Inquadramento grammaticale del dialetto di Grottammare
1. Introduzione
L’Italia con le sue numerose parlate e varietà dialettali ha presentato e presenta tutt’oggi un attraente ambito di ricerca per studiosi e dialettologi, specie della lingua italiana. Sono stati molti gli intenti di trovare una sistemazione adatta ai dialetti presenti in Italia, per la quale si possano suddividere le varie parlate. Il primo a distinguere l’Italia in vari gruppi dialettali è stato Graziadio Isaia Ascoli con la sua rivista Archivio glottico italiano (1882-1885) (cf. Treccani). Il criterio da lui esaminato, secondo il quale i vari gruppi si sono distinti, è la maggiore o minore distanza linguistica riguardo al toscano in quanto viene considerato come la varietà più vicina al latino. Ascoli ha dunque rivelato il gruppo dialettale appartenente ai sistemi neolatini non-peculiari all’Italia, perché allora si trovavano fuori dai confini. Il gruppo include i dialetti provenzali e franco-provenzali, i dialetti ladini centrali e quelli ladini orientali o friulani. Come secondo gruppo ha evidenziato dialetti che si distaccano dal sistema italiano, ossia quelli che non rientrano nel sistema neolatino estraneo all’Italia. Esso include i dialetti gallo-italici e dialetti sardi. Il penultimo gruppo riprende i dialetti che “si scostano, più o meno, dal tipo schiettamente italiano o toscano, ma pur possono formare col toscano uno speciale sistema di dialetti neo-latino” (cf. Ascoli in Treccani). Di esso abbiamo il veneziano, i dialetti dell’Umbria, delle Marche e della provincia romana come anche i dialetti della Sicilia e delle provincie napolitane. L’ultimo gruppo è caratterizzato dal toscano e il linguaggio letterario degli Italiani (cf. Treccani). Questa ripartizione dell’area italiana rappresenta la base sulla quale molti linguisti dopo Ascoli si appoggiano. Infatti, a dare un ulteriore contributo fondamentale allo studio della classificazione è stato Gerhard Rohlfs nel 1937. Con la sua raccolta per l’AIS1 e l’analisi approfondita di essa, ha potuto identificare due spartiacque linguistici dell’isola italiana, ovvero la linea La Spezia-Rimini, che ricongiunge i limiti meridionali dei più importanti aspetti linguistici dell’Italia del Nord, dividendola dalla Toscana e la linea Roma-Ancona che unisce i limiti settentrionali dei aspetti linguistici più peculiari del Centro-Sud, i quali vengono suddivisi a sua volta dall’area toscana o toscanizzata (cf. Treccani). L’ultimo importante contributo che varrà citato in questo lavoro, è fatto da Giovan Battista Pellegrini 1975 mediante la sua Carta dei dialetti d’Italia.2 Ha inquadrato cinque gruppi fondamentali dialettali per l’Italia (cf. Loporcaro 2013;69 e Parrino 1967b;14). Il primo gruppo racchiude tutti i dialetti toscani. Il secondo gruppo è caratterizzato dai dialetti centro-meridionali (nel quale rientra il marchigiano) i quali Pellegrini ha suddiviso ulteriormente in dialetti dell’area mediana, in dialetti dell’alto-meridione, anche detti meridionali intermedi e quelli meridionali estremi. I dialetti settentrionali, anche chiamati dialetti alto-meridionali rappresentano secondo Pellegrini il terzo gruppo di dialetti italiani. Pure questo gruppo è suddiviso in dialetti veneti e quelli gallo-italici, i quali includono l’emiliano, il lombardo, il piemontese e anche in luogo più marginale il ligure. Gli ultimi tre gruppi vengono rappresentati dai dialetti ladini dolomitici, dai dialetti friulani e dai dialetti sardi (cf. Parrino 1967b;14).
Una regione estremamente interessante, sotto l’aspetto linguistico dialettale italiano, viene rappresentata dalle Marche. Essa è conosciuta per il suo vasto repertorio di dialetti marchigiani per i quali non è neanche possibile designare alla regione un’unica varietà di tipo marchigiano (cf. Balducci in Cortelazzo, Manlio 2002;452). Questa ricchezza è dovuta a numerosi fattori tra cui, quelli più importanti, la storia e la geografia. Nel territorio delle Marche passa infatti, com’è già stato accennato anteriormente, il confine che divide i dialetti italiani settentrionali dai dialetti centro-meridionali. Invece più a sud passa un’altra linea che limita i dialetti marchigiano-umbro-romaneschi da quelli abruzzese-pugliese settentrionale-molisano-campano-lucani (cf. Parrino 1967b;7). Secondo Parrino la dialettologia regionale marchigiana prima dell’Ottocento è stata poco studiata in confronto a quella delle altre regioni italiane. Questo si rispecchia nello studio dei dialetti marchigiani. Solo con il sorgere della dialettologia nell’Ottocento gli studiosi locali e vari linguisti hanno cominciato a sviluppare un maggior interesse per questa regione tanto frazionata. I primi si sono concentrati sulle parlate del venticinquennio ottocentesco in poi, nell’intento di stabilire le parlate caratteristiche di allora e di creare così una catalogazione di esse nel territorio delle Marche (cf. Parrino 1967b; 13). In primo luogo, è stata proposta una bipartizione dei dialetti marchigiani in dialetti settentrionali e meridionali, però è stata presto rimpiazzata da una tripartizione. Essa divideva il gruppo centrale dei dialetti dai gruppi settentrionali e quelli meridionali.
Un rappresentatore di questa tripartizione è stato Alfonso Leopardi, studioso locale e poeta dialettale, che ha contribuito molto allo studio dialettale. Nel 1887, ha assegnato infatti al gruppo settentrionale i luoghi influenzati dalla parlata romagnola. Al gruppo meridionale ha attribuito quelli che si avvicinano al confine con l’Abruzzo e infine al gruppo centrale ha assegnato le parlate della Marca i quali rappresentavano secondo lui l’effettivo linguaggio marchigiano. Perlopiù non ha escluso un’ulteriore bipartizione dei dialetti del gruppo centrale, rifacendosi alle esternazioni di un contadino anconitano ed un maceratese. Il contadino anconetano infatti ha usato delle parole come digo, dago, stago, quesso mentre quello maceratese le pronunciava in tal modo: dicu, daco, staco, quissu. Ecco che secondo Leopardi “le due parti della regione centrale conservano fra loro maggiore omogeneità che non abbiano con i loro rispettivi vicini sia del mezzodí che del settentrione” (cf. Leopardi in Parrino 1967b;8). E conclude dicendo: “Ammessa dunque la divisione del parlare marchigiano in tre gruppi, dovrebbe essere assegnati al gruppo settentrionale i comuni della provincia di Pesaro ed alcuni della provincia di Ancona, al gruppo meridionale Ascoli con altri del proprio circondario, e tutto il resto al gruppo della Marca centrale […]” (cf. Leopardi in Parrino 1967b;8). Per individuarli Leopardi si è basato sulla raccolta del Papanti3 I parlari italiani in Certaldo del 1875 e sui saggi poetici dei dialetti marchigiani provenienti da Pesaro ed Ascoli Piceno raccolti dallo stesso Leopardi (cf. Parrino 1967b;8).
Anche Ascoli si è basato sulla raccolta creata da Papanti, per la quale è stato in grado di individuare al gruppo emiliano anche la sezione metauro-pisarina, dal quale viene influenzato, sempre secondo Ascoli, il sistema abruzzese (cf. Parrino 1967b;8-9). Ascoli offre dunque una ripartizione diversa da quella di Leopardi perché conta il marchigiano, insieme all’umbro e il romano, ai gruppi della terza categoria dei dialetti. Questo significa che i tre dialetti potrebbero far parte dello stesso sistema italiano. Lo studioso giustifica la sua osservazione con il fatto che la palatalizzazione di à mostra una linearità con l’emiliano, mentre l’abruzzese, parlato nell’area centrale delle Marche, porta ad una “irruzione di maggiore italianità” (cf. Ascoli in Parrino 1967b;9).
All’inizio del 1900 si è constatato un duplice interesse per l’analisi dialettale marchigiano nato dalla mostra folklorico-dialettale dell’esposizione maceratese datata al 1905. Da essa provengono le pubblicazioni dei due saggi di Neumann von Spallart4 di cui Crocioni è conosciuto come critico (cf. Parrino 1967b;9). Ad interessarsi infatti per gli studi dialettologici delle Marche è stato anche Giovanni Crocioni il quale non ha potuto decidersi tra una tri- o quadripartizione dei dialetti marchigiani. Distingue la varietà settentrionale che chiamerà gallo-picena, da quella meridionale che presenta sempre elementi abruzzesi ed è incerto sull’unità delle varietà centrali. Questa incertezza, e di conseguenza la possibile quadripartizione, è riconducibile per l’uso della -u finale (cf. Parrino 1967b;10-11).
Nel 1906, F. d’Ovidio e W. Meyer-Lübke hanno optato nella loro Grammatica storica della lingua e dei dialetti italiani per una tripartizione dei dialetti nelle Marche. Loro distinguono i dialetti marchigiani settentrionali che arrivano fino a Montemarciano e i quali sono influenzati dall’umbro, dai dialetti centrali che sono inclusi nel gruppo aquilano-umbro-romano e i quali “confini verso il mare Adriatico sono costituiti dall’Aso e dall’Esino” (cf. Parrino 1967b;9). Dei dialetti marchigiani meridionali non si trova una documentazione per il quale si presume che li abbiano inclusi nei dialetti abruzzesi (cf. Parrino 1967b;9). La bibliografia sui dialetti marchigiani è stata arricchita, nel 1910, da Riccardo Gatti con la sua monografia sul dialetto di Jesi e da Giuseppe Malagoli con la sua Dialettologia marchigiania. Per gli anni seguenti si può constatare un decremento dei contributi che si sono fatti sempre più rari (cf. Parrino 1967b;11-12). Solo nel 1939 Erich Mengel ha pubblicato Umlaut und Diphtongierung in den Dialekten des Picenums conosciuto come grande contributo alla dialettologia marchigiana nonostante il territorio di ricerca oggigiorno non corrisponda più a quello delle Marche bensì al Piceno antico. Esso si distendeva fra l’Esino e il Vomano ed escludeva tutto il territorio settentrionale delle Marche, ma incorporava la parte settentrionale dell’Abruzzo. Mengel ha analizzato la metafonesi e il dittongamento del vocalismo tonico in quanto sono stati importanti per distinguere le unità dialettali delle Marche centro-meridionali (cf. Parrino 1967b;13-14).
Ad esaminare il problema della classificazione dei dialetti delle Marche dal punto di vista storico è stato Giacomo Devoto negli Itinerari umbri e gallo-italici. A suo giudizio, la frammentazione dialettale delle Marche si spiega dalla diversità degli itinerari della colonizzazione e della romanizzazione del territorio. In base a ciò egli individua quattro gruppi dialettali marchigiani derivanti da quattro itinerari della romanizzazione della regione. Distingue tra la Via Flaminia, due diramazioni della Via Flaminia e la Via Salaria. La Via Flaminia, secondo Devoto, entra nelle Marche per il Passo della Scheggia e segue costa adriatica lungo la valle del Metauro. Da essa proviene un “tipo di latinità ‘umbra’ che si scontra e in buona parte s’immerge in ambiente gallo-italico” (cf. Devoto in Parrino 1967b;15) ed include i dialetti gallo-italici collegati ai dialetti romagnoli. La prima diramazione della Via Flaminia penetra nella regione per il Passo di Fossato e scende alla costa adriatica lungo la valle dell’Esino. Devoto afferma che “solo nel tratto terminale, fra Iesi e Ancona, sente le ultime influenze gallo-italiche” (cf. Devoto in Parrino 1967b;15). La parlata si fa dunque ai dialetti marchigiani successori di quelli dell’Umbria. La seconda diramazione della Via Flaminia parte da Foligno e si spinge nelle Marche per il Passo di Colfiorito, per Camerino e Treia e arriva fino a Osimo ed Ancona. Di questo tratto Devoto dice che è “ancor più lievemente toccato da echi gallo-italici” (cf. Devoto in Parrino 1967b;15). Di seguito, descrive la Via Salaria che penetra nella regione lungo la valle del Tronto e che “risente di influenze umbro-sabine che, nel tratto finale, si accompagnano a modelli sabellici e in generale adriatici” (cf. Devoto in Parrino 1976b;15). La varietà che Devoto assegna alla Via Salaria sono i dialetti marchigiani con influssi abruzzesi e in somma quelli adriatici. Infine, esamina le quattro ripartizioni dal punto di vista della ricerca. La prima e la quarta sezione rivelano molti dati, mentre per la seconda e la terza si hanno solo poche informazioni (cf. Parrino 1976b;15-16). L’unico ad aver ipotizzato un’unità dei dialetti marchigiani è stato Malagoli. Oggigiorno la possibilità di assegnare alle Marche un unico sistema linguistico è ormai superata mentre resta il problema della tri- o quadripartizione. Se si dovesse optare per una tripartizione, ci sarebbe da attribuire le parlate dell’area meridionale della provincia di Ancona o al gruppo settentrionale (secondo Pellegrini) o al gruppo centrale (secondo Crocioni). Parrino ha evidenziato che nella coscienza dei marchigiani si presenta una quadripartizione (cf. Parrino 1967b;16-18). Resta di fatto un territorio da esaminare con cautela a causa della sua grande varietà. Esistono molti studi sui dialetti marchigiani che si concentrano spesso su un luogo o un tipo dialettale. Le opinioni dei linguisti riguardo ai dialetti marchigiani sono molte e a sua volta anche contraddittorie, cosa che rende uno studio unificante ancora più difficile ed improbabile.
Questo lavoro si concentra sulla diversità e la frammentazione dei dialetti nelle Marche e ha l’obbiettivo di analizzare e rappresentare più a fondo il particolare dialetto della piccola città marchigiana di Grottammare. Poiché l’attuale diversità linguistica della regione è stata causata in gran parte dalla sua storia, la prima parte di questo lavoro si concentrerà sullo sviluppo storico-linguistico delle Marche. Per facilitare una classificazione dei diversi dialetti nelle Marche, tra cui Grottammare, seguono due tentativi di sistematizzazione da parte dei linguisti Balducci e Parrino, che hanno studiato le numerose parlate della regione e suddiviso in gruppi. Questa parte funge da base per la successiva esaminazione linguistica del dialetto di Grottammare, in cui vengono raccolti e valutati i dati provenienti dall’ Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz (AIS) di Karl Jaberg und Jakob Jud (1928-1940) e dai parlanti che vi abitano attualmente. Sulla base di questi dati, viene infine intrapreso un tentativo di grammatizzazione. È stata scelta la città di Grottammare perché presenta un dialetto estremamente interessante, genuino ed autentico. Inoltre, l’AIS offre numerosi dati su cui si basa anche questo lavoro.
2. Un quadro generico
In questo capitolo verrà dato un quadro generico sulla regione delle Marche. Si troveranno caratteristiche fisiche, informazioni sulla popolazione, sulle condizioni economiche. La visione degli aspetti fisici e sociodemografici della regione è importante per l’opera, poiché anche questi hanno avuto un’influenza sulla creazione, la frammentazione e l’impossibile unificazione dei numerosi dialetti marchigiani. Una conseguenza di ciò è, ad esempio, che non è emerso un dialetto omogeneo, dato che la comunicazione tra i popoli era molto difficile da realizzare a causa delle caratteristiche geografiche.
Le Marche sono una regione dell’Italia centrale. Il territorio si estende dall’Appennino, scende sul pendio adriatico e arriva fino alla costa a 173 km dal Tavollo dove si trova la foce del Tronto. La regione confina a nord con l’Emilia-Romagna e con San Marino, ad ovest con la Toscana e con l’Umbria, mentre a sud viene limitata dall’Abruzzo e dal Lazio. Ad est confinano con il Mar Adriatico. Le Marche occupano 9.401,38 km2 del territorio italiano e registrano 15184005 attuali abitanti. Dal punto di vista amministrativo viene divisa in cinque provincie, le quali sono: Ancona, Ascoli Piceno, Fermo, Macerata nonché Pesaro e Urbino. Dal punto di vista organizzativo si hanno 12 comunità montane e nove comprensori. Il capoluogo delle Marche è Ancona (cf. Treccani).
La maggior parte del territorio marchigiano è collinare6 ed escludendo lo stretto terreno alluvionale, che si presenta tra le formazioni mio-plioceniche e il mare, non possiede vere pianure. Il resto della regione, che si trova verso ovest e arriva fino al gruppo dei Sibillini, è montuoso. La rete idiografica presenta una varietà di caratteristiche. I fiumi e i corsi d’acqua, ad esempio, scendono dall’Appenino al Mare in modo parallelo. Hanno un carattere torrentizio e presentano una scarsità di affluenti. Le sponde sono dissimmetriche a seconda del terreno. La posizione geografica delle Marche, caratterizzata anche da l’altimetria, che cresce verso l’interno, l’esposizione differente ai venti e la differente distanza dall’Adriatico, dà origini a vari tipi climatici. Dall’entroterra fino alla costa a nord del Cesano persiste un’area climatica subcontinentale, al contrario del resto della regione, che presenta un clima sublitoraneo (cf. Treccani).
La dinamica demografica delle Marche mostra un decremento7 modesto della popolazione, specialmente nei capoluoghi, legato ad una riduzione dell’attrazione dai Comuni. L’abitazione tende sempre più ad abbandonare i centri storici e la campagna, cosicché si concentra nei capoluoghi comunali, dove possono usufruire di un migliore uso dei servizi e di maggiore rango sociale.
L’economia marchigiana si è basata fino agli anni 1950 unicamente sull’agricoltura. Dalla seconda metà degli anni 1990 si è registrato un forte incremento del reddito pro capite, che ha dato il maggiore contributo allo sviluppo economico regionale. Anche la pescheria ha subito un ridimensionamento causato dallo sfruttamento eccessivo della fauna marina, per il quale la produzione lorda tra il 1998 e il 1999 è diminuita del 3,5%. Le crisi dei mercati internazionali nel 1999 hanno portato ad una ridimensione della produzione manifatturiera, la quale aveva un andamento altalenante dell’esportazione regionale. L’aspetto più significativo dell’economia marchigiana è il contributo turistico. Esso è quasi unicamente balneare e quindi estivo, nonostante le Marche presentino una moltitudine di valori paesistici, artistici e archeologici, che però sono poco note anche perché non sono compresi nei circuiti abituali (cf. Treccani).
Il dialetto delle Marche non presenta una parlata omogenea, caratterizzata da tratti comuni, per i quali possa rientrare del tutto nel sistema dialettale centro-meridionale. Si trovano, infatti, molte varietà e tipi dialettali misti, che percorrono tutto il territorio. Parlare, dunque, di un unico gruppo dialettale marchigiano è difficile. Questo fenomeno della varietà delle parlate marchigiane è dovuto specialmente al passato storico, che esamineremo nel capitolo seguente (cf. Treccani).
3. Un quadro storico-linguistico
Questo capitolo servirà a dare un’immagine storico-linguistica dei dialetti marchigiani. È un aspetto molto importante perché la frammentazione dialettale della regione Marche è causata soprattutto dal passato, dai contatti con altri popoli e dalla loro amministrazione. Seguiranno, dunque, informazioni sulle Marche in confronto all’Umbria e al Lazio e successivamente un’analisi dettagliata sulle Marche stessa. È importante approfondire l’aspetto storico-linguistico dell’intera Regione perché i vari cambiamenti hanno inluenzato anche il dialetto di Grottammare che verrà analizzato più a fondo nel quinto e sesto capitolo.
3.1. L’area linguistica delle Regioni Marche, Umbria e Lazio
Ugo Vignuzzi, linguista, filologo italiano e membro dell’Accademia della Crusca, ha contribuito molto alla ricerca e all’analisi delle parlate dell’Italia centrale, specialmente delle regioni Marche, Umbria e Lazio. La seguente unità si baserà perciò soprattutto sul suo scritto Italienisch: Areallinguistik VII. Marche, Umbrien, Lazio / Marche, Umbria, Lazio (1988), nel quale esamina l’area linguistica dell’Italia centrale sotto aspetti amministrativi, dialettali e storici.
Sulle regioni Marche, Umbria e Lazio Vignuzzi si esprime in tal modo:
E’ cosa ben nota che alle attuali regioni d’Italia centrale, Marche, Umbria e Lazio, non corrispondano delle entità altrettanto distinte sul piano storico quanto dialettale (cf. Vignuzzi 1988;606).
Consolida il suo punto di vista accennando ad alcuni aspetti storici e dialettali. Fa riferimento alla costituzione delle regioni suddette in Lazio, che risale solo al sec. XIX. Anche per le Marche e l’Umbria non viene datata oltre il basso Medioevo. Riguardo all’aspetto dialettologico invece richiama l’affermazione di Baldelli, il quale ha notato che: “i confini odierni della regione umbra non hanno nessun significato linguistico, risalendo alle conquiste di Perugia fra il XIII e il XIV secolo” (cf. Baldelli in Vignuzzi 1988;606) e allarga i confini includendo anche le Marche e il Lazio. Il linguista definisce l’area come poco influenzata dall’esterno, ma che non presenta un’unità neanche al suo interno (cf. Vignuzzi 1988;606). A questo proposito dice:
In linea teorica è cioè possibile sostenere che […] il Lazio presenti – come le Marche e l’Umbria- una bipartizione tra un’area meridionale (ed orientale) più conservativa e caratteristicamente <mediana>, ed un’area settentrionale (ed occidentale) più variamente aperta ad influssi di diversa provenienza (per lo più toscana, come ad es. in Umbria – è il caso di Perugia; ma anche nelle Marche in modo molto più rilevante [e pure in Umbria], addirittura settentrionale emiliano-romagnola) (cf. Vignuzzi 1988, 606).
Ad individuare per quest’area una sezione compatta dal punto di vista dialettale è stato Ascoli il quale l’ha denominata come area dei Dialetti dell’Umbria, delle Marche e della provincia romana. Tranne alcune città8, l’intero territorio cadeva sotto il Lazio. Ascoli distingue, però, da questa regione i dialetti metauro-piceni, che in seguito verranno chiamati da Crocioni9 gallo-piceni per l’area aquilano-umbro-romana rifinita da Merlo10 come marchigiana umbra romanesca. Infine, Migliorini11 la definisce come Italia mediana. Il territorio include tutto lo spazio orientale e centro-meridionale delle tre regioni (cf. Vignuzzi 1988;607).
A nord-ovest invece l’area confina con il fascio di isoglosse conosciuto come Linea Roma-Ancona, che segue il corso del Tevere partendo da Perugia fino a Roma. Migliorini spiega l’andamento descrivendo la linea come una “che, serpeggiando a forma di S attraverso le Marche, l’Umbria – la valle del Chiascio, Perugia e poi la val Tiberina [ovviamente medio inveriore] – e il Lazio.” (cf. Migliorini in Vignuzzi 1988;607). Le parlate delle tre regioni mostrano influenze da essa per quanto ricadono profondamente sul territorio dialettale delle regioni dell’Italia centrale. A nord-ovest dell’Italia centrale si trovano, dunque, influssi dalla Toscana e dai dialetti centrali che hanno avuto impatto toscano o anche settentrionale. Essi si notano ad esempio a Perugia, Ancona, Urbino e Pesaro, mentre all’occidente e al sud del territorio si trovano influssi dei dialetti centro-meridionali italiani (cf. Vignuzzi 1988;607).
Vignuzzi ricorda che i fenomeni linguistici esistenti possono anche dividersi dalla Linea. Questo lo dimostra l’esistenza dell’assimilazione di -ND- a -nn-. Eppure, si tratta di un fatto di non grande importanza. A dimostrare, invece, che il confine dell’area mediana verso est e sud presenta molte sfumature è il fenomeno caratteristico mediano della distinzione tra –o̱ e -ọ. Qui si nota un continuum di transizione dai dialetti mediani a quelli più meridionali (cf. Vignuzzi 1988;607).
Come si è già accennato anteriormente l’insieme delle tre regioni nell’Italia centrale corrispondeva al territorio dello Stato Pontificio. Questo ha permesso e favorito varie comunicazioni e scambi interni anche se non era bastante per fornire un’identità dialettale unita, né verso l’esterno, né all’interno. La strutturazione territoriale dominata da diocesi fu richiamata spesso a quella romana tardo-antica. L’ordine territoriale di allora, infatti, riflette le dinamiche dialettali attuali che mostrano solo pochi cambiamenti notevoli rispetto alla situazione dialettale dell’Italia centrale alla fine del medioevo. Tra questi si ricordino il territorio nordmarchigiano (Urbino), cioè mediano e poi ascolano, che presenta caratteristiche meridionali e il passaggio cinquecentesco dal romanesco antico a quello moderno. A questo proposito si fa chiaro che c’è stato uno stretto legame (sia linguistico che extra-linguistico) con lo Stato Pintificio, ma questo non ha portato all’unità né a livello extra-linguistico né a livello dialettale, nonostante abbia avuto uno luogo uno scambio vivace. Esistevano invece un fulcro romano e vari centri secondari e terziani, diventando così un centro d’influenza che andava oltre i confini sia del Lazio, che della Puglia. Proprio perché non si trova una sistemazione precisa, le ripartizioni dialettali variano spesso da persona in persona. Lo si vede ad esempio nell’intento di trovare una ripartizione per le Marche (cf. Vignuzzi 1988;611).
Nel 1972, Pellegrini, che si basa su Mengel 1936, propone una quadripartizione dei dialetti. Ha individuato vari idiomi, tra i quali i dialetti gallo-piceni, che hanno contatti con la Romagna e con i dialetti gallo-italici. Si parlano nella provincia di Pesaro e Urbino ma anche al sud, passando per le città Fano, Senigallia, Montemarciano, Falconara ed Ancona. Arrivano fino al fiume Esino, che funge da confine tra l’area gallo-picena e quella picena-settentrionale. Un altro idioma è costituito dai dialetti piceni-arcaici (o piceni settentrionali), che si trovano in stretta alleanza con i dialetti umbri meridionali. Nonostante ciò, rappresentano più caratteristicamente la sezione marchigiana. Si parlano fra l’Esino e l’Aso, cioè in una regione che contiene la provincia di Macerata, la provincia di Ancona a sud dell’Esino-Musone con Filottrano, Cupramontana, Albacina, e Porcarella e la parte a nord dell’Aso della provincia di Ascoli Piceno. Il terzo linguaggio è composto dalla parlata a sud dell’Aso, che si rifà ai dialetti abruzzesi. La parlata non dimostra una demarcazione ben delimitabile, ma si può distinguere dai dialetti del Tronto da un lato e dagli altri dall’altro. I dialetti del Tronto creano un triangolo con Acquasanta, Ancarano e Ripatransone e hanno nel suo interno Ascoli Piceno. Gli altri dialetti dell’area mostrano caratteri evidenti abruzzesi. Infine, c’è la città di Arcevia che prende una posizione particolare perché “forma una specie di cuneo, infisso nelle Marche, con la base nell’Umbria, collegantesi verso le regioni romana e toscana.” (cf. Pellegrini in Vignuzzi 1988;612) Si potrebbe dunque pensare ad un ulteriore suddivisione. Parrino riassume tutti questi in: dialetti gallo-italici, che sono collegati con quelli romagnoli; dialetti marchigiani continuatori dell’Umbria, che si parlano nella parte più meridionale ed interna delle Marche; dialetti marchigiani arcaici, usati nella provincia di Macerata e nella parte settentrionale di Ascoli e caratterizzati dalla -u finale12; ed infine i dialetti marchigiani, parlati nella parte meridionale della provincia di Ascoli, che sono influenzati dai dialetti abruzzesi e in generale da quelli adriatici (cf. Vignuzzi 1988;612).
Oltre alla quadripartizione di Pellegrini, Franceschi ha offerto, nel 1979, una tripartizione. Distingue le parlate delle Pentapoli dalle parlate della Marca in base alla Linea Roma-Ancona. Le parlate della Pentapoli si parlano a nord nella pentapoli flaminia e picena, nella zona di Ancona, a Osimo e nei suoi dintorni. Le parlate della Marca invece si parlano al sud, nella citta di Camerino e a Fermo. Nel 1975, Gaspari ha creato un piano lessicale della regione arrivando a tre aree linguistiche. La prima è l’area settentrionale che giunge fino a Foglia e qualche volta anche fino al Metauro. Essa è collegata alla Toscana e alla Romagna. La seconda è la zona centrale che va fino al Tenna. Questa si congiunge con l’Umbria, a volte con il Lazio settentrionale e in generale con l’Italia settentrionale e con la Toscana. L’ultima è l’area meridionale che arriva fino al fiume Vomano. Si collega all’Umbria, al Lazio, all’Abruzzo e all’Italia meridionale in generale (cf. Vignuzzi 1988;613).
Vignuzzi, concludendo l’analisi storico-esterna delle tre regioni, esamina i vari tipi di dialetti che si trovano nel territorio dell’Umbria, delle Marche e del Lazio. Gran parte dello spazio è occupato dal dialetto mediano. È un dialetto di tipo conservativo che presenta varie caratteristiche, tra le quali: (cf. Vignuzzi 1988;615-616)
- 7 vocali toniche
- Nella maggioranza delle aree dialettali italiane
- Opposizione ai processi con frangimento e vocali miste o turbate
- Nella Toscana e nell’area meridionale tirrenica
- Non c’è dittongazione spontanea
- Nell’Italia meridionale
- Metafonesi per –I e –U
- Non si trova nell’Italia settentrionale
- Conservazione del vocalismo atono romanzo
- Distinzione della finale tra –U e –O latine
- Non si riscontra nella Toscana
- Non si sonorizzano le consonanti sorde scempie intervocaliche
- Nella Toscana e l’Italia meridionale
- Fricativizzazione e/o caduta di –d e –g, con possibilità di riscontrare il fenomeno opposto
- Assimilazione regressiva nei gruppi di consonanti occlusive
- Fenomeno conosciuto in tutta l’Italia peninsulare
- Assimilazioni progressive di ND, NB (NV), LD
- on si trovano nella Toscana, né nell’Italia settentrionale ma nell’Italia meridionale
- Lenisce (e può anche sonorizzare) le consonanti post-nasali e dopo l
Nell’area territoriale a nord e ad occidente della Linea Roma-Ancona si trovano invece i tipi dialettali non mediani. Per le Marche settentrionali si trovano i dialetti gallo-piceni, i dialetti di transizione come ad esempio quelli marchigiani centrali e i dialetti umbro-occidentali, tra cui il perugino. Un fenomeno linguistico e caratterizzante di questo dialetto è il dittongamento analogo al tipo toscano (cf. Vignuzzi 1988;628). Nelle Marche settentrionali si parla anche il romanesco moderno. Invece, nelle Marche di estremo sud si possono riscontrare vari dialetti meridionali, tra i quali i dialetti abruzzesi della valle della Vibrata e del Teramano. I dialetti gallo-piceni13, che Ascoli dapprima aveva denominato metauro-pisarini, rappresentano il tipo di dialetti marchigiani settentrionali. Tra le caratteristiche più importanti si trovano: (cf. Vignuzzi 1988;629)
- Mutamento assoluto di à > è (casa > chèsa) proveniente principalmente dalla Romagna
- “decresce in quantità e qualità man mano che si scende verso il sud della provincia” (cf. Balducci in Vignuzzi 1988;629)
- Le vocali medie e toniche sono dipendenti o no dall’apertura/chiusura della sillaba
- Metafonia da –i
- In tutta la zona del Montefeltro e dalla valle della Marecchia in su
- Caduta delle vocali finali in -e, -o, -i
- Nel territorio del Metauro-Candigliano fino ai confini settentrionali della provincia
- Degeminazione consonantica
- Trattamento di s intervocalica
Un dialetto interessante dal punto di vista sociolinguistico, pur in estinzione, è quello che si è formato nei centri marinari di Pesaro, Fano, Senigallia ed Ancona. Si tratta di un autonomo dialetto portolotto con influssi giudaico-anconetani. Viene caratterizzato ad esempio dalla caduta delle vocali pro- e postoniche (stimana per settimana), l’assenza del dittongamento e della metafonesi e lo scempiamento delle consonanti (cf. Vignuzzi 1988;629).
Al tipo non mediano dei dialetti si aggiungono anche i dialetti marchigiani centrali di Arcevia e della Vallesina. Il primo ad individuare questi dialetti è stato Crocione, che descrive la regione con i suoi dialetti come
regione, limitata da ogni parte, meno che da ponente, per dove si va a ricongiungere coll’Umbro, da altri dialetti spiccatamente diversi: a settentrione e a levante da quelli che chiameremo sin da ora gallo-piceni, a mezzo giorno da quelli che si riconoscono per l’u finale. Questi lambiscono il territorio arceviese dalla parte di Serra S. Quirico e Fabriano.; quelli vi si insinuano dalla parte della Pérgola (confine approssimativo il Fenella, che scorre sotto il famoso Sterléto) e di San Lorenzo in Campo [sul Cesano]. Nella direzione di Nord-Ovest, i dialetti gallo-piceni corrono all’altezza di Serra S. Abbondio, abbracciano la famosa Fonte Avellana, e si riversano quindi oltre il territorio marchigiano, nell’opposto versante appenninico. Nella direzione contraria dopo la Pergola, accolgono Montesecco, S. Vito, Castelleone, Corinaldo, si volgono quindi a Sud-Est, quasi parallelamente al litorale adriatico, oltrepassano l’Esino, dominando più o meno evidentemente, a Falconara, Ancona, Varano, Osimo e forse anche in altro spazio (cf. Crocioni in Vignuzzi 1988;630).
Inoltre, Crocioni stacca dal territorio arceviese le città di Jesi e Fabriano perché
non si sottrae, con piena immunità, all’azione dei dialetti coll’u che la stringono intorno pur serbando la fonetica e la morfologia in discreta concordia coll’arceviese; quella perché, consonando pur essa quasi pienamente coll’arceviese, accoglie ed accentua risultanze fonetiche di provenienza celtica (cf. Crocioni in Vignuzzi 1988;630).
I fenomeni fonetici che secondo Crocioni hanno origine celtica sono la sonorizzazione delle occlusive dentali e velari sorde intervocaliche trovate anche ad Arcevia. La parlata di Arcevia si può collocare, dunque, fra il tipo marchigiano-settentrionale e quello piceno. Non presenta alcuni fenomeni gallo-piceni ed è collegato strettamente ai dialetti dell’entroterra senigalliese. Secondo Vignuzzi, assomiglia molto a quello di Montecarotto. Basandosi su queste analisi, si può definire il territorio di Arcevia e della Vallesina come un’area di transizione, perché la Vallesina, che divide il Ducato dalla Marca, aderisce a quest’ultima. Il dialetto descritto da Crocioni e parlato ad Arcevia oggigiorno non esiste più. Lo stesso vale per Jesi, Sassoferrato e Fabriano. Anche i dialetti dell’estremo sud delle Marche, cioè i dialetti piceni meridionali a sud dell’Aso fanno parte dei dialetti non mediani. Tagliavini, infatti, li descrive in tal modo:
A Sud dell’Aso, la maggior parte della Provincia di Ascoli Piceno […] presenta un aspetto dialettale considerevolmente diverso da quello delle Marche centrali e concordante coi dialetti abruzzesi e molisani […]. Si cominciano a osservare qui maggiori contatti coi parlari abruzzesi posti geograficamente a meridione (cf. Tagliavini in Vignuzzi 1988;631).
I dialetti appartengono dunque al gruppo dialettale meridionale. Perlopiù, secondo Ascoli, il dialetto ascolano dipende dal sistema abruzzese. Siccome non si trovano attestazioni antiche, ma solo documentazioni a partire dal tardo medioevo, si ipotizza che si tratti di un influsso meridionale, entrato probabilmente dalla costa adriatica, ed attestato solo recentemente. Questo influsso, però, ha dato origine a condizioni di transito tra quelle mediane e quelle più meridionale-abruzzesi adriatiche. Le caratteristiche principali che presenta questo tipo di dialetti sono: (cf. Vignuzzi 1988;631)
- Dittongamento metafonico
- Riduzione delle vocali finali
- Propensione alle evoluzioni spontanee delle vocali toniche
- Mutamento di timbro o dittongazione che portano a cambiare l’aspetto delle parole
Secondo Rohlfs alcuni
dialetti dell’Abruzzo settentrionale e della parte meridionale delle Marche sono avviati verso un sistema vocalico a due gradi: […] A Grottammare (prov. Ascoli Piceno) le antiche ǒedō (ǔ), sia in sillaba libera che chiusa (ove non abbia luogo di metafonia), si sono fuse con l’antica a, la quale si è sviluppata anche dall’antica ē ( ī), mentre l’antica ē è rimasta conservata come ẹ (Rohlfs in Vignuzzi 1988;631).
Vignuzzi spiega, però, che la situazione è poco studiata e più difficile da come la descrive Rohlfs. Per sottolineare questo aspetto, riferisce a Mengel, che nel suo scritto Die revolutionäre Dialektlandschaft des Südpicenums und der Abruzzen ha dimostrato l’esistenza di dialetti che hanno una stretta relazione con la costa abruzzesse e quella dell’alto Teramano. Secondo Mengel il sistema vocalico si presenta come tale: (cf. Vignuzzi 1988;632)
Oltre a ciò, Parrino ha attestato che il sistema vocalico presenta sviluppi spontanei del vocalismo tonico che si osservano pure nei dialetti abruzzesi.
Tra i dialetti non mediani dell’Italia Vignuzzi colloca anche i dialetti dell’Umbria settentrionale e del Lazio settentrionale ad ovest del Tevere. I dialetti dell’Umbria settentrionale presentano una sottovarietà di tipo perugina, eugubina e castellana. Secondo Ugolini, il quale ha esaminato l’area umbra settentrionale, essa “si distingue dagli altri due gruppi [quello umbro sud-orientale o <mediano>, e quello <orvietano>] per una serie precisa di fenomeni, il più appariscente dei quali è la palatalizzazione della a tonica in sillaba libera[…].” (cf. Ugolini in Vignuzzi 1988;632). Il dialetto presenta altre caratteristiche, come ad esempio
la notevole labilità delle vocali fuori d’accento che spesso giunge a provocare una riduzione sillabica nel corpo della parola o della frase (Perugia, tràpp/le, trappole […]; Magione méccene, métticene; Gubbio tutt/nzanguenéto, tutto insanguinato; Città di Castello: quan/che, quando che). In esso e in altri meno vistosi, sono da ravvisare elementi che furono definiti come <emiliani in territorio umbro> (cf. Ugolini in Vignuzzi 1988; 632).
Altri fenomeni sono la palatalizzazione di -L(L)ī- e di -NNī- con successiva apertura di -Ī > -e, i plurali maschili in -a (i solda, i chioda, i sassa), e i dimostrativi come quisto, quista, quisti, quieste, quillo, tista, codesto. Riguardo al dialetto del Lazio settentrionale ad ovest del Tevere, Vignuzzi riporta che si tratta di una varietà ancora poco documentata e studiata. Tuttavia, si presenta un influsso toscano rustico nel Lazio nord-occidentale. Le caratteristiche tipiche di quest’area sono i dittonghi liberi anche in sillaba chiusa costatati a Viterbo (bbèane, pèalle, duòrme), il passaggio di –i finale ad –e rilevati, ad esempio, nei dialetti dell’alta Tuscia e vicino al confine con la Toscana e l’Umbria (cf. Vignuzzi 1988;632).
L’ultimo dialetto non mediano che cita Vignuzzi è il dialetto romanesco. Questo è caratterizzato dal forte ascendente toscano. Durante la Questione della lingua, il dialetto, per la presenza di Roma al centro, ha dovuto adottare il dialetto fiorentino. Proprio riguardo alla storia del romanesco, Vignuzzi afferma, dunque, che: “la storia del romanesco è sostanzialmente quindi la storia della sistematica sostituzione degli originari elementi <<centro-meridionali>> con successivi tratti <<toscani>> (e poi <<italiani>>).” (cf. Vignuzzi 1988;634) La varietà ha subito due fasi di cambiamento, la fase I e la fase II, anche chiamata romanesco moderno. La prima fase è caratterizzata dal dittongamento condizionato, che è perso nel romanesco moderno ma che è caratterizzato dal dittongamento spontaneo di Ɛ. Vignuzzi riporta che il dialetto romanesco odierno “è sentito piuttosto, da sempre maggiori strati della popolazione, come il polo inferiore del continuum italiano locale (e sempre più regionale)” (cf. Vignuzzi 1988;633-634).
3.2. All’interno delle Marche
La seguente analisi storico-linguistica delle Marche si basa specialmente sul lavoro L’italiano nelle regioni (1992) di Giancarlo Breschi, il quale presenta un’ampia analisi molto dettagliata dei dialetti marchigiani. Già il fatto che le Marche, come unica regione, hanno un toponimo plurale fa desumere che sia stata una regione molto frequentata. Infatti, Breschi afferma che il toponimo al plurale sia causato dalla storia della regione. Inizialmente, la regione era denominata marca, che è un germanismo inteso come territorio extraterritoriale dei principi tedeschi. Durante l’ordinamento carolingio il termine indicava le provincie di frontiera in relazione alla presenza dei domini bizantini meridionali. La parola compare per la prima volta nell’area marchigiana della prima metà del secolo IX. Venne usata in riferimento alla Marca di Camerino per descriverla come “organismo autonomo ed ereditario” (cf. Capitani in Breschi 1992;462). In seguito, fu adottato anche per la Marca Firmana, quella Anconitana e alle piccole marche le quali erano amministrate da signori di origine franco-germanica. Ognuno aveva la sua marca, con i vari principi tedeschi come amministratori, che in seguito hanno unito le singole marche. A questo territorio unico hanno dato il nome Marche. La prima apparizione ufficiale del toponimo appare nel protocollo finale del Congresso di Vienna. Breschi delimita le Marche entro i confini a nord con i fiumi Conca e Foglia e le ruvidità del Montefeltro, a est con la catena appenninica e a sud con il Tronto e i Monti della Laga. A ovest viene limitata dal Mar Adriatico. Dal punto di vista regionale, le Marche confinano a nord con la Romagna, a ovest con la Toscana e con l’Umbria e a sud con l’Abruzzo (cf. Breschi 1992;462).
Breschi esamina le Marche anche sotto l’aspetto geomorfologico il quale risulta avere rilievi montuosi e non piani, come si è costatato anche nel capitolo anteriore. Proprio gli aspetti geografici hanno influenzato pesantemente la vita degli abitanti e con questo anche la loro lingua. Hanno fatto sì che non sono stati fatti grossi insediamenti, cioè uno sviluppo urbano, favorendo così “un’economia agricola in parte legata fino all’epoca moderna al fenomeno di autoconsumo” (cf. Minetti, Rossini in Breschi 1992;463). Questo spiega perché a livello nazionale la regione non si sia formata tanto velocemente in confronto alle altre. Per giunta le condizioni geografiche hanno reso difficile la comunicazione. Breschi ha osservato che nelle Marche c’era poco interesse di comunicazione fra le diverse aree, specialmente tra l’area a nord e quella a sud. Da questo si può presumere che ancora oggi esista una consapevolezza transitoria dell’identità regionale (cf. Breschi 1992;463).
Le Marche presentavano tre vie principali per le quali fu possibile comunicare ed esercitare traffici transappenninici. Si tratta della via Adriatica, la via Salaria e la via Flaminia. La via Salaria presentò varie strade laterali, che percorrevano il territorio marchigiano e venne usata per i traffici transappenninici. La via Flaminia invece servì specie per scambi commerciali. Sotto l’aspetto politico-strategico era importante perché giustificava le battaglie per il suo controllo nella guerra goto-bizantina e i successivi pontefici. Fu importante fino all’invasione dei Longobardi, i quali sostituirono la via Flaminia con la via Amerina. Essa venne tracciata per Gubbio, Perugia e Todi (cf. Breschi 1992;463).
Dopo aver esaminato le Marche sotto l’aspetto geomorfologico, Breschi analizza la lingua delle Marche sotto l’aspetto storico ed afferma che “neppure le vicende storiche hanno contribuito ad attenuare le conseguenze del particolarismo marchigiano, se non in epoca recente, a partire, cioè, dall’unità d’Italia.” (cf. Breschi 1992;463) Le Marche entrano a far parte dell’orbita romana nel 295 a.C. dopo la battaglia di Sentino, che fu conquistata nel 268 a.C., e a partire dal 233 a.C. cominciò la vera e propria colonizzazione. Le prime sedi erano Senigallia, Jesi, Fermo ed Osimo. Durante l’era seguente, quella augustea, le Marche furono divise in due parti dal corso dell’Esino. La prima parte venne denominata V (Picenum), mentre la seconda ebbe il nome VI (Umbria et ager Gallicus). L’Esino fungeva come confine tra il territorio metropolitano e quello provinciale. Le due regioni vennero però riunite nel 297 d.C. sotto l’imperatore Diocleziano, che dette alla regione unita il nome di Flaminia et Picenum. Durante la fine del IV e l’inizio del V secolo la provincia venne sciolta di nuovo in due parti ancora separate dall’Esino: Framinia et picenum annonarium, con Ravenna come capitale che dipendeva dal vicariato di Milano, e Picenum sububricarium, legata a Roma. Gli stessi confini vennero adottati dall’organizzazione delle diocesi, che però modificarono la bipartizione in Pentapolis maritima14, sotto al Ducato di Spoleto e Pentapoli, e Pentapolis montana15, subordinata a Ravenna e sotto al possesso dei bizantini. Dal 756 al 1200, il territorio fu sottomesso alla giurisdizione del Papa, il quale però venne spesso derogato dagli imprenditori e compromesso da potenti indigeni. Malgrado ciò, nel 1210, Papa Innocenzo III ottenne, durante la capitolazione di Neuss, entrambe le regioni. Il Papa, dunque, installò una monarchia temporale e la inserì come unico territorio nel Patrimonium Petri. Con questo evento Breschi chiude l’analisi storica e passa all’osservazione della situazione linguistica marchigiana influenzata da questi avvenimenti (cf. Breschi 1992;463).
3.2.1. La lingua nelle Marche fino al Trecento
Durante il medioevo la situazione linguistica non presenta una documentazione fitta, riconducente al fatto che le Marche non dovevano essere molto abitate. Secondo Procopio di Cesarea16 questo aveva a che fare con la guerra greco-bizantina che comportò il crollo economico della regione, la distruzione delle campagne e l’allontanamento da molti insediamenti urbani. La crisi ebbe il suo momento cruciale nel periodo dell’occupazione longobarda. Alla data di 1306 si registravano al parlamento di Montolmo solamente 73 comunità di cui 12 avevano il titolo di civitates17 in confronto alle castra e le comunantie18. A partire dal VI secolo ci fu una forte presenza di frati benedettini. Questo fatto si può costatare dalle molteplice testimonianze sulle abbazie19 nella regione. Un’abbazia che godeva di grande prestigio si trovava a Farfa. Essa custodiva vari documenti e scritture letterarie in lingua volgare, di cui 2/3 provenivano dall’area mediana. Questi lavori sono legati alla vita e l’habitat benedettino (perché erano loro a scrivere ed insegnare). Al tempo del medioevo erano i monasteri ad essere più aperti per le necessità quotidiane e anche per quelle linguistiche. I frati mostrarono un grande l’interesse per la lingua latina, come anche per il contatto con la cultura bizantina, germanica e francese. Nonostante ciò, anche nei monasteri venne usato il volgare, come lo si può vedere nelle carte notarili del XI secolo nella quale compaiono volgarismi nati dall’urgenza di natura pratica. Le carte presentano, inoltre, volgarismi dalla scarsa cultura dei notai, che però sono “redatti in forme per lo più trasandate, spesso soggette al capriccio personale dello scrivente” (cf. Breschi 1992;466).
Riguardo allo studio degli scritti marchigiani del medioevo Breschi afferma che l’indagine si trova ancora in uno stadio molto arretrato e che inoltre c’è una modesta disponibilità di testi pubblicati. Un ulteriore problema è che si sospetti che i testi pubblicati hanno subito dei provvedimenti editoriali i quali erano orientati a ripristinare una latinità grammaticale. Tuttavia, si presentano tre documenti che possiedono una grande attenzione: la Carta osimana, lo scritto conservato nell’Archivio comunale di Fabriano e la Carta picena. La Carta osimana, datata al 1151 proviene dall’abbazia di Santa Maria Chiaravalle di Fiastra. Lo scritto del 1186 è conservato a Fabriano e racconta un accordo finanziario tra un conte chiamato Attolino e Berta, la moglie di Ruggeri, con il priore dell’abbazia di San Vittore delle Chiuse insieme a Ronaldo di Bernardo. La Carta picena, invece, collocata nel 1193, parla di un Notaio chiamato Firmus che riceve, a garanzia dei contraenti, lo scritto in volgare di cui Blandideo di Arduvino e Giovanni Ofridi si erano messi d’accordo in precedenza (cf. Breschi 1992;466).
Tra i secoli XI e XII il panorama linguistico presenta un’omogeneità abbastanza compatta, specialmente se lo si confronta con quello dei secoli consecutivi. Per quest’area Breschi distingue due spazi, dei quali il limite viene segnato lungo la linea che anteriormente aveva diviso la zona longobarda da quella bizantina. La divisione non ha ostacolato l’estensione di fenomeni linguistici, però ha dato origine alla distinzione della lingua mediana da quella meridionale. L’area settentrionale all’epoca era caratterizzata più da tratti meridionali. La causa della diversità che si può constatare oggi è dovuta al fatto che dovevano ancora introdursi. Oltre a ciò, Breschi colloca al tempo medievale tre connessioni linguistiche di cui tutte andavano in direzioni diverse. A nord si presentava, infatti, un’area condizionata dalle lingue romanze, specialmente il latino. A ovest l’area veniva influenzata dall’Umbria, mentre la parte a sud, verso il Lazio, ha subito influssi dalla Sabina. Dopo aver esaminato l’area, Breschi confronta i comportamenti linguistici con dei testi dalle città di Urbino, Ancona, Macerata ed Ascoli Piceno. I testi sono stati scritti interamente in volgare. La scelta delle quattro città fu presta strategicamente, per collocare meglio gli aspetti geografici e del rilievo. Dal confronto vengono analizzati due aspetti importanti: la metafonesi e il dittongamento. La metafonesi rappresenta uno dei fenomeni che unificava il dialetto. Veniva condizionata da –I e –U. Un ulteriore aspetto unificante era la dittongazione per le E e O toniche. La dittongazione, però, era limitata alla sillaba libera, cosa che si può attestare a Urbino dove la –u si era già aperta a –o. Perlopiù questo fenomeno è stato documentato anche ad Ancona e Macerata (cf. Breschi 1992;467).
Al periodo della dittongazione subentrò la fase monottongatale che finì ad eliminare la dittongazione. A partire del Duecento, però, dopo l’annessione al Patrimonium Petri, la metafonesi, chiamata anche urbinate, fu sostituita dalla tendenza di dittongamento, anche in sillaba chiusa, proveniente da Roma. La diffusione di questo fenomeno non riscontrò difficolta applicative. Il sorgere della metafonesi urbinate dette origine all’introduzione di una fonetica alternativa. Essa fu dominata dal timbro della vocale finale e fu adattata all’opposizione di maschile e femminile20 nella classe nominale di categorie personali del verbo. A questo si aggiunge anche l’esistenza del fenomeno della monottongazione di i̯é̜ -> è e u̯ó̜ -> ó che, come regola, non sconcertò l’interpretazione semantica legata alla forma di é̜,ó̜. A giudizio di Breschi, per gli anni dalla fine del Trecento fino all’innovazione romana il dialetto ha subito una toscanizzazione. Questo si fa presente dalla circostanza che dei dittonghi sono rimasti unicamente quelli che si sono adottati nella distribuzione al modello toscano. Il fenomeno venne testimoniato anche dagli Statuti del Quattrocento. Un altro fenomeno, nato dalla corrente metafonetica sulla Vallesina, mise fine a questa continuità e la divise in due percorsi i quali, essendo sottoposti a stimoli diversi, si suddivisero a sua volta suddivisi in altri segmenti. Ad avere un impatto unificante fu solo il toscano. A nord, specialmente ad Urbino, si trovavano, dunque, tratti toscaneggianti i quali ridussero l’urbinate a diventare una colonia nella quale era presente l’elemento settentrionale, però nella misura divisa dalla Toscana e dall’Umbria. A sud invece, verso Ancona e il fiume Esino, il maceratese aveva dato vita alla tendenza di monottongazione del dittongo metafonetico urbinate. Questa tendenza era solo limitata all’esito di ẹ́ ed ọ́ (cf. Breschi 1992;467).
A partire dal Cinquecento, si diffondeva nelle Marche il dittongo metafonetico in sillaba chiusa. Questo fenomeno si riscontrava a partire da Roma, passando per la via Salaria, per Amatrice e Norcia fino ad arrivare ad Ascoli. La regola che prevedeva l’opposizione di vocale aperta di contro alla vocale chiusa in compresenza di -I e -U, adattata alla segnalazione del genere o della persona verbale, fu sostituita con la regola a (ugual) fine di vocale aperta e di dittongo. Breschi fa riferimento a Vignuzzi, il quale descrive questo fenomeno come “una soluzione morfonematica” (cf. Vignuzzi in Breschi 1992;468). Inoltre, la regola ritrae l’accento come si può vedere sia nei dialetti della costa marchigiana fino a Fermo che in quelli abruzzesi e del teramano. In seguito a ciò, Berschi analizza gli esordi del volgare letterario nelle Marche (cf. Breschi 1992;468).
I primi documenti di intenzione letteraria e provenienti dalle Marche risalgono al Duecento. Presentano una materia d’ispirazione proveniente dai centri di cultura che si trovano lungo le coordinate già indicate in riguardo ai rapporti di ordine linguistico. I scritti delle Marche del Duecento furono influenzati dalla presenza dei benedettini causata dall’appartenenza delle Marche all’area longobardo-mediana. A questo si presta il Codice dell’abbazia di Santa Vittoria di Matenano, datato al 1218 e denominato Ritmo su Sant’Alessio. Lo scritto dispone di due serie monorime: la prima rappresenta gli ottonari-novenari, mentre la seconda sono i deca-endecasillabi. Il testo mostra varie somiglianze al Ritmo cassinese. Sotto l’aspetto tematico, infatti, la favola orientale venne elaborata dai benedettini a fine edificante. Sotto l’aspetto stilistico si somigliano nella forma metrica e nell’ampio contesto di gallicismi. Oltre a questo, il Ritmo su Sant’Alessio presenta un influsso esecutivo dei giullari. Questo viene confermato dall’aspetto linguistico del testo che è fatto da tratti conservatrici21 e da tratti innovativi22 (cf. Breschi 1992;468).
Breschi fa presente che nel Ritmo manca il betacismo, benché si trovino altri esiti come ad esempio – v- > Ø in menoanza, l’assimilazione di -LD- e -ND-, i due tipi gesse e tennu per andò e tengono e infine il suffisso –eri al posto di -ARIUS. Sugli scritti del volgare letterario nelle Marche Breschi riprende l’attestazione di Baldelli il cui dice: “i documenti di volgare nelle Marche meridionali, dall’Umbria a Montecassino rappresentano una cultura…notevolmente unitaria attraverso l’uso dei volgari dei singoli centri di produzione: volgari, però, si badi bene, fra cui era certa la reciproca comprensione” (cf. Baldelli in Breschi 1992;469). Tutti gli scritti portano ad una fenomenologia linguistica mediana che presenta i seguenti caratteri:
- Distinzione di –o e –u
- Metafonesi (Accursitto)
- L’esito Ō>u e l’affricata iniziale (Zacopun)
- Conservazione dei nessi con –L– (flore)
- Possibile esito di –LL– da –LJ–
- Sonorizzazione (afatigatu)
- Degeminazione (afatigatu, fatu, fabricatu, fuse)
- Epitesi in ène
Questi fenomeni si dispersero in tutto il territorio delle Marche. Anche se si trovano in modo più concentrati nelle Marche meridionali, non basta per delimitarli a questa zona (cf. Breschi 1992;469).
Dal XIII fino al XV secolo le Marche si trovarono sotto il dominio dello Stato Pontificio. Questo fece sì che furono rivestite da varie tendenze culturali, di pensiero, laiche, ma specialmente da tendenze religiose. L’eredità rimasta dai benedettini cassinesi e farfensi rimase conservata, anche se, siccome si costatava un declino dei monasteri, venne influenzata dalle novità religiose provenienti dall’Umbria francescana. Ulteriori novità, seppure non ebbero un grande impatto sulla lingua e sugli scritti marchigiani, provengono dalla Magna Curia, i scritti della quale vennero riassunti da siculo-toscani. Il cambiamento più importante nacque dal messaggio cospicuo di osservazione spirituale. Esso derivò dal contatto con la poesia jacoponica e dal successo della lauda. Inoltre, Breschi ha rivelato che l’italiano fu condizionato anche dalla Toscana, dall’Umbria e dai negozi mercantili, per i quali il codice scritto ha subì varie modifiche. Venne accettato il volgare, che, con il passare del tempo, fu condizionato da diversi sviluppi fino all’assorbimento totale (cf. Breschi 1992;470).
Da questi anni si sono salvate nelle Marche alcune tavole della poesia aulica che hanno come tema l’amore. Una di queste è Ki inver l’amore suo pemsero asente di Francesco Camerino. Racconta di una controversia tra ser Cione Baglioni e un notaio e politico di prestigio a Firenze. Il tutto si colloca tra la fine del Duecento e gli esordi del Trecento. Francesco Camerino è reputato uno dei tanti marchigiani che sono emigrati in Toscana nell’intento di trovare un impiego. Salvioni ha localizzato lo scritto nelle Marche. Presenta, infatti, alcune caratteristiche tipiche della parlata marchigiana del Due- e Trecento, come ad esempio:
- Metafonesi (repusa, erpusare)
- Distinzione di -o e -u
- Riduzione di íe>í
- Assenza di fenomeni di dittongazione e anafonesi
- Mantenimento dell’imperativo nella seconda e terza coniugazione
- Uso del pronome personale e possessivo lora (cf. Breschi 1992;471)
Il testo mostra anche tratti provenienti dall’area maceratese, dalla quale si hanno la conservazione dei nessi iniziali con L, l’assimilazione di –ND– > –nn– e la presenza della parola anchi. Le Marche hanno, dunque, contribuito alla diffusione, anche oltre ai loro confini23, dell’esperienza religiosa e letteraria appartenenti ai benedettini cassinesi, la quale ha subito una reinterpretazione derivante dall’Umbria a causa delle tendenze di religiosità contemplativa.
Quando invece il prestigio dei benedettini diminuiva costantemente, le Marche divennero il più importante centro del francescanesimo spirituale. La scuola francescana ebbe grande successo nelle Marche e si hanno ancora oggi vari scritti risalienti al terzo quarto del Duecento. I documenti erano scritti sia in latino che in volgare e presentano una duplice stratificazione dialettale, cioè della parlata mediana e di quella settentrionale. Uno scritto molto importante e conosciuto è la raccolta biblica dei Liber scintillarum. È incorporata da testi sia in latino che in volgare. Anche la lauda e le sequenze presentano questi fenomeni. Non si è ancora arrivati ad una decisione netta sul fatto che i tratti sono influenzati dall’Italia mediana perché, come afferma Pasquali, non si sa “se si tratti di testi dell’Italia mediana con tenue coloritura del nord-Italia o viceversa” (cf. Pasquali in Breschi 1992;473). Secondo Baldelli e Breschi le influenze provengono dall’Italia mediana, però, escludono Ancona come città. Questo perché i tratti presentano caratteristiche mediani come ad esempio la metafonesi da –I e –U (linzo< LINTEU, fascia, panni di lino), la distinzione di –o e –u, il raddoppiamento fonosintattico e l’epitesi di –ne. Si esclude invece Ancona per il fatto dell’assenza dei nessi –ND– > –nn– e G– > i-. Un altro manoscritto collegato ai francescani è il manoscritto La Giostra delle virtù e dei vizi risaliente ad un convento francescano di Macerata. Lo scritto è importante perché rivela la vita spirituale e la cultura nelle Marche all’inizio del XIV secolo. Racconta di ascitizie di San Francesco e di divergenze di sollecitazioni ortodosse ed eterodosse. L’opera è scritta in lingua marchigiana. Lo si capisce dall’originale di cui Breschi dice che fu cercato di correggere nei caratteri più tipici del dialetto umbro-marchigiano con correzioni delle parole, prendendo toscanismi o addirittura dalle rime siciliane. Il marchigiano si vede dall’uso dei verbi con prefisso in –er, dalle –a in lora invece di loro o pellima per di pigliamo, si hanno anche proposizioni articolati forti come ad esempio nellu al posto di nella e si presentano molti cambiamenti di –o in –u (cf. Breschi 1992;473-474).
Si è già accennato alla produzione laudistica, in parte influenzata dai francescani, per la quale Breschi esamina anche essa. Non sono rimasti molti scritti. Esisteva una decina di laudari, di cui molti, però, sono andati persi. Comunque, anche nella produzione laudistica si è costatato l’uso del volgare. Siccome cambia il territorio geografico culturale della regione, si aggiungono al già esistente centro di Macerata molteplici centri inferiori da sud a nord fino alla provincia di Pesaro e Urbino. Essi rappresentano sedi confraternali tra i quali c’è la possibilità di comunicare fra loro. Le opere si concentrano sui pianti di Maria, che hanno origine dalla tradizione dei benedettini e sulle laude24, ripresi anche dagli spirituali e da Jacopone. La raccolta laudistica è caratterizzata da un’uniforme patina locale che si espande anche su prodotti non locali, come ad esempio il tipo perugino. In tutto rappresentano tre variabili diverse composte dalla costituente indigena, quella toscana e latina e dal sostrato originario. Questo stato polimorfico si presenta, secondo Breschi, anche fuori dalla lauda (cf. Breschi 1992;475-477).
3.2.2. Trecento e Quattrocento
Uno scritto appartenente alla letteratura marchigiana del Trecento è la canzone di Nello di ser Nicola d’Ascoli. La situazione polimorfica si rende molto visibile anche in questo testo. Esso presenta varie caratteristiche marchigiane e ascolane come ad esempio la metafonesi nei pronomi, la tendenza ad e in protonica, la distinzione di –o e –u e l’assimilazione di –ND-. L’unico elemento non marchigiano o ascolano è la serie di parole come maior, duncha, fanciuglo. Dallo scritto si percepisce l’intento dell’autore di porsi in un registro intermedio tra quello della lauda ed uno fortemente volgarizzato per rendere più accessibile il documento (cf. Breschi 1992;478). Questa avvertenza si trova spesso negli autori che vissero e si istruirono lontano dalle Marche e che però, contribuirono alla produzione letteraria trecentesca delle Marche. Uno di questi è Cecco d’Ascoli, situato probabilmente tra Bologna e Firenze. È conosciuto per la sua opera Acerba la quale presenta alcuni dialettismi come la metafonesi, l’assimilazione di –LD-, –MD– e –ND– e anche lo sviluppo di –LS– a –lz-. Ugolino, un notaio fanese, scrisse due sonetti indirizzati a Marino Ceccoli. Da essi si notano l’uso di una lingua dialettale che non riporta alla situazione fanese, bensì a quella urbinate. Lo si vede dall’assimilazione di –ND– che non era ancora presente nella parte settentrionale delle Marche. Pure nel Canzoniere di Dante si trovano parole marchigiane, tra cui tou, suou, decesse, fegoro, scia, poscebel. Durante il Trecento si fece strada anche il toscano il cui influsso ebbe impatto nei principali centri marchigiani. Questo portò a conseguenze sugli scritti sia sotto l’aspetto letterario che su quello documentario. I due centri più colpiti dall’impatto toscano erano Urbino ed Ancona. Ad Urbino il toscano si incorporò per i rapporti di natura culturale e politica, mentre per Ancona si impose il toscano per quelli relazionati all’economia e al commercio. Quest’ultimo fu talmente forte da deviare lo sviluppo evolutivo della varietà anconetana. Anche a Macerata si trovano allotropi toscani, anche se l’impatto toscano non fu molto forte. L’ascendente toscano sulle scritture non presenta uniformità, perché veniva modificato in base al registro, al controllo esercitato dagli autori, dalle loro aspirazioni ed infine dall’istruzione dei destinatari. I testi con il maggior toscaneggiamento sono i testi aulici, mentre quelli popolareggianti, ad esempio il repertorio artistico, venivano meno toscanizzati. Per la fine del Trecento, però, nelle Marche il toscano si impose per la produzione letteraria (cf. Breschi 1992;479).
Nel Quattrocento il panorama linguistico viene diviso da due linee principali: la partizione dialettale, già consolidata, però malgrado ciò, sottoposta a forti pressioni esterne, e l’uso della lingua derivante dalle scritture letterarie, cioè toscaneggiante o simile a quella del modello toscano. Quest’ultima andava di contro al latino umanistico. Siccome non esisteva una forte identità culturale nella regione, ha resistito, seppure in modo molto modesto, la parlata indigena. Il Quattrocento con le sue innovative correnti di pensiero non toccò le Marche, che si separarono da essi. A questo punto iniziò l’emigrazione di persone istruite e colte verso le città più vantaggiose, come Firenze, Bologna, Milano e Roma. Perlopiù nelle Marche mancavano centri d’insegnamento universitario e biblioteche, cosa che agevolò l’espatrio. Molti marchigiani, infatti, si trasferivano a Bologna per studiare. Durante questo secolo si creò una specie di triangolo tra Rimini, Pesaro e Urbino riconoscibile dalla presenza dei Montefeltro, Malatesta e degli Sforza. Riguardo a ciò Breschi cita Santagata che afferma: “una così elevata percentuale di Signori dediti in modo non episodico alla poesia non ha riscontro in altre regioni italiane” (cf. Santagata in Breschi 1992;480). Intorno a queste signorie si stabilirono funzionari i quali furono ugualmente abili riguardo all’arte poetica. Tutto questo porta, a livello linguistico, ad un ibridismo con influssi indigeni e simili al toscano. L’uso del toscano, ricordando le correnti innovativi, veniva favorito anche per via della visibilità delle Tre Corone e l’uso del toscano dalle classi intermedi e anche dai signori. Nelle corti del Quattrocento si trovavano spesso gentiluomini e militari provenienti da altre regioni per il quale il proprio volgare fu modificato fino alla creazione di un codice compromissorio. Questo avvenimento dette origine alla lingua cancelleresca nelle Marche. Riporta un forte condizionamento toscano che ha cambiato più il vocalismo tonico che atono. Lo si vede dalle numerose anafonesi e dalla chiusura in –ato. La parte morfologica si basa sui parametri di obbedienza al dato locale e alle innovazioni dal toscano. In confronto alle altre lingue che allora esistevano, la lingua cancelleresca presentava un contributo egualitario e perlopiù portò ad un’accelerazione delle premesse per l’unitarietà linguistica dell’italiano sotto l’aspetto burocratico-amministrativo. Oltre alla lingua cancelleresca, si creò anche un linguaggio burocratico. Esso presenta numerose innovazioni morfologiche. A livello nominale si trovano ad esempio aviso, beneplacito, commissione, composizione, deposito, effecto, favore, inconveniente, intelligentia, tractato e a livello verbale: allegare, conferire, contravenire, detenere, deliberare, provedere. Presenta anche locuzioni sintagmatiche tra cui dare principio, fare conclusione, rendersi certo, havere luoco, rendere testimonianza e locuzioni preposizionali o congiuntive come per la via de, nel processo che, a petitione de. Nelle Marche del Quattro- e Cinquecento si trovano anche oratori sacri come Giacomo della Marca, Bernardino da Montefeltro e Simone da Camerino che andavano a predicare in volgare. Da essi provengono testi in latino ricchi di volgarismi. Riguardo alla predicazione tradizionale scolastica Breschi ha rilevato alcune innovazioni di tipo bernardina. Si contrassegna per la sua cultura spirituale e patristica e per la sua relazione con autori volgari25. Il volgare usato dai predicatori era spontaneo, trasparente e più vicino al parlato. Lo si spiega dal fatto che c’era la necessità di essere comprensibili a tutti. Tuttavia, si tratta di una variante non molto lontana e diversa dal toscano. Breschi, per il fatto che i predicatori provenivano spesso dall’area mediana, ipotizza che fu un’altra via per la diffusione del toscano nella regione delle Marche e che, dunque, portarono ad un’omogeneizzazione del parlato (cf. Breschi 1992;479-484).
3.2.3. Cinquecento, Seicento e Settecento
Il Cinquecento è un secolo quando nelle Marche si presenta una grande fioritura culturale. Dalla metà del secolo infatti si attesta un incremento delle sedi di stampa. Questo non portò, però, ad un aumento di edizioni e perlopiù lo stampatore proveniva da altre regioni. Sono presenti solo pochissimi testi in volgare, tra cui i più noti sono il Petrarca, datato al 1503 a Fano, le Regole grammaticali della volgar lingua del 1516 ad Ancona e l’Orlando furioso collocato al 1556 a Pesaro. Secondo Breschi l’editoria, per non correre rischi, si occupò solo di opere di autori famosi del momento, di quelli che godevano di una certa fama, dei libri scolastici e delle opere che trattavano i generi di moda. Nel 1540 a Macerata e nel 1585 a Fermo, vennero costruite le prime due università delle Marche, anche se gli studi migliori vennero fatti ancora da studenti fuori dalla regione. Si veda ad esempio Caro di cui Leopardi dice: “Nessun fiorentino né del trecento, né del cinquecento né d’altro secolo scrisse mai così leggiadramente e perfettamente come scrisse il Caro, marchegiano e di piccola terra … vero apice della prosa Italiana” (cf. Leopardi in Breschi 1992;485). Caro è conosciuto per l’uso di registri e varianti linguistiche che unì con il fiorentino parlato che aveva acquistato dalla frequentazione di alcuni amici. Già nella corte urbinate alla fine del Quattrocento si fa presente la tendenza dell’uso degli strambotti (forma metrica) che dette origine a due tendenze opposte l’una dall’altra: la forma aulica (petrarchesca) e la forma popolaresca (rustica). Un rappresentante della forma aulica nelle Marche è Baldassare Olimpo degli Alessandri, mentre la forma petrarchistica venne usata da varie persone di Macerata. Proprio qui si trovano le prime affermazioni di una produzione letteraria in dialetto datata al 1629 fra il Cinquecento e il Seicento. È fatta di canzoni, madrigali, sonetti, lacerti drammatici, sposalizi e un inventario di autori indigeni. Breschi riporta che il nucleo arcaico è caratterizzato dall’uso delle ottave di forma ABABABCC alla cingolana. L’opera presenta anche testi di origine veneta di cui si parla anche nel codice 552 dove viene costatata una relazione diretta alla parlata settentrionale (veneta). I maceratesi hanno usato il dialetto solo a scopo dell’effetto comico. Perlopiù l’uso dialettale si restringe più che altro sul livello fonomorfologico. Si fa uso di parole come trufa, caciopula che presentano fonetismi dialettali come la –u o anche l’uso di me che veniva usata anche in combinazione con gli avverbi di luogo. Sotto l’aspetto dialettale si può, dunque, verificare che nelle Marche lo si usa in modo uniforme e per strutture ben studiate. La società marchigiana del Cinquecento si può descrivere come una poco aperta ad influssi da fuori e all’urbanesimo. Questo probabilmente fu causato dalla mancanza di grandi centri e dall’agricoltura che rappresentava il ramo più importante dell’economia. Si aveva invece un’aristocrazia colta e munita di potere sia politico che economico con borghesie cittadine. La lingua scritta alla fine del Cinquecento si rifà interamente al toscano letterario (cf. Breschi 1992;484-488).
Il benessere di cui le Marche approfittarono durante il Cinquecento si interruppe nel Seicento nel quale si stava aggravando sempre più la decadenza culturale. Infatti, Breschi annota che nel 1656 su una popolazione di 450.000 soggetti l’analfabetismo arriva fino al 96%. Le poche istruzioni migliori avvenivano dai gesuiti i quali dominavano lo sviluppo culturale di quel tempo. Contribuirono a diffondere uno spirito controriformistico e dettero molta importanza all’insegnamento del greco e del latino. L’unica scuola interessante, dal punto di vista linguistico, è l’Accademia dei Catenati, dove venivano portati avanti gli esperimenti letterari più avanzati. Di fatto, rispecchiano l’interesse per il teatro, che stava nascendo nelle Marche, con il componimento di tragedie e di commedie. I generi preferiti e, dunque, più sviluppati, furono il dramma pastorale, piscatorio, lidereccio e boschereccio. La lingua dialettale cercava di conquistare nuovi campi espressivi, che, di conseguenza, andavano tolti al toscano che prevaleva sin dal Cinquecento. Appare così, oltre alla poesia dialettale, che esisteva già nel Cinquecento un’originaria lirica popolareggiante. Breschi rimarca che tuttavia il dialetto che venne usato per le commedie e la poesia aveva ancora funzione di comicità. Lo si vede ad esempio dall’uso dell’aggettivo possessivo posposto mogliema, dall’indefinito chinga, da vari avverbi rafforzati tra cui miecco, mellì o mellà e dal lessico specializzato del quale si possono trovare parole come pannella, copeza, tunnu per grembuile, capo, scodella (cf. Breschi 1992;489-492).
La situazione delle Marche, che nel Settecento si trovava ancora sotto l’amministrazione dello Stato della Chiesa, viene rappresentata da un’inefficienza politica, culturale ed economica. Lo afferma anche Baldoncini che dice: “il panorama che si delinea [nel Settecento] risulta caratterizzato da un immobilismo politico, culturale, economico” (cf. Baldoncini in Breschi 1992;492). Breschi include nel suo lavoro Valsecchi che raffigura la regione come un quid unicum e perlopiù la definisce come la parte del panorama linguistico italiano più monotono e desolante. Al contrario, però, risale proprio al Settecento la grande enciclopedia di notizie, fatta da Colucci. Essa presenta 31 volumi di cui la maggior parte è andata persa, ma stando al giudizio di Breschi, allora se ne potevano compiacere solo poche altre regioni. Le Marche del Settecento, inoltre, sono caratterizzate da scambi di idee e comunicazioni varie con Roma, Napoli e Padova. La cultura letteraria marchigiana sembra essere fatta soltanto nella provincia. L’unica città che riuscì a contribuire in modo importante fu la città di Arcevia. Gli arceviesi che si diffusero su tutto il territorio italiano e, quindi, anche sulle Marche. Egli contribuirono in gran parte a diffondere la moda del secolo (cf. Breschi 1992;492). Breschi incorpora una citazione di un contemporaneo che descrive la moda affermando:
Oggi non si addottora alcun, che prima / La sua dottrina in versi non si canti: / Senza esser messo da più d’uno in rima / Oggi non si marita un par d’amanti; / Senza sonetto sotto questo clima / Non fassi uffizio alle anime purganti; / E monaca non fassi una ragazza, / Se in versi da più d’un non si strapazza (cf. Breschi 1992;492).
Caratterizzante per le opere degli arceviesi sono la ricchezza di temi, forme metriche e i riferimenti culturali, arcaici antichi e nuovi. Durante questo secolo si persistette più che altro nella poesia latina e volgare aulica e si usò specialmente il genere drammatico o la letteratura burlesca. Un lavoro importante, su cui si sofferma anche Breschi, è il dizionario di voci e frasi romane e marchiane26 pubblicato poco dopo la metà del Settecento a Osimo e che è diventata una delle più antiche raccolte d’Italia. Il creatore di quest’opera fu Giuseppe Antonio Compagnoni. Dal dizionario spicca, oltre ai lemmi marchiani e romani, una parte di vocaboli umbri e umbro-marco-laziali. Si fa presente dunque l’obbiettivo di Compagnoni di creare un dizionario adatto a coprire tutte le aree linguistiche appartenenti allo Stato Pontificio della parte metaurense delle Marche ed escludendo, quindi, l’Emilia e la Romagna. Rappresenta il primo dizionario interregionale destinato ad “ogni maniera di persone” e a “molti paesi diversi” cosicché ciascuno si possa “contentare di prendere quello che fa al suo proposito e lasciare il resto senza dar biasimo” (cf. Breschi 1992;492-495).
3.2.4. Ottocento e Novecento
Questi due secoli sono caratterizzati dalla presenza di numerose autorità nelle Marche come ad esempio Spontini, Rossini e Giacomo Leopardi. Entrarono a far parte della coscienza degli italiani le nuove idee politiche provenienti dalla Franca. Sono i due secoli nei quale si stava formando il regno d’Italia. Infatti, la Casa Savoia, che era a capo dell’unificazione, conquistò tutte le regioni d’Italia, tranne il Lazio e le Marche che rimasero sotto lo Stato Pontificio e custodite dalla Francia. Oltre al fenomeno storico, le Marche restano fuori anche dal punto di vista culturale, cosa che ebbe influsso anche sulla lingua che rimase ugualmente isolata. Lo ha già notato Leopardi il quale in una lettera a Giordani si lamenta dell’isolamento della “Marca e del mezzogiorno dello Stato Romano” e che le Marche si sono persi in un “fondo di immobilità” (cf. Leopardi in Breschi 1992;495). Il centro più importante all’inizio dell’Ottocento fu Pesaro. Da lì infatti si riconduce alla presenza di Perticari con la moglie e il suocero Vincenzo Monte, che fondarono una scuola etichettata come romagnolo-marchigiana. Essa era in uno stretto dialogo con Milano. Pesaro, dunque, attraverso il canale milanese, si trovò a partecipare a dibattiti di carattere europei. I pesaresi si concentravano nel promuovere studi su Dante e sui classici italiani del Cinquecento e si applicavano alla traduzione di testi greco-latini. Questo lo fecero fino alla rinascita ottocentesca, che portò con sé una nuova considerazione del folclore e del dialetto. L’interesse si spostò verso le tradizioni popolari e sulla raccolta di canti che causò un grande frazionamento dialettale. A questo punto si distinguono due gruppi per l’uso della lingua letteraria: i patrioti e gli avversari. I patrioti usano il dialetto come simbolo della cultura locale, mentre gli avversari lo vedono come mezzo di reazione alla nuova realtà e di recupero dell’anteriore. In questo panorama è importante la presenza dell’Accademia della Crusca. Essa contribuì ad allargare il desiderio di una nazione unica e toccò, dunque, l’essenza della lingua nel tentativo di portare luce sulla formazione di un italiano letterario. Difende la purità della lingua ed esclude tutte le forme dialettali, per cui i poeti locali vengono squalificati. Uno dei principali autori dell’Accademia fu Giacomo Leopardi. Sostiene che il dialetto, ritenuto volgare, fosse da evitare da parte degli autori e anche lui stesso cerca di ripulire le sue opere da ogni forma dialettale. Questo, però, porta ad una divisione tra il purismo, surrogato dall’Accademia della Crusca e il dialetto come lingua secondaria. Questo dette origine al dualismo tra l’italiano parlato e l’italiano scritto. Nonostante ciò, si cercò di cancellare i regionalismi a favore di un una lingua unica per l’Italia. Le Marche, le quali appartenevano allo Stato Pontificio, subirono questi cambiamenti in modo più lento, fino a che non fondarono un referendum per il quale si dissociarono dallo Stato della Chiesa e si unirono all’Italia (cf. Breschi 1992;495-498).
3.2.5. La situazione dialettale odierna nelle Marche
Come è stato già accennato nei capitoli anteriori non c’è un panorama chiaro che spiega le origini e divide i dialetti marchigiani. Secondo Breschi è stato Ugo Vignuzzi a stimolare gli studi sia diacronici che sincronici sulla questione marchigiana. Lui stesso ha distinto due aree: l’area settentrionale e l’area mediana. L’area settentrionale l’ha limitata a nord da Senigallia che si collega a ovest con la Toscana orientale e l’Umbria e a est dai dialetti romagnoli. L’area meridionale invece la segmenta in altre tre sub-aree corrispondenti alle provincie di Ancona, Macerata (fino all’Aso) e alla provincia di Ascoli Piceno (tra l’Aso e il Tronto). Breschi, e come lui anche molti altri linguisti, è del parere che la ripartizione dialettale odierna rende improbabile il riconoscimento di impronte riconducibili ad un sistema unitario e al quale si possa assegnare il nome di dialetto marchigiano. Anche le carte disegnate da Rohlfs e dallo Hall rispecchiano questo pensiero. Per le Marche si vedono intatti, ad esempio, due fasce di isoglosse fondamentali che passano dalla costa tirrenica l’Italia e si incrociano nel territorio marchigiano. La prima isoglossa si allontana tra Pontremoli e Camaiore, segue il crinale appenninico, il Valdarno superiore e entra nelle Marche disperdendosi nelle valli fino ad arrivare all’Adriatico. La seconda fascia va a creare insieme alla prima una zeppa con la punta rivolta ad est. È conosciuta anche come la Linea Roma-Ancona. La controversia nasce anche dai confini amministrativi e linguistici. Secondo Hall è probabile che ripercorrano quelli dello Stato papale, mentre è certa la coincidenza con il percorso della via Amerina e con i confini del Ducato di Spoleto. Anche secondo Mancini le Marche non presentano un sistema endogeno, causato dall’aggiunta di realtà linguistiche esterne dalle quali i popoli indigeni non hanno potuto salvarsi. La varietà ha origini, dunque, dalla divisione politico-amministrativa e anche dall’assenza di un centro potente, per la quale non ha potuto formarsi una koinè. Perlopiù il ventaglio di isoglosse presenti nelle Marche mette in chiaro i limiti di fenomeni i quali non rendono possibile, ad esempio, una bipartizione dell’Europa romanza e, inferiore a ciò, anche quella dell’Italia mediana e meridionale. Le Marche presentano, dunque, anche oggi una specie di zona di frontiera caratterizzata dal conflitto delle correnti provenienti da nord e quelle derivanti da sud. Resta un territorio di transizione dove la regione si vede confrontata da vari sistemi linguistici (cf. Breschi 1992;464-465).
4. La sistemazione dei dialetti marchigiani
Nel seguente capitolo verrà fatta una sistemazione dei dialetti in base alle caratteristiche linguistiche tipiche dei dialetti presenti nelle Marche. A causa della grande varietà verranno presi in considerazione non solo un’unica sistemazione ma questo lavoro si appoggerà sui modelli della sistemazione dei dialetti marchigiani fatta da Balducci e Parrino. Lo studio delle caratteristiche linguistiche tipiche marchigiane serve per individuare e delimitare meglio il dialetto grottammarese il quale sarà alla base del capitolo metodologico seguente in questo lavoro.
4.1. Le caratteristiche dei dialetti delle Marche rivelati da Balducci
Uno dei linguisti più noti per la dialettologia moderna marchigiana è Sanzio Balducci, il quale in un capitolo del libro di Cortelazzo I Dialetti Italiani. Storia, struttura, uso si è dedicato alla regione delle Marche. Balducci divide le Marche in quattro aree: l’area settentrionale pesarese, l’area centrale anconetana, l’area centrale maceratese e infine l’area ascolana. Ognuna di esse presenta differenti caratteristiche che verranno esaminate in seguito. Prima di tutto però Balducci mette in risalto che le quattro aree dialettali vengono intese come diasistema raggruppante (conglobante) sub-aree fra loro anche se dovessero apparire distanti. Per l’area settentrionale pesarese Balducci elenca fondamentalmente le seguenti caratteristiche: (cf. Balducci 2002;453)
- La caduta delle atone interne e finali (diverse da –a)
- Lo scempiamento in protonia
Per il resto delle caratteristiche rilevate da quest’area Balducci le ripartisce in quattro sub-aree differenti fra loro. L’area marecchiese include i paesi della valle del Marecchia, tranne quelli al confine con l’Arezzo. Essa presenta:
- Caduta delle vocali atone
- Reduplicazione del pronome soggetto
- Ìa a, tè tu, lu e(l), lia la, ecc.
- Cambiamento di à > è in posizione libera
- Metafonia romagnola
- Quél è l mi gatt ‘quello è il mio gatto’, Ìa a jò tant ghètt ‘io ho tanti gatti
- Verbi con identica uscita di terza persona singolare e plurale
- Sti sédi li è tuti vècchi ‘queste sedie sono tutte vecchie’
La sub-area pesarese si espande da Gabicce a Fosso Seiore e, nell’interno, fino a Montecchio e Montelabbate. Questi confini si rifanno al territorio della diocesi di Pesaro e si distingue per:
- Caduta delle vocali atone
- Cambiamento da à > è in sillaba aperta
- Reduplicazione del pronome soggetto
- A Pesaro si usa il pronome soggetto mè
- Mè a parle ‘io parlo’
- Uso del plurale
- Lu l bala, lóri i bala, lórle le cantano ‘lui balla, loro ballano, loro (donne) cantano’
Per quest’ultimo fenomeno le ì, ù accentate in posizione chiusa tendono ad abbassarsi fino ad arrivare quasi al grado é, ó specialmente se si trovano in fine della parola. Lo ha già costato Crocioni dicendo che la i lunga “nei gallo-piceni suona è, se riesce finale (lé ché ascé)”, mentre per la u lunga “nei gallo-piceni passa ad ó, se riesce finale (tó pió virtó ecc.)” (cf. Balducci 2002;453). La terza sub-area è l’urbinate-fanese-senigalliese che include la maggior parte della costiera, specialmente la parte interna della provincia di Pesaro e Urbino, come anche la costiera di Senigallia. Essa viene rappresentata da fenomeni come:
- Caduta delle vocali atone
- Cambiamento da à > è in sillaba aperta
- L’esito di z, ź > s, ś
- Vam a cumprè un fasulèt! ‘vammi a comprare un fazzoletto!’
- Presenza della nasale velare in fine di parola
- Viene costatato solo nel territorio della vecchia diocesi di Fano, a Senigallia e nei paesi del Cònero. Un esempio preso da Fano: per magnà el pań tòca lavà le mań ‘per mangiare il pane bisogna lavare le mani’
- Scempiamento delle doppie postoniche
L’ultima sub-area dell’area settentrionale pesarese, la pergolese-cantianese presenta due caratteristiche:
- Caduta di vocale atone solo in fonosintassi e mai in fine di enunciato
- Ò compràt un mazz de rose ‘ho comprato un mazzo di rose’
- Scempiamento inesistente o solo molto debole
Secondo Balducci questa sub-area somiglia molto alla confinante sub-area jesina e alla zona umbra confinante che Balducci analizzerà in collocazione alla città di Ancona (cf. Balducci 2002;454).
La seconda area delle Marche, rivelata da Balducci, è l’area centrale anconetana. Racchiude in sé tutto lo spazio che si espande lungo la vallata e il corso del fiume Esino nonché l’annessione (con l’inglobamento) verso sud di Osimo, Castelfidardo e Loreto. Balducci lo paragona ad un corridoio stretto che si trova fra il pesarese e il maceratese. Questo territorio è caratterizzato dalle seguenti caratteristiche linguistiche:
- Saldezza delle vocali atone
- Mancanza delle finali in -u
- Difficoltà di trovare parametri univoci, come ad esempio il rafforzamento di s dopo liquida e nasale ls, rs, ns > lz, rz, nz
- Pólzo, pèrzo, pènzo
Siccome quest’area presenta molte diversità, Balducci stacca dall’elencazione delle caratteristiche linguistiche principali il raddoppiamento sintattico, l’assimilazione nd, mb e ld > nn, mm e ll e la metafonia di tipo napoletano e sabino e le cataloga per la provincia di Ancona, senza includere la città. Essa presenta infatti quattro ulteriori sub-aree (cf. Balducci 2002;454). La sub-area anconetana include Ancona, Falconara e l’adiacente entroterra. Qui si fanno presenti:
- Forte scempiamento delle consonanti
- Sonorizzazione di –k- intervocalica
- Antìgo, imbrjàgo, cutighì ‘antico, ubriaco, cotechino’
- Uso maggiore dei verbi di identica uscita in terza persona singolare e plurale
- Sonorizzazione di s intervocalica
La seconda sub-area di Ancona, l’osimana-loretana, si espande lungo i territori di Osimo, Castelfidardo e Loreto. Essa viene rappresentata da tre fattori:
- Uso principale nei verbi di identica uscita di terza persona al singolare e plurale
- Raddoppiamento sintattico
- Cambio sistematico di nd > nn e alcune volte anche di mb > mm
- Ghjanna per ghianda (cf. Balducci 2002;454)
In secondo luogo, si trova la sub-area osimana-loretana. Essa incorpora i territori di Osimo, Loreto e Castelfidaro. I fenomeni linguistici caratterizzanti per l’area sono:
- Identica uscita di terza persona singolare e plurale nei verbi
- Raddoppiamento fonosintattico
- Cambio sistematico di nd > nn
- Cambio occasionale di mb > mm (cf. Balducci 2002;454)
La sub-area jesina invece comprende la città di Jesi e alcuni comuni dell’entroterra di Senigallia verso Arcevia. I fenomeni linguistici di quest’area sono:
- Presenza del raddoppiamento sintattico
- Cambio di -č-e -ĝ- fra vocali in -š- e -ž- anche in fonosintassi
- La péše, la camìša, la šéna ‘la pece, la camicia, la cena’
- Forte tendenza alla sonorizzazione di -t- che può persino cadere
- Caduta di -v- anche nelle forme verbali
- Teadro, védro, brao, proèrbio ‘teatro, vetro, bravo, proverbio’
- Cambio sistematico di nd > mm e ld > ll
- Esiti occasionali di metafonia
- Peró, perù ‘peperone, peperoni’
- Sonorizzazione dopo nasale
- Biango, fiango, mango ‘bianco, fianco, manco’, ma anche stanco, anca ‘stanco, anche’
- Identica uscita di terza persona singolare e plurale (cf. Balducci 2002;455)
L’ultima sub-area di Ancona è quella fabrianese. Essa racchiude in sé le città Fabriano, Cerreto d’Esi, Sassoferrato e i paesi di Arcevia al lato di Sassoferrato. Per quest’area Balducci elenca le seguenti caratteristiche:
- Metafonia di tipo napoletano
- Dittongazione delle medio-basse è> jé, ò> wó
- Chiusura ad ì, ù delle medio-alte
- Distinzione di etimologia fra -u e -o, fra l’articolo maschile (l)u e il neutro (l)o nelle zone di campagna fabrianese
- Cambio sistematico di nd, ld, mb > nn, ll, mm
- Identica uscita della terza persona singolare e plurale
- Raddoppiamento sintattico
- Le finali in -i mutano spesso in -e
- Iére, dieše, i gatte ‘ieri, dieci, i gatti’
Nella città di Fabriano e nei territori di Sassoferrato e Arcevia Balducci rileva anche
- Generalizzazione di -o
- Cambio di -č- e -ĝ- fra vocali in -š- e -ž-
- Cambio b, br > v, vr in posizione intervocalica (cf. Balducci 2002;455)
Oltre all’area centrale anconetana la regione si divide anche nell’area centrale maceratese-fermana. Essa conta a sinistra dell’Esino la provincia di Macerata con Camerino, Mergo, Serra San Quirico e a destra del fiume Filottrano, Staffolo, San Paolo di Jesi e Cupramontana. In provincia di Ascoli comprende il territorio fermano fino al fiume Aso. L’intero spazio dell’area maceratese-fermana è linguisticamente ricco e omogeneo. Si hanno: (cf. Balducci 2002;455-456)
- Conservazione delle vocali atone interne e finali
- Metafonia di tipo sabino con chiusura di un grado delle medio-basse è, ò > é, ó
- Metafonia di tipo sabino con chiusura di un grado delle medio-alte è, ó > i, u
- Bella-béllu-bélli, bòna-bónu-bóni
- Distinzione etimologica fra -u ed -o, fra l’articolo maschile (l)u e il neutro (l)o
- Distinzione fra maschile, femminile e neutro nei pronomi dimostrativi
- Quistu, quésta, quésto (agg. stu, sta, sto), quillu, quélla, quéllo (agg. llu, lla, llo), quissu, quéssa, quésso (agg. ssu, ssa, sso)
- Cambio b, br > v, vr in posizione intervocalica
- La vócca ‘la bocca’
- Costante raddoppiamento sintattico che portano ad un indebolimento delle occlusive sorde intervocaliche
- Costante raddoppiamento sintattico che portano ad una sonorizzazione delle consonanti sorde dopo nasale
- Cambu, sandu, cìngu, biàngu ‘campo, santo, cencio, bianco’
- Cambio sistematico nd, ld, mb, nv > nn, ll, mm, mm
- Mméce, mmérno ‘invece, inverno’
- Rafforzamento di s dopo liquida e nasale ls, rs, ns > lz, rz, nz
- Pronuncia sonora di z nel territorio maceratese ed esclusivamente nel nesso rz
- Identica uscita di terza persona singolare e plurale nei verbi
Nella provincia di Macerata e all’interno del triangolo formato da Macerata, Esantagolia e Fabriano si constata anche l’assimilazione di nk, ng > ńń come si vede in lu/ńń//u ‘lungo’, stà ni/ńń/uènno ‘sta nevicando’. Secondo Balducci la parte costiera invece è stata influenzata fortemente dall’area adriatica più a nord. Si fa presente grazie all’esistenza dell’indebolimento e la scomparsa della metafonia da –u con quella di –o (dalla Toscana) (cf. Balducci 2002;456).
La terza area rivelata da Balducci è l’area ascolana. Di essa fanno parte la provincia di Ascoli Piceno limitata dal fiume Aso. Viene escluso il territorio fermano che fa parte dell’area esaminata anteriormente. Sotto l’aspetto linguistico anche questo spazio è omogeneo. Esistono solo alcune modificazioni vocali nelle città di Grottammare, San Benedetto del Tronto, Ripatransone e nei paesi circostanti. In generale si trovano:
- Metafonia di tipo napoletano, quindi con dittongazione delle medio-basse è, ò > jé, wó e chiusura delle medio-alte è, ó > i, u
- Bèlla-biéllë-biéllë, bòna-buónë- buónë
- Riduzione ad ë di tutte le atone ad eccezione di -a
- Cambio b, br, rv > v, vr, rv in posizione intervocalica
- Costante raddoppiamento sintattico
- Sonorizzazione delle consonanti sorde dopo nasale
- Chëmbrà, lindana, banghittë ‘comprare, lontano, banchetto’
- Cambio sistematico nd, ld, mb > nn, ll, mm
- Mmecchìtë, mmédjë ‘invecchiato, invidia’
- Cambio nf > nv e anche mb, mp
- Cunvittë ‘confetto’ cumbìttë, mbónnë ‘bagnare’
- Tendenza di assimilazione (e sonorizzazione) dei nessi consonantici l+č,s,d,t,z o in casi di l rotacizzata
- Puggë, faźźë, caddë ‘pulce, falso, caldo’
- Esiti dal latino J, DJ, GE, GI, GJ, GL che presentano soluzioni diverse
- Ascoli: Wójja ‘oggi’, a San Benedetto del Tronto: ’ujadì ‘oggidì’ e lungo la costa: òggë ‘oggi’
- Neutro vivo in tutta la provincia ascolana
- Si presenta nei dimostrativi e nella mancata metafonia di parole con significato ‘neutro’ o collettivo. A Ripatransone il neutro viene usato anche nei verbi e avverbi
- Identica uscita di terza persona singolare e plurale
- Enclisi dei pronomi e locativi
- Ascoli: sòccë, missë ‘ci ho messo’, Grottammare: vannë vì ‘va via!’, San Benedetto del Tronto: sòmmënë stëfatë ‘me ne sono stufato’.
- Ascoli: Uso di essere come ausiliare per i transitivi della prima e seconda persona
- Ascoli: Uso del verbo tenere con significato di ‘avere, possedere’
- Mu tènghë na allina, ìgghjë ‘ora ho una gallina, ecco’ (cf. Balducci 2002;45456-457)
Per la zona di San Benedetto del Tronto Balducci ha rilevato ulteriori fenomeni come:
- Mutamento spontaneo delle vocali toniche con tendenza generale all’abbassamento di un grado delle alte, medio-alte e delle medio-basse e senza distinzione della quantità vocalica
- Pelléccë, ambrëvésë, freché ‘pelliccia, improvviso, bambino’, Pè, pì ‘piede, piedi’
- Dittongamento contrastato dalla dittongazione metafonetica che ha portato alla monottongazione di E> *je> i, o> *wo> u probabilmente annullati dalla successiva apertura spontanea delle ì, ù primarie e secondarie in è, ó. Ecco perché le vocali alte sono presenti solo come esito di dittongazione metafonica o di assimilazione di dittonghi
- *Marjé> marì ‘Maria’
- Sensibilità al neutro
- Mu vè lu bbèllë ‘ora arriva il bello’ (il ragazzo bello) vs. mu vè lu bbèllë ‘ora viene il bello, il momento più emozionante’
- Ripatransone e Grottammare: indebolimento delle vocali atone (cf. Balducci 2002;457)
Dopo aver studiato le caratteristiche delle parlate marchigiane per zona, Balducci si concentra unicamente sul lessico marchigiano e lo divide in tre tipi lessicali, ossia quelli generali di singoli dialetti, il vocabolario settoriale di una particolare attività e il lessico di un luogo determinato anche chiamato lessico ergologico. Balducci afferma che la regione presenta, al di là della differenza dialettale, anche disomogeneità sotto l’aspetto lessicale. La sua analisi si appoggia più che altro su quella di Gaspari il quale, basandosi su 285 parole marchigiane, tratte dalle carte dell’AIS, ha cercato di definire le aree lessicali marchigiane. Sorprendentemente lo studio di Gaspari ha rivelato che solo il quarantacinque percento di lemmi presenta una disomogeneità lessicale. A giudizio di Gaspari questi si possono dividere in due gruppi: i lemmi a due tipi lessicali, come ad esempio il campanile che può avere significato sia di ‘campanile’, sia di ‘torre’ e i lemmi a tre o più significati, tipo bambino (cfr. AIS.I.42) che può essere usato per varie parole come fiulin, burdél, monél, ragazi, bambino, fijju e fricu. Infine, sotto l’aspetto spaziale, Gaspari traccia tre aree lessicali diverse di cui dice:
Dal punto di vista spaziale, si può parlare di tre aree lessicali: una settoriale fino al Foglia (e talvolta il Metauro), una centrale fino al Tenna [nei pressi di Fermo], ed una meridionale fino al fiume Vomano (in territorio teramano). La prima legantesi in genere alla Romagna ed alla Toscana, meno spesso all’Italia settentrionale, la seconda più fortemente all’Umbria, meno alla Toscana e talvolta al Lazio settentrionale ed all’Italia settentrionale; la terza all’Umbria, al Lazio, all’Abruzzo ed all’Italia meridionale in genere (cf. Gaspari in Balducci 2002;458).
Con questo Balducci chiude l’analisi lessicografica dei dialetti marchigiani. Nonostante i vari intenti di creare glossari e vocabolari27 lo studio sul lessico marchigiano è scarso e si orienta spesso sui ramai di Force ad Ascoli Piceno (cf. Balducci 2002;458).
A questo punto Balducci si concentra sull’italiano regionale marchigiano e sui fenomeni fonetici. Anche sotto questo aspetto lo studio non è facile, perché non esistono, perlomeno in forma diretta, dati storici sul cammino dei marchigiani alla volta della lingua nazionale. Solo con l’inizio della scolarizzazione si è fatto uso più ampio della lingua nazionale, motivo per cui i dialetti hanno dovuto adattarsi, sia nel lessico che negli aspetti fonomorfologici agli schemi del toscano. La causa, per cui oggi non esiste un italiano regionale marchigiano, secondo Balducci è dovuta proprio a questo e alla mancanza di una città di prestigio che abbia potuto imporre il proprio modello. Di conseguenza dagli esistenti gruppi dialettali si sono creati vari italiani sub-regionali. Balducci ha contribuito ad ampliare lo studio sulla fonetica marchigiana sottoponendo degli informanti di Urbino, Pesaro, Jesi, Ancona, Macerata, San Servino Marche, Grottammare e Ascoli Piceno alla lettura di un testo letterario identico a tutti. A base di ciò ha potuto elencare alcuni fenomeni come: (cf. Balducci 2002;460-462)
- Pronuncia aperta degli esiti di Ӗ breve latina in posizione libera: èra, bène, sèdia
- Solo a Urbino, Fossombrone e Fano si usa la pronuncia chiusa: éra, béne, sédia
- Pesaro: Pronuncia –énte (dénte)
- Pesaro e Macerata: Pronuncia –ménte
- Pronuncia di perché, mé, tré, ecc
- A Urbino e Pesaro invece: perché, mè, trè, ecc
- Da Jesi al maceratese e fermano: pronuncia chiusa di –o finale
- Non si riscontra a Grottammare ed Ascoli
- Pronuncia sonora di z all’inizio di parola. Fenomeno presente in tutte le Marche
- Jesi, Macerata, Grottammare ed Ascoli: pronuncia –azjóne > –azzjóne
- San Severino: –azióne
- Jesi, Macerata, San Severino ed Ascoli: pronuncia della palatale laterale -gli- > -jj- a
- Ascoli: sonorizzazione in fonosintassi -p- > -b-
- Urbino, Pesaro ed Ancona: sonorizzazione di -s- intervocalica
- San Severino ed Ascoli: sonorizzazione -t- > -d-
- San Severino, Macerata, Grottammare e Ascoli: sonorizzazione -k- > -g- a
- Cambio ls, rs, ns > lz, rz, nz
- Dalla zona anconetana in giù; a San Severino, e nel parlato del maceratese e ascolano: lź, rź, nź
- Cambio -b- > -v- diffuso più che altro nel parlato
- Da Macerata ad Ascoli: va vène, via garivaldi
- Grottammare ed Ascoli: cambio -b- > -bb-
- Fenomeno in espansione nel gergo giovanile dal maceratese all’ascolano
- Cambio mp > mb
- San Severino sèmbe
- Cambio mb > mp
- Macerata sémpra
- Cambio nc > ng quasi solo nel parlato di Macerata
- Cambio ng > nk
- Ascoli: un cran macigno
- Cambio nd > nt
- Ascoli: recuperànto
- Cambio nf > nv nel parlato di tutto il territorio maceratese, ascolano e a San Severino
- San Severino: convùso
- Scempiamento delle doppie
- Debole a Urbino e Pesaro e forte ad Ancona
- Semiocclusiva intervocalica -c- segue il modello di pronuncia settentrionale
- Nel pesarese e lungo la costa fino ad Ancona come anche a Macerata, Grottammare ed Ascoli
- San Severo: -g- la page, la gena e -s- a Jesi ed Ascoli
- Semiocclusiva intervocalica -g- segue il modello di pronuncia settoriale
- Nel pesarese lungo la costa fino ad Ancona. A Grottammare ed Ascoli: -gg- le gginòcchia, aggìre
- Jesi, Macerata e San Servino: -z- pàzina
- Maceratese: -s- radiolossìa
- Da Jesi e Macerata in giù: Raddoppiamento sintattico
- Riduzione mpr, mbr > mp, mb
- Grottammare, Ascoli e Tolentino: sémba, sèmpe, sèmbe
- Assimilazione rpr > ppr
- Ascoli: sopprendènte
Oltre a questi fenomeni Balducci ricorda anche le seguenti caratteristiche per il territorio marchigiano: (cf. Balducci 2002;462)
- Diffusione del pronome soggetto ‘te’ nel pesarese e anconetano
- Complemento oggetto (e animato) con a dal tipo dialettale mediano nel pesarese
- Hai visto a Giovanni?
- Al di sotto della linea Senigallia-Pergola: identica uscita di terza persona singolare e plurale
- Tutti i parenti è venuti a trovarla
- Dall’Esino al Tronto: realizzazione rilassata delle intervocaliche anche in fonosintassi dal modello romanesco
- La base, la bage
- Da Pesaro fino a Senigallia e Montemarciano: Introduzione dall’articolo dei nomi di persona al femminile
- Ti vuole la Giovanna
- Oggi già ad Ancona: c’è Fiorella
- Tendenza a posticipare il possessivo in tutte le Marche tranne l’area urbinate e pesarese vicino alla Romagna
- Il cane mio
4.2. Le caratteristiche dei dialetti delle Marche rivelati da Parrino
Un altro contributo importante alla sistemazione dei dialetti marchigiani lo offre Parrino nella sua Carta dei dialetti italiani (1967). Come è già stato accennato nell’introduzione, Parrino ha rilevato che nella coscienza dei parlanti delle Marche si verifica una quadripartizione dei loro dialetti. Dice infatti che “per l’uomo comune della Marca maceratese-fermana, ad es., è incontestabile non solo che a sud dell’Aso si parli <<abruzzese>> e da Senigallia in su <<romagnolo>>, ma anche che nella zona Ancona-Arcevia-Fabriano-IesiOsimo-Recanati-Loreto si parli <<ancunetano>>” (cf. Parrino 1967b;16). Per rendere visibile questo fenomeno Parrino confronta, mediante la lettura di una frase, il maceratese con il fanese, l’anconetano e l’ascolano. Le frasi di cui si parla vengono elencate in seguito.
A giudizio di Parrino il maceratese non capirebbe la frase fanese a causa della mancanza delle vocali atone e per i nessi consonantici estranei di tipo b+s o l+m. Farebbe meno fatica ad intendere la frase in anconitano anche se presenta alcune alterità come l’inte, l’el o il -g- nella parola digu. Per la frase ascolana sarebbe in grado di riconoscere la monotona riduzione ad e di o,u,i e la dittongazione. Il maceratese, essendo abituato a distinguere lu/lo e -u/-o (lu kǫre, lu tẹmbu), si accorgerebbe che a Fano si dice el kǫr/el pẹl, ad Ancona el digu/el kǫre e ad Ascoli lu ti̯ẹmbe/lu fridde. Appogiandosi a questa analisi, ed a Devoto, che spiega la quadripartizione regionale sotto l’aspetto storico, anche Parrino è del parere che le parlate marchigiane si distinguano in quattro aree. Ha esaminato i dialetti dei capoluoghi della regione: Pesaro, Ancona, Macerata e Ascoli Piceno. Questo perché ognuna delle città rientra in uno dei territori linguistici rilevati (cf. Parrino 1967b;17). In seguito, verranno dunque esaminate le caratteristiche più rilevanti delle diverse aree. Nel dialetto di Pesaro si manifestano cinque casi di vocalismo tonico: (cf. Parrino 1967b;18)
- Á diventa é̜ in sillaba aperta: -áre > -é̜, -ale > é̜l e anche -áva > -é̜va
- Trové̜, sé̜l e sté̜va che stanno per ‘trovare, sale’ e ‘stava’
- Cambiamento della í lunga a ẹ́ davanti ad un nasale cambia invece per vẽ
- Prẹ́ma, matẹ́na e kucẹ́na
- Cambiamento di í a é̜ in fine parola
- Sé̜, lundé̜ o malé̜
- Cambiamento di ú a ọ́ in fine parola
- Lọ, piọ́, sọ al posto di ‘lui, più’ e ‘su’
- Cambiamento di i̯é̜ a í in sillaba aperta
- Pid, skina e manira al posto di ‘piede, schiena’ e ‘maniera’
Sotto l’aspetto dei vocali atoni invece, Parrino ha constatato quattro caratteristiche tipiche del dialetto.
- Nelle parole proparossitone la vocale finale caduta viene sostituita da una e di appoggio
- Avviene però solo quando anche la vocale atona della penultima sillaba è caduta
- Pesre e serle che stanno per ‘Pesaro’ e ‘sedani’28
- Le vocali atone mediane, in qualsiasi forma si trovino, tendono a scomparire
- Postoniche: femna, tavla, opra e misra al posto di ‘femmina, tavola, opera’ o ‘misura’
- Protoniche: pro, dme, dmanda o msura per ‘però, domani, domanda’ e ‘misura’. (cf. Parrino 1967b;19)
Si può anche osservare che le parole di quattro, cinque o sei sillabe sono propense ad essere sincopate fino a ridurle in bi- o monosillabe. I pesaresi dicono dunque p l avní che significa ‘per l’avvenire’ o stme ‘settimane’.
- Mantenimento delle vocali iniziali
- M askolteva, l ospidel e s afaneva (cf. Parrino 1967b;19)
Esse vengono spesso accompagnate da una parola uscente in consonante alla quale Parrino assegna la causa del mantenimento delle le vocali iniziali. Perlopiù il pesarese tende a creare una protesi vocalica che si vede dall’uso di l istess invece di lo stesso.
- Cambiamento di er > ar in sillaba atona e di -ere > -a per gli infiniti della terza coniugazione
- Par, carvel, arbetta per ‘per, cervello, erbetta’
- Essa, rida, perda al posto di ‘essere, ridere, perdere’ (cf. Parrino 1967b;20)
Dopo aver esaminato le varie vocali nel pesarese, Parrino si concentra sul consonantismo. Esso presenta i seguenti tratti caratteristici:
- Consonanti intense si semplificano, tranne la s intensa
- Skapa, vaca, cità ‘scappa, vacca, città’
- Tendenza di sonorizzazione delle occlusive sorde dentali e velari fra vocali o vocali+r
- Bud, lumega, pudrá ‘bevuto, lumaca, potrà’
Anche riguardo alla p si hanno alcuni esempi di sonorizzazione, come ad esempio saveva inteso come sapeva, che diventa anche fricativa.
- Inalterabilità delle consonanti specialmente dopo nasali
- Temp, tant, gamba ‘tempo, tanto, gamba’
- Mantenimento delle consonanti finali l,r dopo la caduta di una vocale finale
- Zinel, fator (cf. Parrino 1967b;20)
Parrino ha rivelato che nella coniugazione verbale cadono la r nell’infinito e la t nella seconda persona plurale sia dell’indicativo presente e futuro, che dell’imperativo. Nel pesarese si dice infatti, kanté, avé, sentí, kantari o avrí.
- Mantenimento di v intervocalica
- Trova, karnevel, feva ‘trova, carnevale, avuto’
- Presenza di incontri di consonanti anorganiche
- L mlanze, mes d magdifet ‘le melanzane, mese di maggio‘
- Cambio di j > g
- Gova, gorne, og
- Cambio di lj > i
- Ai, mei, i om ‘aglio, meglio, gli uomini’
- Cambio di re > ar in protonia
- Armana ‘rimanere’
- Pronunciazione di s sonora in posizione intervocalica e davanti ad una consonante
Oltre a tratti del vocalismo e del consonantismo il dialetto pesarese si distingue anche nelle caratteristiche lessicali, morfologici e sintattici. Parrino elenca nove tratti: (cf. Parrino 1967b;21)
- Plurali in ai, ei, oi da singolari in ál, él, ól
- Kavei, poi ‘capelli, polli’
- L’articolo determinativo maschile: el (sg.), l (sg., davanti a vocale), i (pl.), i (pl., davanti a vocale)
- El zukre, l om, i stivei, i om
- Per analogia: articolo al plurale i/le e aggettivo dimostrativo ki/kle
- Stori, storle; kuesti, kuestle
Questo tipo di fenomeno ha dato vita alle forme in -le per il femminile plurale nei pronomi, negli aggettivi indefiniti, nei participi aggettivi, negli aggettivi qualificativi e infine anche nei sostantivi come ad esempio diversle, pokle, fatle, fermle, pupazetle (cf. Parrino 1967b;21-22).
- Rafforzamento del soggetto dal pronome personale in coniugazioni verbali
- El vent el tira, el m a dit un kuntade
- Quando il soggetto è pronome personale: me a so, t sa te ‘io sono, sai tu?’
- Inclusione del pronome nella forma verbale nella seconda pers.pl. del condizionale presente e imperfetto indicativo
- Starissvi, ervi, dcivi ‘stareste, eravate, dicevate’
- Uso della terza persona singolare al posto della terza plurale
- I me kiema, fa i piano ‘mi chiamano, fanno i piangioni’
- Agglomerazione di pronomi personali pleonastici del tipo a me mi
- Ma me m vnud ‘a me è venuto’
- Costruzione del complemento oggetto con preposizione
- El ved ma me, bastone ma i somar
- Forme lessicali interessanti:
- Ma per a: ma me
- Sa per con: insiem sa me
- Int per in: int un lamp (cf. Parrino 1967b;22)
Il dialetto di Ancona non presenta secondo Parrini cambiamenti sotto l’aspetto del vocalismo tonico, cosa che non si può contare per il vocalismo atono che ha:
- Vocali atone finali in proclisi dopo l, r possono scomparire
- Kuel, par, bel
- O e u atoni finali come o molto chiusa o u molto aperta
- Digu, eru, miu ‘digo,ero,mio’
- La o non accentata passa a u in sillaba postonica e protonica, sia atona che semitonica
- Surela, ankunetano, kum mama
- E > i in protonia
- Rispiru, itá, spirenza
- Limitata scomparsa delle vocali atone mediane, solo in e+r
- Libru, intressa, pr un
- Scomparsa delle vocali atone iniziali
- Norante, ceta, cende ‘ignorante, accetta, accendere’
- Er > ar in sillaba atona
- Avaría, parlaró, maskarina (cf. Parrino 1967b;23)
Per il consonantismo Parrino elenca:
- Semplificazione delle consonanti intense
- Kapelo, kuatru, mama
- Tendenza di sonorizzazione dell’occlusiva sorda velare fra vocali
- Gregu, digu
- Inalterabilità delle consonanti, specie dopo nasali
- Tempu, tamburo, mondu
- Apocope per
- -re dell’infinito dei verbi: mana, vede, batte
- –ne di –ane, -ene, -one: pa, ka, leo, be
- –no di –ano, –ino: ma, pia, vi
- –te di –ete, –ite della seconda persona plurale dell’indicativo presente e futuro e dell’imperativo: se, vedre, parti
- Tendenza di scomparsa di v intervocalica
- Bee, davero
- Rifiuto di incontri di consonanti anorganiche estranei al toscano tranne l,n,r davanti a s
- Dal stomigu, el siropo
- Cambio j > g
- Gova, guvineta, mago
- Cambio lj > i
- Aiu, voiu, meiu
- Cambio re > ar in protonia
- Arfa, arivolta
- Metatesi di r in consonanti+r+vocale+consonante diventa consonante+vocale+r+consonante (connesso con fenomeno anteriore)
- Umberlí, fartelu, burdeto
- Sonorizzazione di s davanti a consonante sonora e in posizione intervocalica
- Kosa, kiesa, asola, osimo (cf. Parrino 1967b;23-24)
Sotto l’aspetto morfologico, lessico e sintattico l’anconetano presenta le seguenti caratteristiche:
- Uso frequente di te al posto di tu
- Te dicevi, tira te
- Articolo determinativo maschile: el (sg.), l (sg., davanti a vocale), i (pl.) e i (pl. davanti a vocale)
- El fiolo, l omo, i fioli, i omi
- Analogicamente da el anche kuel,kui e del,di
- Aggettivo dimostrativo
- Kul, kula, ki, kule ‘quello, quella, quelli, quelle’
- Alcune coniugazioni verbali
- Sai accanto a sei ‘sei’
- Esse per sii
- Ene ‘(essi) sono’
- Manami ‘mangiavamo’
- Uso della terza persona singolare al posto della terza plurale
- C e trope skale, se soie le kampane
- Agglomerazione di pronomi personali pleonastici del tipo a me mi
- A me me basta, ai pessi i spunta do tre teste
- Costruzione del complemento oggetto con preposizione
- Guarda a no, vole a me
- Alcune forme lessicali interessanti:
- Int per in
- Ankora per anche
- Perkosa per perché (cf. Parrino 1967b;24-25)
Una volta chiusa l’analisi del dialetto anconetano, Parrino passa ad esaminare il dialetto maceratese che si trova nella terza area dei quattro dialetti marchigiani. Nel vocalismo tonico presenta questi tratti tipici:
- Á,í,ú rimangono invariati, mentre é̜,ẹ́,ó̜,ọ́ possono cambiare se la vocale finale termina o terminava in a,e,o
- I dittongi i̯é̜ e u̯ó̜ non si usano
- Męle, tęne, cǫre, vǫle ‘miele, tiene, cuore, vuole’
- Metafonetica di i e u finali
- é̜ > ẹ́: bẹ́llu, ccẹ́nni, prẹ́ti
- ó̜ > ọ́: bọ́nu, mọ́ri, vọ́
- ẹ́ > í: issu, mitti, milu
- ọ́ > ú: sulu, ruppi, fiuri (cf. Parrino 1967b;25)
Da questi esempi di metafonia Parrino evidenzia che il fenomeno deriva dal dialetto ciocaresco della regione del Lazio e che quindi è stato influenzato da esso.
Per il vocalismo atono si hanno invece le seguenti caratteristiche:
- Conservazione delle vocali atone
- Killu sinnore, belli fiiiu
- Nelle voci straniere terminanti in consonanti: epitesi: sporte, ammene
- Conservazione di -o e -u finali latine
- Otto, io, diko, kuanno (cf. Parrino 1967b;25-26)
La conservazione delle –o e –u finali latine ha qualche eccezione. Per i sostantivi maschili che indicano una persona la –o muta in –u come si vede in omu, latru, sartu. Quando si ha la forma neutra dell’articolo, pronome, aggettivo o del sostantivo la –u finale cambia in –o. Questo cambiamento vale anche per il numerale, la desinenza della prima persona plurale nella flessione dei verbi, per gli avverbi ed infine, anche per le preposizioni. Si trovano vari esempi tra cui: cendo, diciamo, ello o anche londano.
- Inalterabilità delle vocali atone mediane
- Caduta di vocale atona e del nesso re– in sillaba iniziale
- Rvini, rmane
- Frequente caduta delle vocali atone iniziali, specie in sillaba inizialie di i– e a–
- Nnanzi, kkando, spetto
- Uso frequente dell’articolo determinativo maschile lu
- Lu reloiiu, lu bbetu
- Cambio er> ar in sillaba atona
- Veccarella, venardi, tarina (cf. Parrino 1967b;26)
Il maceratese presenta numerosi casi di consonantismo tra cui:
- Conservazione delle consonanti intense
- Kappellu, veccu, donna
- Rafforzamento sintattico
- Tre ddonne, ke ffai, a kkasa
- Intensificazione di b,l,r,m,n, nelle parole proparossitone
- Subbito, selliru, kammora
- Resistenza alla sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche come anche la velare
- Skutu, patre
- Tendenza di fricativizzazione delle occlusive sonore intervocaliche
- Duvitá, iianna ‘dubita, ghianda’
- Scomparsa di v intervocalica
- Noa, ua, kaallu
- Sonorizzazione delle nasali dopo una consonante come
- Mp > mb: tembu
- Nt > nd: monde
- Nc > ng: ngenne
- Rotacismo di l nel nesso l+consonante e sonorizzazione della consonante sorda seguente ad esempio
- Lp > rb: gorbe
- Lt > rd: ardu
- Lc > rg: farge
- Cambio rs > rz e ns > nz
- Verzo, per zembre, inzemo, un zinnore
- Non c’è incontro di consonanti anorganiche
- U skutu, ko sta fame, u nnokku
- Cambio di j iniziale > gg
- Maggu
- Cambio lj > ii
- Aiiu, fiiiu, meiio
- Pronuncia sorda di s intervocalica
- Davanti a consonante sorda: s
- Davanti a consonante sonora: sv (cf. Parrino 1967b;27-28)
Per i tratti morfologici, sintattici e lessicali riguardanti il dialetto maceratese Parrino elenca:
- L’articolo determinativo lu/li (m.sg. e pl.), la/le (f.sg e pl.) e lo (neutr.) e ll davanti a una vocale per i tre generi
- Lu patre, lo gra, le matre, ll omini
- Distinzione dei pronomi, articoli, aggettivi e alcuni sostantivi al maschile dal neutro e dal femminile
- Illu, ella, ello; bellu, bella, bello; lo ride
- Uso della terza persona al singolare per la terza al plurale
- Babbu e mmamma non g era
- Frequenti ridondanze del tipo a me mi
- A mme mme pizzika
- Complemento oggetto con preposizione
- Imo camato a tte, manna via a ttutti
- Devo da+infinitivo
- Devo da iii, te duvio da parla
- Pronomi, aggettivi e verbi vengono preceduti da se, se introducono un’interrogativa diretta
- Non zacco se kkuanno vene, non de digo se kkuando aggo penato
- Interessanti forme lessicali
- Spiagga per ‘via urbana in forte pendio’
- Gabba al posto di ‘strada di campagna’
- Skikkera per ‘buffetto’
- Sennonge al posto di ‘altrimenti’ (cf. Parrino 1967b;29)
Per ultimo, Parrino analizza il dialetto di Ascoli Piceno, che sarà importante anche per la parte metodologica di questo lavoro, in quanto la città di Grottammare si trovi nella provincia di Ascoli Piceno. Il vocalismo tonico presenta le seguenti caratteristiche:
- Á, í, ú restano invariati, mentre é̜,ẹ́,ó̜,ọ́ restano uguali quando in fine di parola si trovano, o ci sono stati -a,-e,-o
- Metafonia di i e u finali
- é̜ > i̯ẹ́: bi̯ẹ́lle, ti̯ẹ́
- ó̜ > u̯ọ́: bu̯ọ́ne, u̯ọ́mene, vu̯ọ́
- ẹ́ > í: isse, kride, peveritte
- ọ́ > ú: sule, delure, pallú (cf. Parrino 1967b;31)
Da questo tipo di metafonesi si può ipotizzare che sia stato influenzato dal napoletano, come lo dice anche Parrino: “il tipo di metafonesi, come si vede, e quello cosiddetto <<napoletano>>” (cf. Parrino 1967b;31). Riguardo al vocalismo atono il dialetto è caratterizzato da:
- Scadenza delle vocali atone finale a e, (tranne per a) in finale di parola diventa i, se viene preceduto da l/ll
- Dike, kuanne, tiembe, unne
- Mali, karnavali, suli
- Le vocali atone mediane tendono a abbassarsi a e, tranne per a in protonia
- Postoniche: lakrema, lampeda
- Protoniche: trademiente, semare, taveli
- Anteprotonica: premeruse, ngeneccate, peveretta (cf. Parrino 1967b;32)
Questo fenomeno è limitato da tre eccezioni. Quando alle vocali atone mediane precede una l/ll, la e cambia a i (e non a e), come ad esempio per lintana, l irganette. La seconda eccezione prevede il cambiamento di o atono a u quando viene posposto da una g o k. Da esso si hanno parole del tipo pikkula, askuli, vergunnasse. Infine, la o atona passa a e quando è velare: skepierte, kenfiette.
- E protonica con re+consonante rimane invariata
- Remetteme, reveni, revede
- Scomparsa delle vocali atone iniziali
- Ssi, nnelle, nfame
- Scantonamento di iato per l’inserto di un fonema fricativo o semivocalico; eliminazione se sono in finale di parola
- Age, a iiisse, addiie ‘ho, a lui, addio’
- I, do, c a ‘io, due, ci hai’ (cf. Parrino 1967b;32)
Per il consonantismo Parrino elenca:
- Conservazione delle consonanti intense e rafforzamento sintattico
- Intensamento di b,l,r,m,n nella penultima sillaba proparossitona
- Resistenza alla sonorizzazione da parte delle occlusive sorde intervocaliche
- Patre, matre, latre (cf. Parrino 1967b;32)
Rispetto alle occlusive sonore intervocaliche, che secondo il linguista tendono a diventare fricative, purtroppo la grafia usata nei testi dialettali dell’ascolano non permette una verifica.
- Cambio b > v fra vocali o fra vocale+r e b> bb
- La vokka, revasa ‘la bocca, ribaciare’
- Tubbe, ggi vogge bbe ‘tubo, gli voglio bene’
- Scomparsa di g intervocalica quando è davanti a a,o,u
- La atta, li amme ‘la gatta, le gambe’
- Conservazione di v intervocalica per evitare uno iato
- Ce vo, sta vodda ‘ci vuole, stavolta’
- Pronunciazione intensa di g intervocalica
- Raggo, reggistre ‘raggio, registro’
- Cambio j
- In postonica j > gg: magge, pegge
- In protonica: j > i: ioca, ienuocce
- Cambio lj > gg
- Figge, pagga, megge ‘figlia, pagla, meglio’
- Cambio lli > gg
- Kigge, kapigge ceggitte ‘quelli, capelli, uccelletti’
- Si > si
- Kkusi, spuse, kuase ‘così, sposa, quasi’
- Predisposizione di assimilazione totale dei nessi l+consonante e r+consonante
- Regressiva: ld > ll: kalle, reskallasse
- Progressiva: lt > dd: vodda, addre
- Per i nasali+consonanti si hanno gli stessi fenomeni del maceratese come ad esempio
- Nt > nd: sendi
- Mp, np > mb: zamba
- Nc > ng: mangola
- Nk > ng: bbiangite
- Ns > nz: nzieme
- Apocope
- –re negli infiniti: da, veni, esse
- –ne di –ane, -ene, -one: pa, dema, be
- –no di –ano, -ino: ma, gra, taveli
- S intervocalica è sorda e diventa mediopalatale se si trova davanti ad una consonante
- Come nel maceratese (cf. Parrino 1967b;33-35)
Per i tratti morfologici, lessicali e sintattici si vedano:
- L’articolo determinativo lu (m.sg.) la (f.sg.) e li (m. e f. pl.)
- Lu kalle, lu ride
- Numerose duplicanze del tipo a me mi
- Frequente scambio di ausiliari essere e avere nelle forme verbali composte
- So ffatte, e vviste
- Accordanza del participio passato con il complemento oggetto nelle forme verbali composte
- E vviste lu patre
- Uso della terza persona al singolare al posto della terza plurale
- Li freki strilla, li strade e strette
- Interessanti forme verbali:
- Age, stenge, ie, decie ‘ho, sto, sei, dicevo’
- Devo da + infinitivo
- Te deve da parla. Davie da i
- Interessanti forme lessicali:
- Ke, furia, rua ‘in, molto, via’ (cf. Parrino 1967b;35)
Dopo aver analizzato le caratteristiche linguistiche, tipiche per i quattro dialetti diversi, Parrino li confronta e ricava le seguenti informazioni: (cf. Parrino 1967b;36)
- Alcuni tratti comuni ai quattro dialetti:
- Infinitivi apocopati
- Passaggio er>ar in atonia
- Passaggio lj>ĭ
- Nella coniugazione: uso della terza singolare per la terza plurale
- Assenza della preposizione in che può essere sostituita in vari modi
- Ridondanze del tipo a me mi
- Il complemento oggetto animato viene preceduto da preposizione con alcune categorie di verbi
- Il dialetto pesarese è un dialetto settentrionale e legato specialmente al dialetto romagnolo (cf. Parrino 1967b;36)
- Mutamento di vocali toniche non per metafonia
- Caduta vocali atone
- Mancanza di consonanti intensi
- Lenizione occlusive intervocaliche
- Mantenimento dei nessi consonantici
- Il dialetto ascolano presenta più caratteristiche di tipo meridionali, come
- Metafonesi di tipo napoletano
- Caduta delle atone a vocale indistinta
- Scantonamento di iato
- Tendenza di assimilazione dei nessi sonante+consonante
- Scioglimento della velare sonora intervocalica
- Il dialetto maceratese si avvicina molto al dialetto di tipo mediano per fenomeni come:
- Metafonesi di tipo ciociaresco
- Mantenuta di u e o finali latini
- Stabilità delle vocali atone
- Distinzione formale di maschile e neutro per i pronomi, aggettivi, articole e sostantivi
- Il dialetto anconitano sembra essere uno in transizione fra il dialetto settentrionale e il dialetto mediano
- Alcuni tratti settentrionali: assenza metafonesi centro-meridionali, scempiamento delle consonanti intense, lenizione dell’occlusiva velare
- Alcuni tratti mediani: stabilità delle vocali atone, mantenimento di u finale (cf. Parrino 1967b;36-37)
5. Il dialetto di Grottammare
A questo punto si conclude la parte teorica nella quale è stata creata una panoramica più approfondita dello status quo della letteratura di ricerca sui dialetti marchigiani e dell’intento di una sistemazione. Questo è servito per creare una base solida sulla quale lavorare nella parte metodica, ossia per esaminare il dialetto grottammarese. In seguito, verrà presentata e discussa la scelta della forma metodica la quale si basa sull’estrazione di dati dalle carte dell’AIS per Grottammare. Esse verranno analizzate e infine paragonate all’esternazione di due attuali parlanti grottammaresi di oggi. L’obbiettivo sarà quello di arricchire l’inventario sul dialetto grottammarese e di cercare di creare la base per una grammatica adatta alla parlata della città marchigiana. È stata scelta la città di Grottammare perché ha un dialetto assai interessante e inoltre l’AIS offre numerosi dati su cui si basa anche questo lavoro. Essendo una città poco toccata dal turismo e dalle tecnologie più moderne, si può ipotizzare che si tratti di un dialetto autentico e genuino per cui vale la pena studiarlo di più.
5.1. Metodo di ricerca empirico
La scelta di usare le carte dell’Atlante Linguistico ed Etnografico dell’Italia e della Svizzera Meridionale (AIS) è dovuta al fatto che presenta numerosi dati sul dialetto grottammarese e, di seguito, permette un’analisi linguistica e una sistemazione della parlata. L’atlante stesso non è stato creato con lo scopo di una grammaticalizzazione, bensì alla documentazione della realtà dialettale italiana, senza dar peso alle esistenti forme arcaiche idealizzate di allora. Perlopiù l’elevamento dei dati dell’Atlante riconduce all’esternazione di un unico informatore per luogo, cosa che per valutare una lingua intera non è bastante. C’è anche da tenere conto, come dice Krefeld, che:
Der AIS ist natürlich vor dem Hintergrund der Sprachwissenschaft seiner Zeit und ihrer Beschränkungen zu sehen; manches wird heute selbstverständlich anders, wenn auch nicht unbedingt besser, gemacht. Aber, um es emotional zu sagen, je länger man sich mit dem AIS befasst, umso größer wird der Respekt vor dieser wirklich monumentalen Sprachdokumentation: sowohl im Hinblick auf die schiere Quantität der Daten wie hinsichtlich ihrer Präsentation (cf. Krefeld 2019)
I dati raccolti dall’AIS, per il lavoro in corso, verranno dunque paragonati sia alla grammatica di Rohlfs, che anche all‘esternazione di due informanti viventi a Grottammare. Le mappe invece, sono state scelte in base alle diverse categorie grammaticali. Di tal modo sarà possibile studiare la parlata del grottammarese e creare una base linguistica sulla quale si possano appoggiare successivi studi. Le informazioni rilevati dall’AIS che verranno chiesti anche agli informatori moderni di Grottammare vengono elencati nella seguente tabella:
Aspetto grammaticale | Numero mappa AIS | Nome mappa AIS |
Morfologia | ||
Nome
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Pronome
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Pronome possessivo
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Aggettivo qualificativo
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Verbi in -are
Verbi in -ere
Verbi in -ire
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Articolo determinativo
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Articolo indeterminativo
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Sintassi | ||
Frase semplice interrogativa |
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Gli informatori viventi a Grottammare sono due. L’informatore 1 è un uomo di 80 anni. È nato e cresciuto a Grottammare. Gli amici lo definiscono Grottammarese DOC per l’uso del dialetto. Perlopiù non si è fatto influenzare dai cambiamenti moderni che la vita ha portato con se. Questo lo si può vedere, ad esempio, dal fatto che ha compilato il questionario con la macchina da scrivere perché non ha il computer.
L’informatore 2 invece è una donna di 23 anni, nata a San Benedetto del Tronto e cresciuta a Grottammare. Vive dai nonni i quali sono nati e cresciuti a Grottammare e parlano il dialetto grottammarese. L’informatore studia all’università di Urbino. Si fermava lì durante la settimana e tornava a Grottammare per il fine settimana, però, da un’anno vive fissa a Grottammare. Lei stessa si definisce grottammarese.
5.2. Trascrizione e pubblicazione
Dalla trascrizione delle mappe dell’AIS e dalle esternazioni dei due informanti di Grottammare si presenta il seguente quadro:
Nome mappa AIS | Informatore AIS | Informatore 1 | Informatore 2 |
Morfologia | |||
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Sintassi | |||
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6. Analisi linguistica del grottammarese
In seguito, verranno elencati i dati raccolti sul dialetto grottammarese secondo i quali si cercherà di creare una piccola grammatica. L’analisi del questionario permette di dare un’immagine sull’uso del dialetto e come sia cambiato nel giro degli anni confrontando i risultati dell’informatore dell’AIS e dell’informatore 2 con quelli dell’informatore 1 più giovane. Per lo più verrà fatto un paragone, laddove è possibile29, con i risultati rivelati da Rohlfs nella sua Grammatica storica della lingua e dei suoi dialetti. L’AIS, che è stato utilizzato anche come base per la grammaticalizzazione del dialetto di Grottammare, fornisce una quantità particolarmente elevata di dati nel campo della morfologia e relativamente meno per la sintassi. Nel contesto di questa tesi, le due aree linguistiche sono quindi al centro dell’indagine.
6.1. Morfologia
6.1.1. Nomi
Per i nomi si manifesta il seguente quadro:
Informatore AIS | Informatore 1 | Informatore 2 | |
La bambina, i bambini | la frí̜ka tú̜, la frḗ̜k̩α | la friche, li friche | frico, frichí |
La pecora; le pecore | la pḗ̜kwαrα; lẹα pḗ̜kwα̊rα | la pèchere, le pevhère | la pecora a, le pecure |
Il fiore, i fiori | nu fyā́rα; li fyọ̄́rα | lu fiore, li fiore | rimane uguale |
Il panno, i panni | lu pǻnnα, – | lu pagne, li pagne | lu panne, li panni |
Dunque:
-a/-i | -a/-a | -e/-e | -o/-i *-a/-i |
-a/-e | -a/-a | -e/-e | -a/-e |
-e/-i | -a/-a | -e/-e | -a/-i |
-o/-i | -a/- | -e/-e | -e/-i |
Per i nomi in -a che di norma hanno la desinenza in -a/-i o -a/e tutti e tre gli informatori usano desinenze diverse. L’informatore dell’AIS utilizza per tutti i nomi in –a la stessa desinenza. L’informatore 1 invece usa la desinenza in –e appartenente alla terza declinazione, mentre l’informatore 2 si avvicina più alle regole dell’italiano standard, adoperando le desinenze in -o/-i e -a/-e. Essendo richiesto l’ultimo informatore sul sesso di frico, ha detto che è pari a bambino per cui rientra nella categoria dei nomi in -o/-i. Per bambina invece si è corretta dicendo frica. Il plurale frichí invece lo usa per entrambi i sessi. Anche Rohlfs ha attestato il passaggio dei nomi della prima declinazione alla terza declinazione come in arme, grotte o polente. A suo giudizio le forme in -e avrebbero potuto apparire in modo ipercorretto, specie se si dovesse tenere conto che potrebbero essere influenzate dal loro plurale come per la porte: le porti, la persone: le personi (cf. Rohlfs 1968;12).
I nomi con desinenza standard in -e/-i l’informatore dell’AIS e l’informatore 1 usano le stesse desinenze come per i nomi in –a. L’informatore 2 invece usa le finali in -a/-i, avvicinandosi pure stavolta all’italiano standard. L’uso della desinenza in -a, tipica per la prima declinazione, secondo Rohlfs è dovuto al fatto che per questo gruppo di declinazione non è stato precisato il genere per cui si sono creati dei metaplasmi come, ad esempio, abeto e latto per abete e latte. Lo stesso fenomeno si presenta anche nelle esternazioni dell’informatore dell’AIS in fiora. Stando a Rohlfs, nelle Marche il passaggio alla prima declinazione deriva anche dalla caduta o l’indebolimento della vocale finale a ə per cui si hanno vari termini come genta, pella, saluta (cf. Rohlfs;1968;16).
Per i nomi terminanti in –o/-i l’informatore dell’AIS ha dato solo l’uscita in –a per panno, laddove l’informatore 1 resta fedele alla desinenza in –e per il singolare e plurale. L’informatore più giovane utilizza le finali in –e/-i. Alla seconda declinazione Rohlfs ha rivelato l’esistenza sia di nomi al maschile che anche al neutro. Inoltre, anche per questa categoria si hanno passaggi alla terza declinazione come li vediamo anche nel grottammarese panne, pagne (cf. Rohlfs 1968;13).
Paragonando le tre esternazioni, si nota che l’informatore dell’AIS insieme all’informatore 1 usano per tutti i tipi di nomi la stessa desinenza, sia al singolare che al plurale. Sembra ci sia stato un cambio da –a a –e con alzamento di vocale. L’informatore 2 riprende per i nomi al singolare le desinenze dell’informatore dell’AIS. Esso mostra, però, influssi da entrambi gli informatori, cosa che si vede per la desinenza in –e per pecure e pagne. L’informatore più giovane, in generale, usa le desinenze più simili a quelle dettate dall’italiano standard, per cui si possa ipotizzare l’influsso anche dall’italiano standard. Perlopiù distingue sempre i nomi al singolare e plurale, mentre i suoi anteriori non lo facevano.
6.1.2. Pronomi personali
Riguardo ai pronomi personali si presenta il quadro:
Informatore AIS | Informatore 1 | Informatore 2 | |
Volete che ci vada io? | kẹ̀ vọ̄́ kẹ ćće vági̜ ẹ̋ʸα | che vvù che ce vache ìe? | che vù che ci vache je? |
Bada! Tu versi il vino | kẹ̀ ttu̜ ú̜ttα lu vé, kẹ ttu({e1} vu({e1}/ttα lu vé | stì attente, stì versènne lu vì | sta attent che tu virs lu ví |
Lui non corre mai/Lei è guarita | ẹ́ssα nαɳ gọ́rrα ma|-/2y/varí̜; s à rvaréydα | cussù nen corre mai/essa sà rvarita | iss non curra mai/essa s’è rimessa |
Che viene da noi | kẹ vé̜ kwa nnā́yα | che vvè cquà nnoi | che vè qua |
Voi lo trovereste in qualche luogo | váy lu trùvaré̜stα | voi lu truvareste in cacche parte | voi lo troverete lu modo |
Loro non guariranno mai | – | lore nzé rvarirà mai | loro non guarisce mai |
Da queste esternazioni esamineremo solo il pronome, dunque:
Informatore AIS | Informatore 1 | Informatore 2 | |
io | eya | ìe | je |
tu | ttu | – | tu |
lui | essa | cussù | iss |
lei | – | essa | essa |
noi | nnaya | nnoi | – |
voi | váy | voi | voi |
loro | – | lore | loro |
Anche per il pronome le esternazioni dei tre informanti presentano varie asimmetrie. Alla prima persona si hanno le forme eya, ìe, je. Esse mostrano un forte influsso dal latino. Infatti, come dice anche Rohlfs, non c’è dubbio che il pronome io si sia sviluppato dal lat. EGO>eo>io (cf.: Rohlfs 1968;131).
Per tu si hanno ttu e tu. Qui le forme si differenziano poco. Da notare è il raddoppiamento consonantico in ttu. L’informatore 1 non ripete la particella tu come lo fanno l’informatore dell’AIS e anche l’informatore 2 ma lo include nella coniugazione di stare come è noto pure nell’attuale lingua italiana.
Alla terza persona singolare lui/lei gli informatori utilizzano le forme derivanti dal latino esso (ipsu). Le esternazioni grottammaresi essa, cussù e iss hanno subito qualche cambiamento, come ad esempio il cambio della finale –o a –a come anche in eya. In più c’è da annotare che l’informatore dell’AIS usa per il maschile lui la forma femminile essa, mentre gli altri due informanti distinguono tra maschile e femminile. L’informatore 2 ha per lui/esso la forma iss, derivante probabilmente da issu. Secondo Rohlfs nell’Italia centrale si hanno le forme elli, dal latino qui, egli che verrà sostituita con lui/lei e che ha forma accusativa tonica. Oltre a questi, nei dialetti moderni ha attestato l’uso di lui, elli, egli, ello ed esso e per analogia: lei, ella, essa, elle, le. Nell’Italia settentrionale e meridionale l’antico pronome elo/ela si sono sviluppati in lui e lei. Allo stesso tempo, però, ha attestato le forme in ésso, essa e isso (cf. Rohlfs: 1968;132-134).
Alla prima e seconda persona del plurale noi si hanno nnaya, nnoi e váy, voi, voi. Come in ttu anche per noi si ha il raddoppiamento consonantico. In nnaya, oltre al raddoppiamento, c’è stato un cambio intervocalico da –o a –a. L’aggiunta di –ya potrebbe derivare, a giudizio di Rohlfs, dall’uso della forma composta noialtri come lo si trova, ad esempio, nel dialetto di Ancona dove si dice nojaltri, vojaltri o a napoli nujə (cf. Rohlfs 1968;134).
L’ultima persona al plurale ha lore e loro provenienti dal latino illorum. L’uso di lore potrebbe derivare dal Veneto dove al pronome viene aggiunta la desinenza maschile e femminile lori, lore per essi e esse. Rohlfs rivela l’uso frequente di loro al posto di egli nella Toscana e nel Settentrione, dalla Toscana fino alla linea Roma-Ancona lo si utilizza per entrambi i generi (cf. Rohlfs 1968;135).
6.1.3. Pronomi possessivi
Per i pronomi possessivi si ha il seguente quadro:
Informatore AIS | Informatore 1 | Informatore 2 | |
Mio cugino, i miei cugini | lu kuǵī́nα mí̜; li kuǵī́nα mí̜ | lu cuggine mmì, li cuggine mmì | lu cuggino mmí, li cuggini mmi |
Mia cugina, le mie cugine | la kuǵī́na mí̜, lαͤ kuǵī́nα mí̜ | la cuggina mmì, le cuggine mmì | la cugina mmi, le cugine mi |
Tuo fratello, i tuoi fratelli | frå̄́dαtα; li frαtiyyα tʷú̜, li frαtiyyα tú̜ | fratete, li fratije ttùne | fratete, li fratelli ttu |
Tua sorella, le tue sorelle | sạ̄́rdαtὰ; lẹ su̜ré̜llα tú̜ | sòrdete, le surelle ttùne | sorreta, le sorelle ttu |
Suo cognato, i suoi cognati | lu kuñā́tα sú, li kuñā́tα sú | cugnatete, li cugnate ssù | lu cugnate te su, li cugnate su |
Sua cognata, le sue cognate | la ku̜ñā́ta sú̜, le̜α kuñátα sú̜ | la cugnata ssù, lu cugnate ssune | la cugnate ssu, le cosante ssu |
Il nostro nonno, i nostri nipoti | núnnα, núnnα nó̜strα, – | lu nunne mmìne, li nipote nòstri | lu nun mmi, li nipuoti nustr |
La nostra nonna, le nostre susine | nó̜nna nó᪸ṣtra, leα vrúñαͤ nő̜ṣtrα | la nostra nonne, le nostre vrugne | la nunna mmi, –
|
Il vostro nipote, i vostri nipoti | lu neαpọ̄́tα tú̜; li nαͤpū́tα vó̜strα | lu nipote ttùne, li nipote vòstri | nipoteme, li nopoti mmi |
La vostra nipote, le vostre nipoti | la nαͤpọ̄́tα vó̜stra, leα vó̜strα nαpā́tα | la nipote ttune, le nipote ttune | – |
Il loro zio, i loro zii | lu tsḗα sú; li tsḗa | lu zìe lore, li zie ssù | lu zio ssu, li zie ssu |
La loro zia, le loro zie | la tsā́yα, la tsẹ̄́α sú, la tsā́ya sú, leα tsā́yα | la zia ssune, le zie lore | la zia ssu, le zie ssu |
Anche qui esamineremo solo le esternazioni importanti per questo aspetto:
Informatore AIS | Informatore 1 | Informatore 2 | |
Mio/miei | mì/mì | mmì/mmì | mmí/mmi |
Mia/mie | mí/mí | mmì/mmì | mmi/mi |
Tuo/tuoi | ta,twu/tú | te/ ttùne | te/ttu |
Tua/tue | tà/tú | te/ttùne | te su/su |
Suo/suoi | sú/sú | te/ssù | ta/ttu |
Sua/sue | sú/sú | ssù/ssune | ssu, ssu |
Nostro/nostri | nóstra/ – | mmìne, nostre | mmi/nustr |
Nostra/nostri | nostra/nóstra | nostra/nostre | mmi/- |
Vostro/vostri | tú/vòstra | ttùne/vòstri | me/mmi |
Vostra/vostre | vóstra/vóstra | ttune/ttune | me/mmi |
Il loro/i loro | sú/- | lore/ssù | ssu/ssu |
La loro/le loro | su/- | ssune/lore | ssu/ssu |
Il pronome possessivo della prima persona al singolare e al plurale è mi, con caduta della vocale finale, nelle varie forme. L’informatore dell’AIS è l’unico a non raddoppiare le consonanti. Inoltre, cambiano gli accenti sulla i in base al genere. Quando l’informatore dell’AIS usa il pronome al maschile, si ha l’accento grave (pronuncia aperta), mentre per quelli al femminile mette l’accento acuto (pronuncia chiusa). L’informatore 1 invece non distingue tra i generi e utilizza sia al singolare che al plurale l’accento grave. L’informatore 2 invece ha abolito gli accentri, tranne per mio dove mette l’accento acuto: mmí.
Per la seconda persona dei pronomi possessivi si presenta uno scenario più ampio. Si hanno, infatti, varie forme in tu e te. L’informatore dell’AIS usa per il maschile le forme tu e twu dalla quale si differenzia la forma femminile tà per l’accento grave. In twu c’è stata una lenizione labiovelare. L’informatore 1 invece non distingue tra il genere benché il pronome cambi in base al numero. Per il singolare si ha dunque te mentre il plurale si esterna con ttùne. La vocale finale del possessivo te viene alzata in –e. Il possessivo al plurale invece subisce un raddoppiamento consonantico e viene aggiunta l’epitesi –ne conosciuta anche nel fiorentino e napoletano (cf. Rohlfs 1968;137-139). L’informatore 2 cambia il possessivo solo quando è al singolare maschile o femminile per cui usa te e ta. Il possessivo al plurale resta ttu con raddoppiamento consonantico ma senza l’aggiunta di –ne.
Alla terza persona del possessivo l’informatore dell’AIS usa sú. L’informatore 1 usa per il maschile al singolare te, per il maschile plurale e il femminile singolare ssù e per il possessivo femminile al plurale invece sune. L’informatore non dinstingue, dunque, tra tuo e suo. Ssù subisce un raddoppiamento consonantico e in confronto all’informatore dell’AIS lo pronuncia di forma aperta mediante l’uso dell’accento grave. Sune non viene realizzato analogicamente con l’accento ma continua l’epitesi in –ne. L’informatore 2 utilizza per il possessivo maschile te su e su per il plurale. Non usa accenti o raddoppiamento consonantico e sembra abbia ripreso da entrambi gli informatori unendo te con su. Riguardo al possessivo al femminile adopera ssu il quale si distingue da su mediante il raddoppiamento consonantico.
Il pronome possessivo della prima persona al plurale ha varie forme di nostro e mio. L’informatore dell’AIS usa per il singolare nóstra e nostra dal quale si distingue il maschile per l’accento acuto e la pronuncia chiusa come anche in sú e mí. Per il plurale manca l’esternazione maschile, per il femminile è nóstra. Siccome il plurale è solo uno, cioè nostri, si può ipotizzare che l’esternazione mancante sia la stessa di quella usata per il possessivo plurale al femminile. L’informatore 1, infatti, ha per il plurale nostre dove la vocale finale è stata alzata in -e. Per il maschile plurale sembra usare la forma maschile della prima persona al singolare mmì alla quale però viene aggiunta l’epitesi –ne. Per il possessivo singolare al femminile invece usa nostra come nell’italiano standard. L’informatore 2 al contrario riprende la forma del pronome possessivo singolare al maschile mmí dalla quale si distingue quella al plurale per la caduta dell’accento. L’informatore usa mmi solo per il pronome possessivo al singolare ma resta invariato in base al genere. Per la forma al plurale al maschile è nustr, mentre manca quella al femminile. Si nota che la –o intervocalica è stata alzata a -u e per di più è caduta la vocale finale in -e. Anche qui si può ipotizzare che la forma mancante sia la stessa forma del possessivo al maschile.
6.1.4. Aggettivo qualificativo
Riguardo all’aggettivo qualificativo si presta la seguente immagine:
Informatore AIS | Informaotre 1 | Informatore 2 | |
bello, belli/ bella, belle | bī̜́llα; bbī́yyα/bḗ̜lla,- | – | billo, bello/bella, belle |
verde, verdi | vẹ́rdα; várdα; vẹ̄́rdα | verde, verde, vverde | verde, verde, verde |
Dunque, per la prima classe in -o/-i e -a/-e si ha:
Informatore AIS | Informatore 1 | Informatore 2 | |
maschile | bílla | -,- | billo |
femminile | bélla | -,- | bella |
neutro | bbíyya | -,- | bello/belle |
Per la seconda classe in -e/-i si ha:
Informatore AIS | Informatore 1 | Informatore 2 | |
maschile | verda | verde | verde |
femminile | verda | verde | verde |
neutro | verda | vverde | verde |
Per gli aggettivi qualificativi, riguardo ai generi e i numeri, si può generalizzare l’uscita in –a e –e. Non ci sono desinenze in –o o –i e perlopiù si può costatare un cambio generazionale da –a a –e, per cui oggi si utilizzano solo le forme in –e. A causa di ciò non si ha una divisione chiara dei generi. Anche Rohlfs ha rilevato la variazione del genere nell’uso dell’aggettivo. Per di più ha attestato anche un cambiamento della tonica, causato da metafonia, come ad esempio in nirə: néra, zuoppu: zòppa (cf. Rohlfs 1968;77).
6.1.5. Verbi
I verbi fanno presente il quadro:
Informatore AIS | Informatore 1 | Informatore 2 | |
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Analizzeremo questa categoria in base ai tempi che sono stati chiesti nel questionario, dunque l’indicativo presente e l’indicativo imperfetto e il congiuntivo presente. Questa categoria mostra molta più diversità e molte più insicurezze sull’uso, cosa che si manifesta ad esempio nei dati mancanti. L’informatore 2, infatti, alla domanda perché abbia messo solo le forme al singolare e non al plurale, ha risposto di non sapere l’esternazione adatta al vernacolo grottammarese. Di fatto, usa quelle che impone la grammatica italiana. Inoltre, la scelta dei verbi è basata sull’inventario dato dall’AIS per includere la maggior parte dei dati che nonostante ciò presenta alcune mancanze.
6.1.5.1. Indicativo presente
Per l’indicativo presente dei verbi in -are/-ere/-ire le desinenze sono:
Desinenze | Verbo in -are (trovare) | Verbo in -ere (vendere) | Verbo in -ire (dire, venire) |
– o | a | e| Ø | a | e | Ø | a | e | o
a | e | Ø |
– i | a | e | Ø
|
a | i | Ø | i | i | Ø
í | i | Ø |
– a/e/e | a | e | Ø
|
a | e | Ø
|
i | e | Ø
è | Ø | Ø |
– iamo | áma | eme | –
|
áma | eme | –
|
áma | eme | –
áma | eme | – |
– ate/ete/ite | áta | ete | –
|
áte | ete | –
|
áta | ete | –
áta | -ete | – |
– ano/ono/ono | a | ome | –
|
Ø | Ø | –
|
i | e | –
Ø | Ø | – |
Per i verbi regolari in –are l’informatore dell’AIS usa le desinenze in –a, -a, -a, -áma, -áta, -a. Usa dunque la stessa desinenza per le tutte le persone al singolare e anche per la terza persona al plurale. Oltre a ciò, si può costatare che tutte le vocali iniziali delle desinenze usate dall’informatore dell’AIS sono state cambiata in -a. Lo stesso schema viene usato anche per i verbi in -ere mentre cambia per i verbi in -ire che presentano lo schema: –a, -i, -i/-e, -áma, -áta, -i/ Ø. I verbi in –ire sono verbi irregolari ma paragonando due verbi differenti, cioè dire e venire si presenta un quadro piuttosto simile riguardo alle desinenze usate. Rispetto ai verbi in –are e –ere, l’informatore cambia nei verbi in –ire la desinenza della seconda e terza persona al singolare come anche quella della terza persona al plurale. C’è stato un alzamento della vocale in –a a –e ed –i. L’informatore 1 assume uno schema simile. Paragonando i dati raccolti per le categorie discusse anteriormente anche per i verbi, si nota il cambiamento della vocale in –a, usata dall’informatore dell’AIS, in –e. Ecco che si presenta per i verbi in -are lo schema: –e, -e, -e, -eme, -ete, -one. Oltre a cambiare la vocale, si può vedere che l’informatore 1 distingue tra la terza persona al singolare e quella al plurale mediante la desinenza in -one. Laddove le desinenze dell’informatore dell’AIS mostravano uniformità per i verbi in –are e –ere, l’informatore 1 invece usa le desinenze simili per i verbi in –ere e –ire. Le desinenze infatti sono: -e, -i, -e, -eme, -ete- Ø per i verbi in –ere e -e, -i, -e/ Ø, -eme, -ete, -e/ Ø per i verbi in –ire. Riguardo ai verbi in -are l’informatore cambia la desinenza per la seconda persona al singolare e la terza persona al plurale. Da –e la vocale è stata alzata in –i, mentre la desinenza della terza persona plurale può venir omessa o resa visibile mediante la desinenza in –e. Esso vale anche per la terza persona al singolare. Riguardo alla seconda persona al plurale si ha o la caduta della desinenza, o la si usa con –ete. L’informatore 2 al contrario degli altri informatori tronca la vocale finale, tranne per la prima persona al singolare in dire che termina in –o come nell’italiano standard. Per le persone al plurale mancano i dati a causa di insicurezza da parte dell’informatore. Non sapeva quale sarebbero state le esternazioni adatte al vernacolo e ha aggiunto che usa le desinenze dettate dalla grammatica italiana. Paragonando i dati degli informatori rispetto alle tre persone al singolare, si può notare un avvicinamento all’italiano standard perlomeno per i verbi in –are e –ere. Per i verbi in -ire non si può ipotizzare a causa della caduta delle vocali.
Secondo Rohlfs alla prima persona singolare nell’Italia centrale si esterna mediante la desinenza –o derivante dal latino, mentre per l’Italia meridionale si utilizza la desinenza in -u o – ə. La desinenza della seconda persona nella parte nordoccidentale della Toscana e nella Spezia è caratterizzata dalla mantenuta della vocale finale in -a proveniente dalla desinenza -as. L’uso della desinenza in -a per la seconda persona al singolare si attesta anche nel grottammarese. Per la finale –i, usata anche dagli informatori uno e due, Rohlfs attesta l’uso antico già nei testi letterari. Per non confondere tra la prima e seconda persona al singolare si è sviluppato dunque l’uso enclisi tu alla seconda persona. Riguardo alla terza persona al singolare per le desinenze in –a ed -e in molte aree italiane settentrionali la –e finale è caduta, mentre nell’Italia meridionale passa ad -i. Sulle forme al plurale, per la prima persona, Rohlfs ha rilevato l’uso delle desinenze -amo, -emo e -imo derivanti dal neolatino -āmus, -ēmus e -īmus nella parte dell’Italia settentrionale, nel Lazio, l’Umbria e nelle Marche. Oltre a ciò ha attestato l’uso di -amus anche per le altre coniugazioni nel Lazio meridionale come in putamə, vulamə, vətamə. Questi due fenomeni si vedono anche nel grottammarese, anche se sono poco modificati, per arlávama, venneme, vennáma e vánama. Per la seconda persona secondo Rohlfs le desinenze -ate, éte e -ite si riscontrano nella Toscana, mentre al Settentrione si hanno le forme in -atis che, però, potevano cambiare in -e. Per il grottammarese si può assumere che abbia ripreso come la Toscana le forme dal latino -atis, -etis, -itis. Per la terza persona al plurale Rohlfs ha rivelato l’apocope della sillaba finale delle coniugazioni in i e e per cui si trovano forme del tipo partu, rumpu, piagnu o idu al posto di ‘partono, rompono, piangono, vedono’. Questo fenomeno lo ha localizzato per alcune zone dell’Italia meridionale cioè per il Lazio, l’Umbria e le Marche. Nel dialetto di Grottammare sembra invece più frequente l’identica forma per la prima o terza persona al singolare (cf. Rohlfs 1968;246-257).
6.1.5.2. Congiuntivo presente
Per il congiuntivo presente di andare e stare si presenta la tabella:
vada/stia | váka | putesse i | vaj | stinga | stesse | stija |
vada/stia | vá | putisci i | vaj | stì | stisci | sti |
vada/stia | vá | putesse i |va | sta | stesse | sta |
andiamo/stiamo | yáma | putesse i | – | stáma | stesseme | – |
andiate/stiate | yáta | putesse i | – | stéyta | steste | – |
vadano/stiano | vá | putesse i | – | stà | stesse | – |
Riguardo alle forme per il congiuntivo presente di andare da parte dell’informatore dell’AIS, alla prima persona singolare la –d– intervocalica viene intensificata in –k– per cui si ha la forma váka. La seconda persona singolare e la terza persona singolare e plurale non si distinguono fra di loro. Le tre persone del plurale hanno le desinenze –ama, –ata e –a usate dall’informatore per l’indicativo presente di trovare. Inoltre, per le prime due persone del plurale la consonante fricativa labiodentale sonora v diventa y, vocale anteriore alta labializzata. L’informatore 1 crea il congiuntivo di andare mediante il congiuntivo di potere la quale forma è putesse tranne nella seconda persona singolare putisci. Il verbo mostra quattro fenomeni: alzamento della vocale a –u e da –e a –i, cambio di –ss– intervocalico a –sc– e infine la desinenza –i. Per il verbo andare l’informatore utilizza i che, probabilmente, rappresenta l’infinito di andare nella forma ire e che è stata apocopata. Infine, c’è da ricordare che usa le forme in –e come anche fatto per la coniugazione dei verbi all’indicativo presente. L’informatore 2 crea il congiuntivo simile all’informatore dell’AIS anche se, invece di distinguere la prima persona singolare dalla seconda e terza, cambia la terza persona al singolare e le prime due rimangono uguali. È da notare che la –d– intervocalica cambia in –j e si ha inoltre la caduta della vocale finale. Alla terza persona singolare utiliza va come l’informatore dell’AIS anche se non usa accenti.
Il congiuntivo presente di stare non viene realizzato con lo stesso schema di andare. L’informatore dell’AIS usa forme diverse per tutte le persone, sia al singolare che al plurale. La forma stinga potrebbe essere influenzata dal Lazio dove a Velletri è costatato l’uso della stessa forma (cf. Rohlfs 1968;299). Per la seconda persona, probabilmente, è caduta la vocale in –a per la quale si può ipotizzare l’aggiunta dell’accento. Alla terza persona singolare torna la desinenza in –a. La terza persona mostra analogia con il congiuntivo presente di andare per la desinenza in –a. Lo stesso vale per la prima e terza persona del plurale. L’informatore 1 realizza le prime tre persone del singolare e la prima e terza persona del plurale analogicamente al congiuntivo di andare. Cambia però la seconda persona plurale che prende la forma identica del congiuntivo imperfetto di stare. L’informatore 2 invece, alla prima persona singolare, usa stija. Potrebbe essere stato creato per schivare uno iato mediante l’inserto di –j– oppure ha funzione di intensamento. Per la seconda persona al singolare si attesta la caduta della vocale finale, mentre per la terza persona l’informatore usa sta che è uguale alla terza persona singolare dell’indicativo di stare nell’italiano standard.
Sul congiuntivo presente Rohlfs attesta per le Marche l’uso del congiuntivo di forma trova, trovi, trova per le prime tre persone al singolare. Per il dialetto di Grottammare questo sembra non combaciare (cf. Rohlfs 1968;299).
6.1.5.3. Verbi irregolari: essere e avere
In seguito, verranno analizzati i due verbi irregolari più usati nella lingua italiana: essere e avere.
Essere | Avere | |
sono / ho
sei / hai è / ha siamo / abbiamo siete / avete sono / hanno
|
só | singhe | so
sí | si | sci é | e’ | è sáma | seme | – séʸta | sete | – sáta | e’ | – |
áka | ciache | c’ache
á | cia’ | c’aje á | cia’ | c’ha aváma | ciaveme | – avéta | ciavete | – aváta| cia’ | – |
Entrambi i verbi hanno una coniugazione propria. Per il verbo essere alla prima persona continua la -o finale, tranne per l’informatore 1 che usa singhe. Questo dato potrebbe avere spunto dall’Italia settentrionale visto che per la prima persona singolare di essere in Calabria e nella Campania si dice sónghə. L’informatore dell’AIS e l’informatore 1 però usano la forma abbreviata di sono, cioè só e so. Alla seconda persona si generalizza dal toscano séi che nel dialetto grottammarese viene monottongato in si. L’informatore 2 cambia la fricativa alveolare sorda s– in fricativa postalveolare sorda includendo una –c-. Riguardo alla terza persona viene continuato l’utilizzo di è anche se subisce cambiamenti fonologici come, ad esempio, la pronuncia chiusa per l’informatore dell’AIS e aperta per l’informatore 2. Per la terza persona plurale, probabilmente, vengono continuate le forme antiche semo, siemo e siamo. Da parte dell’informatore dell’AIS l’uso della desinenza -ama sembra essere fatta analogicamente agli altri verbi come lo si vede anche sopra, mentre anche l’informatore 1 continua l’uso di –eme per la prima persona plurale. Alla seconda persona plurale l’uso di sete dell’informatore 1 probabilmente è stato continuato dall’antica lingua letteraria (cf. Rohlfs 1968;268). La forma usata dall’informatore dell’AIS invece sembra essere presa dal latino sĕtis che ha subito dittongazione (ĕ> ey) e infine ha messo analogicamente la vocale finale in –a. Riguardo alla terza persona plurale l’informatore dell’AIS crea sata come per gli altri verbi, mentre l’informatore 1 utilizza la stessa forma della prima persona singolare per cui si ha l’identica uscita.
Per la prima persona singolare di avere la forma áka potrebbe derivare dall’antico bolognese o veneziano dove si usava aço. Per ciache e c’ache la comparsa della consonante c, che viene adottata anche per le seguenti persone, potrebbe essere causata dal latino quid e la quale forma si trova ad esempio nella Toscana meridionale. La seconda e terza persona per l’informatore dell’AIS e l’informatore 1 non c’è diversità. La forma in –a deriva dal latino volgare as, la cui –s è caduta. L’informatore 2 invece distingue tra le due persone. Mentre per la seconda persona cade la fricativa glottidale sorda h, appare alla terza persona che assume la stessa forma usata per l’italiano standard. Gli informatori utilizzano per le forme al plurale invece lo stesso schema come per la coniugazione dei verbi regolari. L’unico cambiamento da annotare è la desinenza –éta della seconda persona usata dall’informatore dell’AIS. Alla terza persona l’informatore usa la forma abbreviata cia’ (cf. Rohlfs 1968;272-273).
Passando all’indicativo imperfetto di essere si presenta l’immagine:
ero | éra | ere | ero |
eri | síva | siri | eri |
era | éra | ere | eri |
eravamo | saváma | savame | – |
eravate | – | savate |- |
erano | érono | ere | – |
Le desinenze usate dall’informatore dell’AIS seguono lo schema dei verbi in –ere all’indicativo presente. Per la prima persona al singolare la –a finale dal latino eram si è conservata. Riguardo alla seconda persona singolare due informatori su tre utilizzano una forma iniziante con s. Oltre all’influsso di avere che da era è passato a eva può èssere stato influenzato dalle regioni adiacenti. Nel romagnolo, infatti, si usa seva, nella Toscana invece appare sevi. Lo stesso vale per la seconda e terza persona al plurale. La terza persona al singolare e plurale invece si sono sviluppate dal latino erat e erant. In entrambi i casi è caduta la –t finale e per l’ultima persona al plurale la –a– intervocalica viene abbassata in –o– dando forma a érono. Come anche nei verbi precedenti l’informatore 1 cambia la vocale -a delle desinenze usate dall’informatore dell’AIS in –e. Alla seconda persona al singolare si può costatare inoltre il cambio della –v– intervocalica a –r– intervocalica. Per la prima persona al singolare e la terza persona al plurale si ha, invece, l’identica uscita ere. I dati raccolti dall’informatore 2 si avvicinano molto a quelli dettate dalla grammatica italiana, bensì la terza persona singolare non è era ma eri. La vocale finale ha subito un alzamento ed è pari alla seconda persona al singolare (cf. Rohlfs 1968;293-294).
Infine, per tutta la classe dei verbi nel grottammarese i dati raccolti mostrano anche i seguenti fenomeni:
- infinito: apocope –re: da’, pute’, vole’
- caduta vocale atona per le persone al singolare: trov, facc, ved, dic
- identica uscita di prima e terza persona al singolare e plurale: trove, venne, ere
- enclisi –me per la prima persona al plurale: stesseme, diceme, faceme
- pronuncia intensa di –n– intervocalica in venire: venne, venneme, vennisci
- ss diventa sc nella seconda persona al singolare per i tempi al passato
6.1.6. Articolo determinativo e indeterminativo
Per l’articolo determinativo si manifesta il seguente quadro:
Informatore AIS | Informatore 1 | Informatore 2 | |
il piede, i piedi
|
lu pé̜; li pí | lu pè, li p`i | lu pè, li pè |
la penna, le penne | na pyu{e1-/}mα; lẹ pyu{e1-/}ma | la pènne, le penne | si dice uguale |
lo zolfo, gli zoccholi | lu sárfα, lu tsárfα, – | lu zòrfe, li ciucchelìtte | lu zolfò |
L’articolo indeterminativo invece presenta il quadro:
Informaotre AIS | Informatore 1 | Informatore 2 | |
uno spicchio d’aglio | na spḗgα | nù spicche d’aje | nu spicch d’aje |
una bella signora | kẹ bḗ̜lla siñā́rα | na bbella donne | na bella zaotta |
un sacco di grano | nu sákkα dα grǻ | nnù sacche de grà | nu sacc de grà |
Da entrambe le tabelle si ha dunque per
Informatore AIS | Informatore 1 | Informatore 2 | |
il/i | lu/li | lu/li | lu/li |
lo/gli | lu/- | lu/li | lu/- |
la/le | na/le | la/le | la/le |
uno | na | nù | nu |
una | – | na | na |
un | nu | nnù | nu |
Riguardo all’articolo determinativo tutti e tre gli informatori usano lu al posto di il e lo. Anche Rohlfs ha rivelato che “Per l’articolo maschile singolare il Meridione non conosce che la forma lu (u) ovvero lo (o) corrispondente al toscano lo. […] Oggi lu è la forma dominante nelle Marche, in Abruzzo, in Puglia, nella Campania meridionale, in parte della Sicilia” (Rohlfs 1968;106). Per il plurale maschile i o gli invece si usa li anche se non si può generalizzare per gli, dato che mancano due dati. Le forme al femminile restano invariate, tranne per l’informatore dell’AIS che usa na al posto di la. Si può ipotizzare che abbia detto una piuma anche se non c’è alcuna attestazione a riguardo. Rohlfs ha rilevato per l’aggettivo determinativo i l’uso di li nella lingua antica. La forma grottammarese li potrebbe essere stata adottata da ciò (cf. Rohlfs 1968;100).
Per l’articolo indeterminativo si usano le varie forme in na e nu. In tutti i casi si ha l’aferesi della vocale iniziale –u. L’informatore dell’AIS è l’unico ad usare la forma femminile in –a per uno, mentre gli altri due informatori dicono nu. In più, l’informatore 1 ha una pronuncia aperta mediante l’uso dell’accento grave. Per una l’informatore 1 e 2 usano entrambi na caratterizzato solo dalla caduta della vocale iniziale. Riguardo all’articolo un invece, resta uguale alla forma abbreviata di uno, cioè resta nu. L’informatore dell’AIS cambia tra uno e un mediante l’uso di na e nu mentre l’informatore 1 distingue entrambe le parole mediante il raddoppiamento consonantico in nnù. L’unico a non distinguere entrambe le forme è l’informatore 2 che ha per entrambi i casi nu. Rohlfs ha localizzato l’uso del maschile nu e femminile na in tutto il Meridione, nel dialetto settentrionale e meridionale passando dalla Romagna fino all’Anconitano, mentre ad esempio nella Toscana si trovano solo alcuni esempi isolati (cf. Rohlfs 1968;113-114).
6.2. Sintassi
6.2.1. Frase (semplice) interrogativa introdotta da pronomi o avverbi
Informatore AIS | Informatore 1 | Informatore 2 | |
Perché taci?
|
pérka tí ṣti tsétta? | perché stì zittu? | perché sti zitt? |
Quanti anni hai? | kwánt ánne a | quant’ànne cià? | quanti anni c’ha? |
Nella norma per la frase interrogativa, che viene introdotta da un pronome o avverbio, il soggetto si pone dopo il verbo. Questo si fa presente nell’esternazione dell’informatore dell’AIS quando dice Perché TU stai zitto? Perlopiù dalla frase interrogativa si possono trarre alcune informazioni sulla frase semplice in generale. Essa è composta da una sola proposizione la quale è nuovamente divisa in un soggetto, un predicato e, se necessario, vari complementi. Entrambi le frasi scelte mostrano la stessa struttura anche nel dialetto grottammarese. Come anche nell’italiano standard il grottammarese permette l’ellissi del pronome soggetto quando è sottointeso nella desinenza del verbo. Questo lo si vede in tutte le frasi, tranne la prima dell’informatore dell’AIS. L’uso doppio del soggetto o viene usato quando la forma del verbo è identica per più persone, come ad esempio per i verbi al congiuntivo presente o quando ha funzione di enfasi. Come già analizzato anteriormente, anche il grottammarese ripete il pronome soggetto al congiuntivo presente. L’uso del pronome tí nella prima frase dell’informatore dell’AIS è dovuta al fatto che non ha coniugato il verbo stare benché il verbo riflessivo di stare, cioè starsi.
Altri fenomeni che si possono trarre dai dati raccolti:
- Cambio e>a
- Verda, perka, kwall’atro
- Cambio e>i
- Quist, iss/issu, virs
- Cambio i>e
- Anne, tsetta
- Cambio o>a
- Panna, pecure, sinara
- Cambio o>e
- Ie, lore
- Cambio o>u
- Nustr
- Cambio i>y
- Pyuema, fyara
- Dittongazione
- Lea, zoatta
- Monottongazione
- Spicche, sti, vu/vo
- Procope
- Ste, llu
- Apocope
- Gra, pè
- Mutamento spontaneo delle vocali toniche con tendenza di abbassamento di un grado
- Pè, pì
- Caduta vocali finali
- Donn, attent, sacc, quant
- Raddoppiamento consonantico
- Bbella, vverde, nnon, lli
- Fricativizzazione l: zorfe
- Labializzazione c>v: pevhère
- Enclisi del pronome intero
- La frika tu, la zia ssu
- Epitesi -ne
- Tune, ssune, nipoteme
- Elisione
- Mi, tu, su
- Lenizione labiovelare kw: kwant, kwall’atro, kwissa
- Sonorizzazione/assimilazione l/r: alto, atre
- Caduta h in ha:a
7. Conclusione e prospettive
Il vasto repertorio di informazioni sui dialetti marchigiani sembra non ridursi quando si cerca di esaminare anche un dialetto specifico di essi. Il dialetto grottammarese ha subito vari cambiamenti che si notano già paragonando i dati provenienti da tre persone di due generazioni diverse, calcolando che l’informatore 12 è del 1940, simile a quello dell’AIS, mentre l’informatore due è nato nel 1997. I dati raccolti dall’informatore 2, infatti, mostrano spesso una vicinanza all’italiano standard. Oltre a ciò, ricordando ad esempio le opinioni di Breschi (1992) e Balducci (2002), le Marche hanno subito influssi dalle altre regioni italiane, influssi che si possono costatare anche per alcuni dati del dialetto di Grottammare. Il grottammarese presenta numerose somiglianze al dialetto di Ascoli Piceno descritto da Parrino (cf. capitolo 4). I fenomeni più comuni sono la scadenza delle vocali finali, l’abbassamento delle vocali atone, l’apocope per i verbi all’infinito, l’articolo determinativo in lu, la e li come anche la frequente identica uscita di terza persona al singolare e plurale. Che la parlata di Grottammare si possa elencare tra i vari tipi dei dialetti marchigiani lo mostrano i fenomeni comuni (alle parlate), ad esempio gli infiniti apocopati, l’uso della terza persona al singolare per la terza plurale e il cambiamento di –ar a –er in atonia.
Riguardo al fatto che la regione dal punto di vista linguistico è stata studiata poco o presenta in ogni caso molte diversità, per la quale non si hanno quasi mai opinioni comuni, questo lavoro ha arricchito i dati esistenti sui dialetti marchigiani. Ha contribuito in special modo a creare dei dati unicamente riguardanti la grammatica del dialetto grottammarese di cui esistevano già molti dati30, che però non furono mai studiati nell’intento di realizzare una grammatica. Inoltre, ha permesso di ampliare le conoscenze sui dialetti della zona di Ascoli Piceno dove si trova la città in questione. La presente ricerca non ha pretese di completezza però offre un’immagine su come si usi il dialetto sotto vari aspetti grammaticali e può fungere come base per seguenti studi approfonditi. Rappresenta un primo tentativo di analisi grammaticale del dialetto di Grottammare.
Un aspetto molto interessante da approfondire potrebbe essere quello di esaminare se, parlando del grottammarese, si tratti di un dialetto a rischio di scomparire. I dati dell’informatore 2 mostrano, appunto, numerosi adattamenti dall’italiano standard e riguardo all’uso dei verbi c’è stata molta insicurezza. Per esaminare ciò bisognerebbe raccogliere più dati da informatori giovani dell’area di Grottammare.
Nonostante i limiti, il presente lavoro può rappresentare un grande aiuto all’avanzamento della ricerca linguistica all’interno della regione Marche. Può anche essere incluso alla discussione sulla classificazione delle varietà dialettali presenti nella regione.
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