della censura austriaca, si veda inoltre l’importante lavoro linguistico del filologo Spitzer sulla lingua popolare, Die Umschreibungen des Hungers im Italienischen[Le circonlocuzioni impiegate per esprimere la fame in italiano] (supplemento alla “Zeitschrift fuer romanische Philologie“, Niemeyer, Halle 1920), pubblicato un anno prima delle Lettere, lavoro in cui lo studioso mette in luce le diverse colorite strategie linguistiche impiegate per aggirare l’ostacolo della censura, il cui sguardo si era “acuito per le lamentele causate dalla fame“ e aveva comportato un “raffinamento dei metodi d’indagine impiegati“ dai censori (Spitzer 1976, 10).
Facciamo qui riferimento a tre atteggiamenti linguistici riguardanti l’alternanza del codice tra italiano e dialetto, possibili in un contesto bilingue qual era e qual è tuttora quello italiano: il code-switching o commutazione di codice, il code-mixing o enunciato mistilingue, e il tag-switching anche conosciuto come commutazione extrafrasale (D'Agostino 2007, 144; D'Achille 2003, 179). Il code-switching, ossia il passaggio funzionale da un idioma ad un altro nello stesso enunciato, viene operato consapevolmente dal parlante in base alla situazione comunicativa in cui egli si trova ed è altresì condizionato da motivazioni sociali e “identitarie“: esso dipende, infatti, sia dal prestigio sociale che lo standard riveste nella situazione comunicativa rispetto al dialetto, percepito come varietà diastraticamente “bassa“ (D'Agostino 2007, 118), sia dalla forza identitaria delle diverse varietà, in questo caso di quella dialettale, come fattore attivo di riconoscimento dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale e linguistico (D'Agostino 2007, 118); nel caso delle lettere analizzate da Spitzer, però, l’impiego del dialetto assume spesso il valore di “codice dell’intimità“ dovuto alla necessità di sfuggire agli occhi attenti della pressante censura operata dai censori sulle missive (Spitzer 1976, 107). Il code-mixing, ovvero il mescolamento non funzionale di più idiomi all’interno di una stessa frase, è, al contrario, un fenomeno non intenzionale, dovuto alle incertezze del parlante dialettofono e in particolare alla sua approssimativa conoscenza della lingua italiana (D'Achille 2003, 179). Il tag-switching, invece, si caratterizza per l’inserimento di elementi isolati quali interiezioni, riempitivi ecc. all’interno dell’enunciato (si pensi, ad esempio, alla funzione ludica del dialetto espletata tramite l’inserimento di questi ultimi elementi nella comunicazione colloquiale, specie giovanile).
È bene, tuttavia, sottolineare che per questioni legate alla censura, lo stesso Spitzer non fornì informazioni sugli scriventi, di cui non si conoscono certo i nomi, ma neppure l’età, né l’effettivo grado d’istruzione (si noti, inoltre, che non tutte le lettere raccolte dal linguista presentano lo stesso grado di competenza linguistica: alcuni mittenti risultano essere nettamente più colti di altri, o per meglio dire, meno “incolti“ di altri, nonostante lo sforzo dello studioso di creare un corpus il più possibile omogeneo a livello socio-culturale); in base al contesto, nondimeno, è spesso possibile rintracciare alcuni indizi che aiutino, pur limitatamente, a ricomporre il puzzle diastratico dello scrivente.
Qui De Mauro faceva sarcasticamente riferimento all’azione soffocante del “greve rullo dell’italiano scolastico“ (De Mauro 1994, 134), che a poco servì – a suo avviso – nell’educazione al “pieno e libero possesso della lingua italiana“, e che invece, “per la debolezza delle sue strutture, anzitutto, poi per l’impreparazione linguistica del personale insegnante […] ha svolto un’azione di indebolimento dei dialetti [esercitando] un’azione di repressione del parlato piuttosto che di addestramento all’uso e scritto e parlato e colloquiale e formale della lingua“ (De Mauro 1994, 136).
Come spiega Berruto, anche Tatiana Alisova si era per esempio già occupata nel 1965 della struttura della frase relativa del cosiddetto “italiano popolare“ sovrapponendo, tuttavia, questa definizione alla dimensione parlata e colloquiale della lingua, e creando così una prima ambiguità tra la definizione di “italiano popolare“ e quella di “italiano parlato colloquiale“ (Berruto 1987, 105).
Oltre a Lettere di una tarantata (1970) di Annabella Rossi, infatti, si ricordano, ad esempio, il romanzo autobiografico Una donna di Ragusa (1957), di Maria Occhipinti, donna siciliana di umili origini; Quaderno (1958), diario di Alfonso Muscillo, usciere di una biblioteca romana; il Diario della grande guerra (1961) di Francesco Giuliani, pastore abruzzese. Per un ulteriore approfondimento sui testi semicolti pubblicati in questo periodo e su quelli presi in esame dagli studiosi, si rimanda a Sobrero (1975, 108, note 5 e 6); D’Achille (D'Achille 1994, 43-45, note 18-24; 28).
Le difficili circostanze storiche presenti nella storia linguistica italiana hanno influito, secondo Fresu (2016), sulla tipologia testuale in cui i testi semicolti si sono sviluppati nel tempo, tra cui si annoverano: “testimonianze provenienti dal o indirizzate al fronte“, sotto forma di lettere, ma anche nelle urgenti espressioni del sé riscontrabili in diari, memorie, taccuini di guerra; anche il fenomeno migratorio ha prodotto diverse produzioni epistolari, oltre che produzioni su cartolina o lettere indirizzate dai migranti ai giornali (Fresu 2016, 335-336). Per un approfondimento sugli ulteriori generi testuali interessati dalla scrittura dei semicolti, cfr. Fresu (2016, 335-339).
Radtke fa qui però notare come questa definizione non sia sufficientemente caratterizzante o esclusiva di questa varietà, in quanto parimenti applicabile all’italiano regionale (Radtke 1979, 44).
“In questa chiave possono quindi essere letti anche i pesanti tratti di interferenza del substrato dialettale che svolgono il ruolo della lingua materna nella varietà di apprendimento“ (D'Agostino 2007, 127).
Si parla di fossilizzazione quando la conoscenza della lingua di un individuo si blocca ad un determinato stadio senza possibilità di progressione (D'Agostino 2007, 83).
D’Agostino fa inoltre notare come questa varietà non sia allo stesso modo accostabile neanche all’italiano tipico delle produzioni dei bambini appartenenti alle prime classi delle elementari, nonostante esse presentino sovente caratteristiche simili a quelle dei testi semicolti. Parrebbe infatti poco ragionevole far rientrare queste ultime sotto l’etichetta dell’italiano popolare, in quanto gli specifici tratti di cui sopra vengono presto superati dai bambini nelle successive fasi di apprendimento scolastico, cosa che, come detto, non avviene nei parlanti di italiano popolare (D'Agostino 2007, 127).
Tra le fonti andate poi a creare il corpus analizzato da Cortellazzo vi erano: lettere di soldati e prigionieri di guerra durante il primo conflitto mondiale, caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale; lettere di altra provenienza quali quelle di emigrati friulani, o esempi come quello di Anna del Salento; memorie autobiografiche di diversa provenienza, quali ad esempio memorie di contadini lucani, di sottoproletari lombardi, o di banditi siciliani; testimonianze di diversa natura e di diversa provenienza, quali documenti di soldati processati durante la prima guerra mondiale,  o di emigrati a Milano; compiti scolastici di diversa provenienza (Cortellazzo 1972, 19-20)
Oltre a suggerire l’idea di “una varietà sovraindividuale“ (Krefeld 2016, 267).
Con la nozione di diglossia (Ferguson 1959) si intende la compresenza su un determinato territorio linguistico di due sistemi di lingua ai quali la comunità di parlanti attribuisce un diverso prestigio sociale, tale per cui uno dei due idiomi sarà considerato come varietà ‚alta‘ e di maggiore prestigio; mentre l’altro verrà connotato come varietà bassa, più informale e non adatta a contesti “alti“. È importante notare che i contesti d’uso dei due idiomi saranno rigidamente separati: alla varietà alta spetteranno i contesti formali, mentre quella bassa sarà impiegata per domini ordinari, propri della vita quotidiana (D'Agostino 2007, 77-78). Come visto in capitolo 3, però, la situazione italiana non è più ascrivibile a questo concetto: si parla oggi infatti di dilalìa ossia una condizione in cui i contesti d’uso delle due varietà A e B sono mutati: in un contesto dilalico quale quello odierno, infatti, entrambi gli idiomi, dunque sia quello “alto“ che quello “basso“, possono essere impiegati in contesti informali e colloquiali (D'Agostino 2007, 79).
Anche i due studiosi notavano, nella loro analisi, la forte influenza del dialetto su questa varietà, ed individuavano le maggiori interferenze tra parlato e scritto sul piano grafico, il cui uso non ha “riscontro sul piano del parlato, ma è insegnato a scuola“ (Sobrero 1975, 110): si segnalava dunque la presenza di doppie o scempie, là dove non sarebbero state previste, così come la poca padronanza delle regole relative all’interpunzione, agli accenti, agli apostrofi, all’uso di lettere maiuscole o minuscole, oltre che una difficoltà nella percezione dello spazio tra le parole, con i conseguenti fenomeni di agglutinazione o deglutinazione (in contro); dal punto di vista morfosintattico, frequente era l’errato accordo tra soggetto e verbo o tra sostantivo e aggettivo, dipeso dal fatto che lo scrivente si basasse su concordanze ad sensum (Sobrero 1975, 113), e ancora pleonasmi nell’uso dei pronomi (alla mamma le era piaciuta) così come l’uso di gli nelle forme oblique del femminile e del plurale, l’uso del ‚che polivalente‘, la coordinazione preferita alla subordinazione (Sobrero 1975, 113). Il  ‚modello‘ scolastico avrebbe operato meno, invece, a livello lessicale il quale, però, essendo connesso alla nuova realtà del mondo sociale, del lavoro, della televisione, portava ad una riduzione della presenza di termini dialettali; allorquando ve ne fossero stati, Sobrero parlava di una “consapevole scelta linguistica“ facendo riferimento a fenomeni rapportabili al bilinguismo, quali il commutamento di codice, oggi conosciuto come code-switching (Sobrero 1975, 115).
“Se si badasse solo alla morfosintassi, l’italiano popolare sarebbe fondamentalmente unitario“ (Berruto 1987, 109, nota 7), in quanto livello di analisi in generale meno soggetto alla differenziazione da area ad area (Berruto 1987, 109). Su questa tesi non concorda Mengaldo (1994) il quale, prendendo ad esempio l’accusativo preposizionale preceduto da a, spiega che tale fenomeno sarà sempre e solo fenomeno meridionale e mai settentrionale, se non eventualmente per motivi altri dall’affioramento dialettale. Per questa ed altre tesi contro l’unitarietà morfosintattica dell’italiano popolare, cfr. Mengaldo (1994, 109-110).
Bisogna altresì tenere presente, come ricorda Cerruti (2009), che ‚‚l’univocità di risultati a cui conduce in certi casi l’azione del sistema dialettale in regioni differenti è tale o perché, semplicemente, sono consimili le forme o le strutture di sostrato trasposte in italiano o perché l’effetto del contatto tra due codici è analogo in quanto rispondente allo stesso tipo di meccanismi“ (Cerruti 2009, 35); i tratti sovraregionali dell’italiano popolare, invece, possono essere riconducibili o a tratti tipici della testualità del parlato, o appunto a “tendenze e possibilità panromanze latenti in italiano“, tratti che facilmente si riflettono anche nell’italiano regionale (Cerruti 2009, 35), come ad esempio quello della ’semplificazione‘,  un meccanismo linguistico che avviene quando “a una certa forma (o struttura) di una lingua si contrappone una forma o una struttura più semplice, cioè più facile da realizzare, meno complessa, che può sostituire la prima senza che si perdano le informazioni essenziali contenute nel messaggio“ (Sobrero/Miglietta 2011, 175).
“Statisticamente, l’insieme di tratti che caratterizza in maniera più o meno netta e ‚densa‘ questa varietà tende a presentarsi presso parlanti diseredati culturalmente, presso le cosiddette classi subalterne scarsamente scolarizzate e poco/non colte [;] il carattere di ’sociale‘ è insomma netto se lo inquadriamo nei parametri di classificazione di varietà della lingua […], ma, come del resto è da supporre in generale per quanto riguarda le relazioni tra varietà di lingua e utenti, non è affatto deterministico“ (Berruto 1983, 87).
Non è del tutto facile distinguere con chiarezza “ciò che è popolare da ciò che è meramente informale e colloquiale“ (Lepschy 1989, 30); dal punto di vista morfologico e sintattico, ad esempio, sono diversi i tratti che le due varietà condividono: concordanze devianti, ridondanze pronominali, impiego del che polivalente, concordanze ad sensum; topicalizzazioni e riprese enfatiche (Berruto 1983, 93).
Parliamo qui dunque di eventuali tratti appartenenti a varietà diatopiche e diastratiche marcati anche diafasicamente, e non delle varietà in toto, le quali difficilmente possono “rappresentare esse stesse varietà marcate in diafasia“ (Cerruti 2009, 35).
Incertezza continuamente “soggetta a pressioni d’ogni tipo: dall’italiano aulico ai linguaggi settoriali al dialetto“ (Sanga 1984, 15). Sulla funzione dell’incertezza della norma, si noti, inoltre, come questa contribuisca “alla formazione di un uso instabile e fluttuante, al cui interno si vanno comunque delineando delle cristallizzazioni (sempre soggette a possibili regressioni) che, per ampiezza di diffusione, tendono ad imporsi agli italiani regionali ( e di qui allo standard)“; secondo Sanga, e successivamente Berruto, l’italiano popolare risulta come il “maggiore centro di innovazione linguistica della lingua italiana“.
Si rimanda qui al modello delle varietà di italiano proposto da Sabatini (1985), in cui si propone un italiano standard in opposizione all‘italiano comune, così come la coppia italiano regionale delle classi istruite e italiano regionale delle classi popolari (o semplicemente italiano popolare). Una simile suddivisione varrebbe inoltre anche per il sistema linguistico dialettale, nel quale si riconoscerebbero un dialetto regionale/provinciale ed un dialetto locale (Sabatini 1985).
Berruto propone inoltre di vedere all’interno dell’italiano popolare stesso una “piccola gamma di sottovarietà“, facendo distinzione tra un italiano popolare ‚basso‘ e un italiano popolare ‚medio‘, meno marcato e con minori interferenze dialettali (Berruto 1987, 114-115).
Usi in cui “vengono specialmente in primo piano tratti che in una corrispondente formulazione orale sarebbero del tutto inosservati, anzi invisibili“ (Berruto 2014, 280).
L’italiano popolare orale si caratterizza manifestamente nella pronuncia regionale “marcata verso il basso“ (Sobrero/Miglietta 2011, 101), ma anche per le false partenze, per le frequenti riformulazioni, per i generali cambi di progettazione nell’organizzazione testuale con le conseguenti correzioni e ripetizioni, e ancora, per i passaggi dal discorso diretto all’indiretto e per l’uso improprio delle forme al congiuntivo e al condizionale, oltre che per gli anacoluti e le topicalizzazioni; come ancora indicato da Sobrero-Miglietta, dal punto di vista morfologico, esso è caratterizzato dalle concordanze a senso e dalle ridondanze pronominali (tratti, come visto, spesso presenti nell’italiano colloquiale), ma anche da semplificazioni nominali e verbali, scambi di preposizione ecc; il lessico, invece, è ricco di termini generici (affare, cosa, coso, roba), ed è forte la tendenza ad inserire nel discorso espressioni e termini appartenenti alla sfera della burocrazia o termini aulici e tecnici, finendo però per storpiarli sul piano del significante, e risultando nei cosiddetti malapropismi, come vedremo nel capitolo 6 (Sobrero/Miglietta 2011, 100-101). Tutti questi fenomeni tipici dell’oralità si rivelano importanti per la nostra trattazione in quanto coerentemente trasposti nello scritto (Sobrero/Miglietta 2011, 100).
Sulla questione della possibile collocazione temporale dell“’Ur-italiano popolare“ e sulla nascita delle prime scritture semicolte propriamente dette rispetto alla normalizzazione grammaticale bembiana Cinquecentesca e pre-cinquecentesca, oltre che sulla separazione tra scritture proprie della varietà “alta“ e scritture riconducibili alla varietà “medio-bassa“, si vedano i critici lavori di Berruto (1987, 112-113) e Testa (2014, 21-24), oltre che il fondamentale lavoro di D’Achille (1994, 49-52; 57-65) ed i lavori di Valenti riguardanti questa varietà nel contesto cinquecentesco specificatamente siciliano (Valenti 2015, 533-542). A tal proposito, data la cospicua presenza di una parte dei tratti sub-standard nell’italiano popolare, concordemente con Bruni, Berruto sostiene che l’italiano popolare abbia offerto “una gamma di possibilità presente nell’italiano degli inizi, poi esclusa dalla codificazione bembiana della norma letteraria [e ricomparsa] con vigore quando una massa prima inesistente di parlanti non colti si è appropriata di una varietà di italiano“ (Berruto 1987, 113).
Dall‘Appendix Probi, una lista contenente 227 “errori di lingua“ evidentemente ben radicati nell’ambiente romano del primo secolo, che il grammatico Marco Valerio Probo tentò di correggere, al Satiricon di Petronio, testo contenente la nota Cena di Trimalchione, passaggio rappresentativo della compresenza di diversi stili impiegati dall’autore per distinguere socialmente i propri personaggi e volutamente rivelatore di una lingua “altra“, non rientrante nelle categorie normative imposte dal latino classico, fino ad arrivare all‘Itinerarium Egeriae, testo autobiografico ben lontano dal latino classico e improntato sul parlato dell’autrice, la pellegrina romana Egeria (Bruni 1984, 175-189).
Sulle drammatiche dinamiche che mossero gli scriventi semicolti alla scrittura durante la prima guerra mondiale, cfr. (Fresu 2015).
Cogliamo qui l’occasione per una dovuta precisazione sulle modalità di traduzione adottate nella nostra trattazione: le traduzioni da noi proposte vogliono anzitutto essere strumento per la globale comprensione semantica dei testi analizzati. Nonostante si sia tentato, infatti, in un primo momento, di mantenere almeno una certa aderenza morfologica e sintattica al testo originale, si è reso subito chiaro come ciò avrebbe inevitabilmente portato ad incomprensioni e malintesi, già presenti negli originali, anche all’interno delle traduzioni stesse. Di conseguenza, si è scelto di tradurre le intere lettere ed i frammenti presi in esame rendendoli il più possibile coesi e coerenti, laddove possibile, ai fini del nostro lavoro. Nostre sono anche le traduzioni in italiano dei singoli termini dialettali riportati nelle traduzioni, eccetto dove diversamente specificato; e a tal proposito, è doveroso ricordare che siamo consapevoli del fatto che altri studiosi, specie se di origine siciliana e provenienti da zone dell’isola diverse rispetto alla nostra, potrebbero riscontrare delle incongruenze (fonetiche, morfologiche, lessicali) tra la varietà qui riportata e la varietà da loro stessi parlata. È quindi fondamentale ribadire che i termini dialettali siciliani riportati nell’analisi sotto la voce “sic.“ non hanno la pretesa di essere riconosciuti come rappresentativi di un ipotetico siciliano standard: essi sono forme e termini facenti invece parte della varietà di siciliano parlata nel paese di Galati Mamertino, alla quale ci rifacciamo.
Sono aspetti questi che ben conosciamo, in quanto a noi raccontati in prima persona più e più volte nel corso degli anni.
Da diversi anni, la moglie di Peppino è a letto, a causa della demenza senile. Ella non parla, né pare recepire le parole dei familiari. Ciononostante, Peppino le porta ogni giorno un fiore raccolto nel giardino di casa, parlandole e rassicurandola sul bene che le vuole.
<<Siccome sono una persona che vuole sempre lavorare, scrivo ancora e mi piace tanto e per questo non mi non voglio smettere di scrivere, e così passa il tempo senza che ce ne si accorga, se no mi potrei mettere a dormire [il pomeriggio], però poi la notte non dormirei. Ed è per questo che non voglio dormire durante la bella giornata, e poi ve lo leggerò, questo bello scritto>>.
E ancora, durante i quotidiani colloqui con la famiglia, Peppino declama di essere, metaforicamente parlando, un professore, tanto è il suo sapere.
Sebbene le scuse per la propria scrittura siano presenti nella produzione di Peppino, abbiamo notato come queste vadano nel tempo via via scemando, rivelando la sicurezza dell’uomo, sviluppatasi con l’esercizio della stessa, nei confronti del testo scritto.
È qui inoltre interessante notare come, durante la lettura ad alta voce delle lettere e dei pensieri scritti, se da un lato Peppino legge effettivamente quanto trascritto, dall’altro va un po‘ a memoria, iniziando a pronunciare le prime sillabe, saltando alcuni caratteri o direttamente alcune parole, ma completando ugualmente la frase ed il pensiero ricordando quanto scritto, in quanto gli episodi narrati da Peppino nel nostro corpus costituiscono in gran parte una sorta di repertorio di eventi e narrazioni che l’uomo ha sempre condiviso oralmente con le figlie e la famiglia nel corso della sua vita. Avendo usufruito „in anteprima“ delle eventuali spiegazioni fornite da Peppino sulle proprie produzioni, le figlie dell’uomo hanno potuto aiutarci a sciogliere alcuni punti per noi di difficile comprensione o generalmente oscuri.
Data la distanza fisica che intercorre tra chi scrive e Peppino, non è stato possibile inoltrare il questionario di persona a Peppino; esso è stato bensì inviato alle figlie dell’uomo, le quali si sono occupate di raccogliere ed inviarci la risposta. Anche a motivo di ciò, non è stato possibile seguire passaggio per passaggio il processo di risposta al questionario, che non potremo perciò descrivere nel dettaglio.
<<Io Sono Nato a Galati Mamertino nel 1931 e sono nato il 24 e mi hanno dichiarato [all’anagrafe] il 25. Io ho fatto solo la terza elementare e avevo circa 9 o 10 anni, e poi a 14 o 15 mi sono fatto la scuola serale e [il maestro] ci faceva fare anche le lettere per la fidanzata. Io a 16 anni sono andato a zappare [sic. zappuliare] il grano e poi io, per evitare di venire a Galati sono rimasto ad aiutare le mie zie a Troina. E Io ho fatto sempre il contadino, come i miei cari genitori, tranne quando ho fatto il militare a Casale Monferrato e poi sono andato ad Alessandria. C’è stato un soldato che mi ha chiesto: «Fazio, ma tu come hai imparato a parlare italiano?» e Io gli ho detto: «Così come mi parlano, io rispondo. Se no, se io parlassi loro come [parlo] nel mio paese nessuno mi potrebbe capire». E poi quando sono tornato a  casa, dopo dieci mesi, mi rallegravo di parlare in italiano e adesso posso parlare con tutti come mi piace. E quando scrivevo a casa, scrivevo in italiano e io quando nella busta mettevo cinquecento lire, la mia cara mamma era analfabeta e correva per aprire la busta e mio padre, che sapeva scrivere e leggere, le diceva: «perché corri se non sai leggere?». Il mio caro papà ha trovato tre soldi e si è comprato il quaderno e con un solo soldo una matita [sic. lapis] e se n’è andato a scuola e il suo caro papà ha detto [parlando con il maestro]: «a mio figlio non c’è bisogno che gli insegni [le varie cose che si insegnano a] scuola. Gli deve solo insegnare [sic. imparari] l’educazione». E allora il mio caro padre ha pensato: «ma allora io che cosa sono? Un animale?» e allora, da allora [sic. di tannu] in avanti è diventato un bravo bambino e poi anche una bravissima persona e diceva che le persone brave possono stare in tutte le società civili. Io parlo come mi piace però, quanto allo scrivere non si può scrivere in dialetto: si deve scrivere per forza in italiano>>.
Utilizzando le domande del questionario come una griglia da cui partire per costruire una produzione, eludendo, però, diverse delle stesse.
Pur non preoccupandosi però di spedirle: esse sono infatti serenamente conservate nei quaderni e solo qualora si presenti l’occasione, vengono mostrate agli interessati. In ogni caso, però, bisogna notare come Peppino non ponga mai all’interlocutore delle domande che prevedano delle risposte dal destinatario, come a segnalare, a livello inconscio, di sapere già che questi non riceverà la lettera.
A proposito del genere epistolare, Fresu (2008) ritiene, inoltre, che la “dialogicità a distanza“, tratto proprio del genere della lettera vada a giustificare “i cedimenti verso una pianificazione arcorata all’oralità e sfumata in toni familiari e informali“, nelle scritture semicolte.
A tal proposito si segnala la presenza di cosiddetti “doppioni“ nei nuclei tematici, come accade nelle produzioni di Tommaso Bordonaro, siciliano semicolto classe 1909, emigrato in America; come spiega Amenta (2012, 737), con il passare del tempo, Bordonaro pare avere dimenticato di avere scritto ed inviato le proprie produzioni al professore che ne curava le edizioni, creando, così, nuove produzioni sugli stessi temi già trattati. Anche le produzioni di Peppino presentano, come detto, più volte gli stessi argomenti; tuttavia, pare che questo sia non tanto da ricondurre alla memoria dell’uomo, che pure certamente potrebbe giocare dei brutti scherzi; quanto all’importanza che per lui queste tematiche rivestono. Per quanto riguarda, al contrario, l’inserimento di veri e propri doppioni di racconti, canzoni e poesie, simili nella forma oltre che nel contenuto, è lì possibile che ciò sia da attribuire al fatto che l’uomo non ricordi di averle già “immortalate“ per iscritto. In ogni caso, la presenza dei doppioni ha talvolta reso più leggero il processo di ricostruzione e traduzione dei testi, spesso a tratti criptici.
Non deve qui stupire la convergenza tra tali discipline, apparentemente lontane tra loro: come fa notare Spina, infatti, uno dei tanti elementi di contatto tra le due sarebbe costituito dal fatto che entrambe si occupano dello “studio di diverse modalità di comunicazione che, in entrambi i casi, avvengono mediante l’uso di codici“ (codifica e decodifica del codice nel passaggio tra parlante-mittente e parlante-ricevente, nel caso delle lingue naturali; codifica in “linguaggio macchina“ delle istruzioni ricevute dall’utente, e codifica della risposta della macchina in un linguaggio comprensibile per l’utente, nel caso degli elaboratori elettronici) per la trasmissione dell’informazione (Spina 2001, 9). Strumenti e metodi visceralmente propri dell’informatica vengono inoltre serenamente utilizzati dalla linguistica: uno su tutti, il parametro della composizione/scomposizione tramite il quale essa opera la segmentazione del continuum linguistico, parametro caro all’informatica che è “per sua natura, basata su tecnologie che permettono di atomizzare oggetti diversi (testi scritti e parlati, immagini fisse e in movimento, suoni), [ e ] di scomporli nella catena di zero e di uno su cui si fonda il codice binario che essa utilizza“ (Ivi: 10). Per un approfondimento sugli ulteriori punti di convergenza e punti di scambio tra linguistica ed informatica, si veda Spina (2001, 9-12).
Come spiega Spina (2001, 7)l’esponenziale evoluzione delle tecnologie informatiche ha permesso di passare dai primi rudimentali “calcolatori elettronici“ diffusisi negli anni Quaranta-Cinquanta ai personal computer sviluppati trent’anni dopo, passando da un iniziale dominio contestualmente ristretto quale quello prettamente scientifico (si pesi a discipline basate sul calcolo quali matematica e fisica) ad una funzionalità eclettica (general purpose) che potesse aprire a diverse operazioni, tra cui spiccano, tra le altre, la conservazione ed il trattamento di informazioni attraverso lo strumento dell‘elaboratore elettronico. Spina individua inoltre le origini teoriche della disciplina nelle menti di filosofi e matematici quali Leibniz, Boole, Pascal e Russell, in quanto lo sviluppo delle nuove tecnologie sarebbe derivato proprio dall’intersezione tra studi di logica e studi matematici (Spina 2001, 8).
Per un approfondimento diacronico sullo sviluppo delle iniziative più rilevanti nel campo degli studi linguistici assistiti da computer, cfr. Spina (2001, 17-29).
È interessante vedere come l’ambito linguistico in cui la linguistica dei corpora trova maggiore applicazione sia quello lessicografico, ambito in cui è possibile operare un celere confronto digitale dei dati; nel caso della sintassi, al contrario, l’analisi linguistica del dato testuale fornito dal corpus non è sufficiente, in quanto è necessario contestualizzare le connessioni sintattiche tramite l’aggiunta di ulteriori informazioni ad opera dell’uomo stesso (Spina 2001).
A tal proposito è bene sottolineare la presenza di alcune annotazioni trascritte dalle curatrici del materiale sulle copie originali delle produzioni dell’uomo, circa la data di stesura delle stesse (prevedendo di spedirle o tentando, talvolta, di ordinarle cronologicamente), o sotto forma di delucidazioni rispetto al pensiero – o alla scrittura stessa – a tratti poco cristallino del padre, nella previsione, nel caso delle lettere, di farle leggere con più scorrevolezza agli interessati. Si potrebbe pensare che queste vadano a confondersi con le note apposte dallo stesso scrivente e a compromettere il lavoro di ricerca, ma in realtà gli interventi da parte di terzi sull’originale si distinguono sensibilmente dalle annotazioni dello stesso Peppino: le due tipologie di correzione o intervento sono infatti visibilmente diverse e ben riconoscibili per calligrafia, colore dell’inchiostro e carattere impiegato, in quanto Peppino non sembra conoscere altro carattere che il corsivo minuscolo, mentre le figlie impiegano di norma lo stampatello maiuscolo o, al limite, un corsivo minuscolo con una calligrafia comunque inequivocabilmente non attribuibile a Peppino.
In tal senso si è fatto riferimento alla metodologia di raggruppamento per tema seguita da Leo Spitzer nell’edizione delle Lettere di prigionieri di guerra italiani (1915-1918), nella quale il linguista analizzò le specificità delle lettere raccolte in 23 diversi capitoli a cui aveva dedicato una specifica tematica ricorrente nelle produzioni: la lontananza, l’attesa della pace, le richieste di denaro e vestiario sono solo alcuni dei diversi temi che più si riproponevano nello scambio epistolare contenuto in questa edizione.
Si è qui reso necessario impiegare una tripla barra obliqua al fine di distinguerla sia dalla singola barra obliqua da noi regolarmente inserita nei testi riportati per segnalare il tornare a capo di Peppino, sia e dall’effettivo inserimento operato dall’uomo di una sbarra obliqua nel riportare una data, in 8.3.1-VIII: “11//12//2182018“.
La lettera che presenta questo fenomeno è difatti quella che aveva più possibilità di essere realmente recapitata al destinatario o, se non propriamente recapitata, quantomeno mostrata alla diretta interessata: stiamo parlando della lettera 8.2-XVI, indirizzata alla parrucchiera del paese. La produzione potrebbe avere subito delle lievi correzioni non solo per volontà di Peppino durante la sua personale rilettura, ma da parte delle figlie. Di conseguenza pare qui corretto sottolineare la possibile non piena attendibilità della specifica correzione effettuata tramite < / >.
Tramite il lavoro di lettura, trascrizione e analisi eseguito in questi mesi sulle produzioni di Peppino, si è avuto modo di sviluppare una comprensione del modus operandi dell’uomo rispetto alla scrittura e alla sistematicità delle soluzioni da lui adottate. Questo ragionamento non vuole dunque avere la deterministica pretesa di conoscere come egli si sarebbe potuto approcciare alla risoluzione del problema dell’inserimento, tra due parole precedentemente univerbate quali sono avoluto <<hai voluto>>, del grafema i dimenticato durante la stesura. È tuttavia opportuno ritenere, data la frequente occorrenza del fenomeno, che in casi come questo Peppino avrebbe inserito il grafema tra le due parole, non curandosi di separarle, come da noi riportato durante la trascrizione su DH.
<<Gli uomini si dividono in quattro categorie: uomini, mezzi uomini, ominicchi e quaquaraquà. Mi diceva la buonanima di mio papà, ’nzanitàte: “un uomo vale per quello che sa. Se non sa niente, che cos’è? Un ceppo [sic. zuccu] di castagno [sic. castagnera]“; e mio padrino mi diceva: “chi è buono, è buono per tutti. Chi è cattivo [sic. tintu], è cattivo per se stesso“; era fratello di mia mamma: questa è la mia intelligenza!>>.
Anche in tal senso, in questo specifico esempio, sembra poco probabile che questi siano stati inseriti dalle figlie, le quali godono di un’istruzione tale da consentire loro di poter distinguere i corretti usi della punteggiatura; siccome, inoltre, questo passaggio non interessa terzi se non Peppino stesso, escludiamo che sia stato “maneggiato“ e corretto dalle figlie dell’uomo, come invece avviene nel biglietto d’auguri per la laurea della nipote Alessia o in altre lettere, le quali, essendo rivolte ad altri, sono spesso state riviste dalle due donne, al fine di rendere, come più volte detto, la lettura più scorrevole.
A proposito dell’impiego della virgola, si segnalano la lettera 8.2-XXII in cui essa separa, in un’elencazione di nomi, un elemento dall’altro, per poi assumere infine il valore del punto fermo a chiusura della frase e ad apertura della successiva: “la strata che saliva della turre labiamo / ziaia quattro Io, Calogero Conte, la / Signora Gina mmanna e famoso / chognato Antonino pinitto, u bonanima / di nostro fratello Antonino mia detto / stai atento“ <<la strada che saliva dalla torre l’abbiamo percorsa per la prima volta [sic. nsaiata, da nsaiari, lett. provarsi un abito nuovo, cfr.  Giarrizzo (1989, 232)] in quattro: io, Calogero Conte, la Signora Gina mmanna e il famoso cognato Antonino pinitto. La buonanima di nostro fratello Antonino mi ha detto “stai attento!“>>; ed il pensiero 8.3.1-VIII, in cui le virgole compaiono – sebbene non sistematicamente – con la stessa funzione nell’elenco dei fratelli e delle sorelle di Peppino: “eravamo quatro / fratelli e tresorelle. Langhiu / si grande si chiamava Concettina / laseconda Giuseppina poi cera / un fratello che si chiamava / Salvatore, Io, poi Antonino, / Lina é Paolino.“.
Segnalando la citazione di parole pronunciate da terzi tramite l’inserimento dei due punti, Peppino si porrebbe su un diverso livello del discorso narrativo, rivelando la propria competenza metacomunicativa. Tuttavia, vista l’assenza di questo atteggiamento nella restante produzione dell’uomo, dove, al contrario, come vedremo, egli passa con nonchalance da un piano all’altro, dobbiamo concludere che questo segno d’interpunzione sia stato inserito dalle figlie.
Sul perché del doppio inserimento della barra obliqua nella nostra trascrizione delle lettere, cfr. il capitolo 5.3.2 della nostra trattazione.
Non è men che meno pensabile che Peppino sia a conoscenza dell’opposizione tra le varianti standard /e/ ed /ε/, così come quella tra /o/ ed /ɔ/, e che tenti di riprodurla, a motivo della difficoltà regionale di distinzione tra l’opposizione di queste ultime due varianti aperte e chiuse, le quali nel sistema vocalico siciliano vengono neutralizzate, lasciando spazio alle varianti aperte /ε/ ed /ɔ/ (D'Achille 2003, 184) .
Ricordiamo, infatti, che durante il periodo militare trascorso a Casale Monferrato, all’età di vent’anni circa, Peppino soleva inviare delle lettere ai genitori rimasti in Sicilia.
Non prenderemo qui in esame il primissimo testo scritto di Peppino risalente al 2016, il biglietto d’auguri per la laurea della nipote Alessia, in quanto, presentando una notevole quantità di punti fermi estranei alle successive produzioni, è grande la possibilità che il testo ottenuto sia stato il risultato finale di suggerimenti, correzioni e manipolazioni apportate, per l’occasione, dalle figlie di Peppino allo scheletro del testo da lui elaborato.
Sulla particolare resa grafica della parola, cfr. § 5.3.4.
Cfr., a tal proposito, Ruffino (2001, 77-78).
A tal proposito è interessante notare, come spiega Spitzer, che i termini geografici estranei alla coscienza popolare vengono storpiati sul piano del significante, venendo paretimologicamente “assimilati alla meglio a parole italiane note, anche se prive di senso“ (Spitzer 1976, 38), costituendo una sorta di malapropismo, come vedremo in 5.5; la parola “Jugoslavia“ doveva certamente rientrare tra la serie di termini “esotici“ di difficile assimilazione e riproduzione per una persona dalla bassa istruzione quale Peppino, come dimostra altresì un secondo inserimento della stessa, “avicusgrauria“ (8.3.4-III), nel quale la storpiatura è ancora più evidente.
Parlando della nascita della seconda figlia in 8.2-XXIV, ad esempio, di fondamentale importanza per l’uomo paiono le parole: “Dottora“ <<dottori>>; allo Spetale“ <<all’ospedale>>; Lasignora Lucia Lavitrice“ <<la signora Lucia, la levatrice>> ossia la donna che assisteva la moglie durante la gravidanza; l’aggettivo Poveretta“, espresso compassionevolmente nei riguardi della moglie sofferente per i dolori del parto e alla quale è indirizzata la lettera.
<<Spero che la presente lettera venga a trovare a te. Io ti voglio tanto bene come tu vuoi bene a me e alla nonna, che ti vuole bene. Tu sei intelligente […] mi ricordo quando, ’nsanitate, è venuta a mancare la tua nonna Nunzia, gli hai chiesto alla nonna Nina se si era dispiaciuta e lei ti ha risposto “certo, gioia“. Adesso ti salutiamo, io e la nonna che anche lei ti vuole tanto bene e ci dico presto ci vieni a trovare tu. Ti abbracciamo baciandoti>>.
Le maiuscole sono, infine, impiegate pressoché regolarmente per i nomi dei mesi dell’anno, che di norma dovrebbero essere scritti in minuscolo: “gennaio Febraio Marzo A Prili Magio Giugno Luglio A_gosto Settenbre Ottobre Novebre ĕ Dicenbre: “, 8.3.2-V; e con le lingue (parola anch’essa riportata in maiuscolo), come si nota nel frammento precedentemente analizzato (8.3.1-VII): “Inglse Tedec Te Tedesco è Fra / è Francese Italiano / Inglese Tedesco é Francese? / Mia Nipote Parla queste / l Lio Lingue“.
Allo stesso modo, si potrebbe ipotizzare una certa difficoltà nella resa grafica della lettera <j> riscontrata nella scrittura della parola “Jugoslavia“; in questo caso, però, sembra più plausibile credere che Peppino non fosse a conoscenza di come si scrivesse questa parola e che la conoscesse avendola sentita nominare a qualcuno, possibilmente durante il suo soggiorno militare in Piemonte; non avendo dunque idea dell’implicazione della <j> nella denominazione di questa nazione, Peppino la riporta graficamente realizzando quello che si caratterizza come un malapropismo, come precedentemente accennato e come vedremo più approfonditamente nel capitolo 6.3
Per quanto riguarda il nesso <gh> – presente in “ora voghio finire“, ora voglio finire (8.2-IV) – si nota come esso rifletta l’interferenza dialettale del verbo sic. vogghiu, il quale viene trasposto all’italiano voglio, e come la forma risultante rifletta una commistione di elementi da entrambe le lingue. Il nesso viene altresì trascritto in “Langhiu / si grande“, la più grande (8.3.1-VIII): è evidente l’interferenza con il siciliano a cchiù ranni, forma che qui appare, però, ipercorretta o risultante da un’assimilazione della <g> ad una possibile nasale velare sonora /ŋ/ che la precede.
È bene qui precisare, però, che non si tratta di un fenomeno sistematico nel corpus: più volte Peppino va a capo dimenticando di segnalare il procedimento apponendo il segno ( = ), come, ad esempio, in in 8.2-XX: “cimancha / va un ferro“ <<gli mancava un ferro [allo zoccolo]>>.
Si notano, inoltre, dei casi in cui l’uomo va a capo, magari rispettando anche la corretta divisione in sillabe e segnalando l’evento tramite il segno ( = ), dimenticando, però, di scrivere nel rigo successivo la sillaba da riportare, come in 8.3.3-II: “e mipia= / tanto“ <<e mi piace tanto>>; o in 8.2-XX: “u banani= / di donturigu“ <<la buonanima di Don Turiddu>>; fenomeno di distrazione dovuto forse alla fretta e alla foga di Peppino nello scrivere.
Per rendere maggiormente l’idea, essa potrebbe ricordare il suono che in inglese viene reso con la vocale breve /ɪ/, di will, rabbit, Latin ecc.
<<Cara Alessia, ti scrivo queste due parole per dirti che sto bene di salute e così spero che stai bene anche tu e i tuoi amici e ti voglio tanto bene come tu vuoi bene a me. Ti saluto e ti dico che mentre dormivo, ti ho sognato, ho sognato che mi abbracciavi. Non posso scordarmi mai di te, tu sei una ragazza tanto intelligente, ed è per questo che mi vuoi tanto bene, perché perché vedi che io ti voglio assai bene. Non mi prolungo più. Ciao, a presto. Intanto allungo ancora: la mamma è uscita fuori con la zia. I saluti ti mando di nuovo, ciao, e ti saluta anche papà>>.
Con il passare del tempo e con l’esercizio della scrittura, tuttavia, Peppino pare acquisire maggiore confidenza con la forma “tuoi“, che appare trascritta correttamente più volte nel corpus, sebbene non sia esente da problemi relativi all’accordo, come vediamo in una lettera scritta nel 2018 alla nipote minore, in cui si legge: “timeriti tanto ririspetto di tutte Noi le Nonne ele Tuoigenitore“, <<ti meriti tanto rispetto (da parte) di tutti noi, (dal)le nonne e (da)i tuoi genitori>> (8.2-XIX); in questo passo notiamo ancora la tendenza di Peppino a rendere la -i finale indistinta con -e (tutte Noi, <<tutti noi>>; genitore, <<genitori>>) e ad accordare le desinenze dei relativi articoli impiegati sulla base di queste (leTuoigenitore).
<<Carissima nipote Alessia, ti scrivo questa lettera per dirti che sto bene di salute e così spero che stai bene anche tu e ti dico che la nonna sta anche bene e io dico che certamente ti vuole vedere. A lei piacerebbe che tu le stessi sempre vicino e ti dico che quest’oggi tuo papà e tua mamma ci hanno fatto una sorpresa. Io non li aspettavo perché sapevo che sarebbero venuti per il santo Natale e invece sono venuti quest’oggi! La badante mi ha detto che c’era Carolina e invece c’erano tuo papà e tua mamma. Non mi prolungo tanto e ti dico ciao a presto, tantissimi saluti e baci. Ciao. E adesso, carissima nipote Alessia, ti scrivo un racconto antico, per esempio, tanto per farti capire: c’erano tre fratelli, come, per esempio, nella nostra campagna a Milè (noi la chiamiamo Milè, però sulla mappa si chiama Liazzo) e lavoravano, questi tre fratelli. È passato un signore, ha salutato ed ha continuato ad andare avanti per la via e siccome [i tre fratelli] erano indietro di senno [stupidi], si stavano impasticciando [azzuffando], dicendo: “Quel signore ha salutato me!“. Tutti [e tre] dicevano così. Uno dei tre ha detto: “Andiamogli a domandare a chi ha salutato“, allora quel signore ha risposto: “Ho salutato quello [più] fesso che c’è“ e domandava loro a chi fosse successa la cosa più stupida [per decretarlo]!>>.
Di particolare interesse in quanto presente nell’unica lettera in cui Peppino si rivolge dando del Lei al destinatario, esprimendo intenzionalmente una dovuta distanza diafasica: “levogliono tutti Bene perche Lei / vole Bene a laltri quindi quindi ci dico / che ciá una buona fama“ <<Le vogliono tutti bene perché Lei vuole bene agli altri, quindi Le dico che Lei ha una buona reputazione>> (8.2-XVI).
Un fenomeno similare potrebbe essere riscontrato anche nella formula di chiusura della lettera, in cui Peppino scrive Tantismi Salute é Baci“ <<tantissimi saluti e baci>>, fenomeno che potrebbe all’apparenza essere letto come esempio di un mancato accordo tra un aggettivo ed un sostantivo, fenomeno tipico dell’italiano dei semicolti (Mocciaro 1991, 35): se infatti la desinenza plurale di tantissimi è correttamente accordata con quella di baci,  essa non lo è rispetto a quella di saluti, sostantivo che nella resa di Peppino presenta una -e finale. In questo caso, però, pare probabile che lo scambio tra il sostantivo femminile singolare salute e il maschile singolare saluto (al plurale saluti) sia causato dalla riproduzione su carta del continuum fonico parlato, il quale prevedrebbe un’assimilazione tra la -i siciliana indistinta in fine di parola (che, come detto poc’anzi, facilmente assume in ogni caso nella produzione dell’uomo il carattere di una -e finale) e la congiunzione “e“, risultando nella desinenza -e del sostantivo saluti.
Si noti, inoltre, che questa frase resa all’imperfetto in siciliano può anche essere tradotta in italiano con il passato prossimo: quel signore ha salutato me.
Se si volesse creare una frase marcata in siciliano, basterebbe infatti spostare il verbo dall’ultima posizione; nel nostro caso, una frase sintatticamente marcata sarebbe: quel signore salutava a mìa; o ancora: a mìa salutava quel signore.
Sebbene si segnali la presenza di alcune frasi secondarie introdotte da “che“: “ti scrivo perdirti che sto Bene di Salute“; “spero che stai Bene Anche Tu“; “Tidi_cho chela Nonna sta Anche bene“ ecc.
Si noti, tra l’altro, l’impiego di una struttura analitica come “indietro di senno“ anziché di una sintetica come “stupidi“, fenomeno caratteristico degli italiano dei semicolti (D'Achille 1994, 73).
<<Carissima campagna, io Fazio Peppino Rocco vorrei stare sempre con te però non lo posso fare e mi dispiace ma devo essere paziente perché le (mie) figlie non mi hanno fatto prendere la patente e devo dipendere da loro [sic. grammizio, termine arcaico riportato in Giarrizzo (1989, 169) come grammizzi‘, loc. avv. <<molte grazie>> dal fr. grand merci <<mille grazie>>; da questa locuzione avverbiale proverrebbe il modo di dire stari in grammizio ri carcunu, ossia, <<essere alla mercè di qualcuno, dipendere dal suo volere ed essere dunque in obbligo di ringraziarlo per la sua benevolenza]. Se io me ne vado [sic. pàrtiri] da solo, a piedi, la gente mi prende per stupido, a me e alle mie figlie. Però io una volta buona sono andato (da solo). Prima che arrivassi in campagna, c’era un signore con sua moglie; mi è arrivato da dietro e mi ha detto: “Dove va?“ – “Vado a raccogliere[sic. cògghiri] un po‘ di fichi“ – “E le sue figlie?“ – “Loro, quando vedono che non ci sono più gli stivali [sic. scarpuna], lo capiscono che sono andato in campagna“. Infatti mia figlia Antonietta se l’è pensata e mi è venuta a prendere. Io sono Fazio Peppino Rocco, Galati Mamertino 29 Dicembre 2018>>.
Un altro esempio dello stesso fenomeno è offerto nella prima lettera: “Luei cipiacesse che stavi Tu senpre / vicino a Lui“, sebbene esso sia riferito alla moglie, dunque coniugato alla III persona singolare.
Facciamo qui riferimento alla specifica varietà galatese, in quanto, se è vero che la costruzione dialettale siciliana più diffusa per esprimere il periodo ipotetico dell’irrealtà è quella, come detto sopra, del cong. imperf. + cong. imperf., è altrettanto vero che in altre zone dell’isola esistono forme al condizionale come vurrìa <<vorrei>> e farrìa <<farei>> (cfr. Ruffino 2001, 62), diffuse ad esempio a Messina e, per continuità spaziale, nella vicina Calabria (cfr. Krefeld 2019).
Si noti che questo costrutto assume sì primariamente il valore della forma modale italiana dovere+infinito, ma esso può anche assumere il valore di futuro: a differenza dell’italiano, infatti, il sistema verbale siciliano non presenta delle forme sintetiche per esprimere il futuro, il quale viene invece reso o tramite l’impiego del presente indicativo, o, appunto, tramite l’impiego di forme perifrastiche quali il costrutto àiu a + infinito, spesso seguito da un complemento di tempo come dumani <<domani>> o doppudumani, <<dopodomani>> (per un ulteriore approfondimento, cfr. almeno Ruffino 2001, 62).
Si noti qui l’interferenza, nella resa del sostantivo italiano figlie, con il sostantivo sic. fìgghi, valido ad indicare sia il maschile che il femminile.
Frase in cui spicca, per altro, l’uso anch’esso tipico del parlato informale del dativo etico, indicante un particolare coinvolgimento anche affettivo del parlante nell’azione espressa dal verbo, in questo caso tramite l’inserimento del pronome “mi“ (cfr. Cignetti 2010).
<<[…] Io mi ricordo quando mi prendevi le scarpe, non lo dimentico mai, e quando eravamo in campagna, [quando] ti ho detto di porgermi l’accetta [sic. ccittuni] [e appena me l’hai] porto sei andato a trovare la mamma. Io, siccome non ti trovavo più, sono sceso dall’albero pensando che andavi nella cisterna [sic. gèbbia], mentre invece eri con la mamma e me ne sono ritornato sull’albero, l’accetta me la sono messa alla cintura [sic. cintu] e così è come andò la faccenda. Io mi ricordo anche che passavi nel canaletto dell’acqua [sic. saia] […]>>.
<<Io ricordo quando tu dicevi alla buonanima della mamma (nzanitate): “mamma, ’sta botola [sic. catarrattu] aperta con la tenda abbassata è pericolosa per la figlia Natalina!“ (o per la figlia Antonietta, non me lo ricordo) finché la figlia Natalina non è caduta di sotto, in cantina [sic. suttano]. Tu eri incinta e dallo spavento hai abortito e allora io, che lavoravo alla casa di sopra di Lina, qualcuno mi è venuto a chiamare che dovevamo andare all’ospedale a Sant’Agata di Militello e mi ha accompagnato la buonanima di Gino Serio (nzanitate) e con noi c’era la signora levatrice. L’autista le ha detto: “a quantu ama iri? [a quanto dobbiamo andare?]“ e la signora Lucia, la levatrice, ha risposto: “volare!“ e allora l’autista ci ha detto “mettete un fazzoletto fuori dallo sportello“ [lett. “uscite fuori un fazzoletto fuori dallo sportello“] e ricordo che i dottori pensavano che avessi abortito apposta e tu, poveretta, gridavi dal dolore>>.
Cortellazzo spiega, infatti, come questo italiano si riveli “del tutto inadatto ad esprimere concetti estranei alla minuta, anche se ricca, esperienza popolare. Quando lo fa, diventa goffo e confuso, dovendo ricorrere ad un complesso terminologico non suo, ma calato dall’alto e male assimilato“ (Cortellazzo 1972, 16-17).
Dal verbo abburtìri, derivato dal sostantivo sic. abbortu, dal lat. abortus, intempestivus ortus (Pasqualino 1987).
<<Carissima Alessia, ti scrivo questa letterina per dirti che sto bene di salute e così spero che stai bene anche tu e ti dico che sei un’ottima nipote, tanto intelligente, ed è per questo che mi ha dato tanto piacere che ti sei laureata, anche a tuo papà e a tua mamma, e hai dato tanto piacere anche alla zia Antonietta. “La persona vale per quello che sa“, diceva (nzanitate) il tuo bisnonno[sic. catananno], “un uomo vale per quello che sa, se non sa niente è un ceppo di castagno“. E tu non hai bisogno che te lo dica io quello che devi fare. E speriamo che trovi un lavoro che ti piace a te. A me, personalmente, il lavoro mi è piaciuto sempre, da quando prendevo 15 lire al giorno e avevo circa dodici, tredici anni e mietevo il fieno nel comune di Troina. La prima volta che ho mietuto il grano, mi sono fatto un piccolo taglio [sic. tagliatina] al dito e il principale mi ha detto: “cammina“ [sic. camìna, ‚vieni‘]; mi ha portato a mettere le balle di fieno [sic. zegne] a dieci a dieci, io ce la facevo perché erano piccole. I grandi prendevano ottanta lire al giorno, mentre a me me ne ha date cento lire, per dieci giorni. Io non vedevo l’ora di finire per vedere com’era la piana che c’era più avanti. Mentre avevamo l’asinella incinta del cavallo, si ritornava. Siamo andati a Bronte. Per la strada ci incontrarono tre, quattro signorine che cantavano “vincere, vincere! In cielo, in terra, in mare. Le nostre labbra giurano: vincere o morire!“ e il tuo bisnonno ha detto “Figlie di buona mamma!“, perché erano imponenti. Mentre tu, carissima Alessia, hai tanto studiato e ti trovi bene. Tantissimi auguri. Se non ci penso io, chi ci deve pensare! Tuo papà con l’età è diventato bravo, tanti saluti. Tuo nonno  Peppino Rocco Fazio 24-11 2018>>
Non doveva certo essere uno spettacolo usuale per un uomo siciliano di paese vedere delle giovani ragazze cantare allegramente per la strada, tanto più se da sole.
<<20.18. Carissima Nipotina Marika, io sono tuo nonno Peppino Rocco Fazio. Ti scrivo questa letterina per dirti che sei bravissima, anche [se] sei stata un pochettino sfortunata precedentemente, quando vivevi a San Marco, perché pagavate tanti soldi per l’affitto e non potevi comprare tutto il necessario, mentre ora, per grazia di Dio, certamente ti senti meglio perché la fortuna, credo, che si è svegliata e hai preso un po‘ di respiro, per grazia di Dio. E questo, come immagini, a me mi fa il più grande piacere e adesso, parlando in italiano: tu certamente ti dai da fare certamente per quello che puoi e ti dico che si dice “chi vole fare una buona anzianità, deve fare un po‘ di propri sforzi“ e si dice che la persona vale per quello che sa, se non sa fare niente, diceva il tuo bisnonno, che cosa è? Un ceppo di castagno. E con le buone maniere devi dire alla tua mamma di mettere qualcosa da parte (soldi, intendo), perché le devi dire “al più presto mi devo sposare“; “le cose lunghe“, dicevano gli antichi, “diventano serpenti“ e tua mamma certamente questo lo deve fare presente a tuo papà e comunque spero che mi sono spiegato per bene, non mi dilungo tanto perché si dice “a buoni intenditori, poche parole“ ciao, tuo affezionatissimo nonno>>.
Il discorso s’ingarbuglia ulteriormente nella lettera 8.2-XXI, in cui Peppino cerca di incoraggiare il destinatario della stessa riportando un dialogo avvenuto anni addietro con il padre, nel quale, come in un meccanismo a scatola, è presente un ulteriore discorso diretto pronunciato in un altro meta-racconto inserito nel dialogo di primo livello. Anche e soprattutto in questo caso, di fondamentale aiuto si sono rivelate le figlie dell’uomo, oltre che la lettura ad alta voce, la quale ha talvolta permesso di ricostruire (tramite il tentativo di dare una certa intonazione alle parole) il senso dei dialoghi.
<<E io ti dico che quest’oggi tuo papà e tua mamma ci hanno fatto una sorpresa. Io non li aspettavo perché sapevo che venivano per il santo Natale e invece sono venuti quest’oggi. La badante mi ha detto che c’era Carolina e invece c’era tuo papà e tua mamma>>.
<<Carissima Signora Cettina, Lei è una brava signora ed è per questo che Le vogliono bene tutti, perché lei vuole bene agli altri. E Le dico che ha una buona reputazione presso tutte le persone. È questo che ci vuole, come Lei ben sa. Io non mi stanco mai di dire che è una signora per bene ed è giustissimo. Un fratello di mia mamma mi diceva: «chi è buono, è buono per tutti; chi è cattivo, è cattivo per se stesso» […] un uomo che ha due mila lire e le tiene tutte e due per domani, non è un uomo: bisogna essere previdenti per oggi e per domani. Così dicendo io finisco di scrivere perché si dice “ai buoni intenditori, poche parole“. Scusi se ci sono errori e profondamente ciao. E io più di tanto non so fare […] tanti saluti, il Suo amico Peppino Rocco. Grazie tante per avere tagliato i capelli a mia moglie Nina. Sono fatti benissimo e lei stava [buona] perché si accorgeva che Lei le voleva tanto bene. Ora dimostra vent’anni di meno. Lei, cara Signora Cettina, è assai brava. Io Le faccio tanti auguri, a Lei e alla sua famiglia. Tanti saluti, suo amico Peppino Rocco e tanti saluti da mia moglie Antonina. Grazie, ciao>>.
<<Io Peppino Rocco sono intelligente e quindi non ho bisogno della guida delle figlie. Siete voi che avete la guida da me. Tanti saluti a tutte e due, ai generi e anche ai nipoti che sono sicuro mi voglio bene come io voglio bene a loro. Grazie tante. E voglio che anche [voi] figlie siate intelligenti>>.
<<Io voglio andare in campagna per lavorare e i miei figli non mi [ci] vogliono portare. La campagna dice “dammi che ti do“ e l’aria della campagna fa bene alle persone e le persone fanno bene alla campagna. E si dice chi vuole bene a Dio deve rispettare i Santi. Le persone intelligenti capiscono bene quello che mi sforzo di dire io>>.
<<Carissima campagna, io Fazio Peppino Rocco vorrei stare sempre con te però non lo posso fare e mi dispiace ma devo essere paziente perché le (mie) figlie non mi hanno fatto prendere la patente e devo dipendere da loro [sic. grammizio, termine arcaico riportato in Giarrizzo (1989, 169) come grammizzi‘, loc. avv. <<molte grazie>> dal fr. grand merci <<mille grazie>>; da questa locuzione avverbiale proverrebbe il modo di dire stari in grammizio ri carcunu, ossia, <<essere alla mercè di qualcuno, dipendere dal suo volere ed essere dunque in obbligo di ringraziarlo per la sua benevolenza]. Se io me ne vado [sic. pàrtiri] da solo, a piedi, la gente mi prende per stupido, a me e alle mie figlie>>.
<<E ora che devo fare? Devo andarmene a piedi. Però il fatto è che la gente che mi vede prende per babbo a me e a tutta la famiglia: i generi, le figlie e i nipoti, tranne Paolo e pure un po‘ Marika. E si dice: “quando i parenti non possono soddisfare le proprie richieste [sic. serviri], bisogna rivolgersi agli estranei“. Tanti saluti Ciao>>.
Sebbene questo comportamento non sia stato sinora direttamente osservato, si potrebbe anche ipotizzare che Peppino abbia creato questi contenuti per la donna nell’intenzione di condividerli oralmente con lei, così come è solito fare con le sue altre produzioni lette ad alta voce di fronte al pubblico familiare.
Manca qui la suddivisione tramite < / > in quanto l’originale è andato perduto durante il processo di trascrizione delle lettere di Peppino.
Anche in questo caso la suddivisione tramite < / > è mancante in quanto l’originale è andato perduto durante il processo di trascrizione delle lettere di Peppino.
Ancora una volta, manca la suddivisione tramite < / > in quanto l’originale è andato perduto durante il processo di trascrizione delle lettere di Peppino.

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